11-12-2015
Fà di te stesso un'isola. Mai suggerimento letterario fu più pericoloso. Secondo uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, la solitudine avrebbe come effetto di indebolire il sistema immunitario attraverso un'alterazione dei geni che dovrebbero difenderci dalle aggressioni esterne. Gli esperti dell'Università di Chicago guidati dal prof. John Cacioppo hanno osservato l'attività dei leucociti, cellule immunitarie che in condizioni di solitudine mostrano un'attività alterata a favore di geni pro-infiammatori e contro geni fondamentali per la difesa dagli agenti infettivi. La brutta notizia è che questa debolezza delle difese immunitarie è associata a sua volta a un aumento del rischio di rimanere soli anche in futuro, creando così una sorta di circolo vizioso dal quale è difficile uscire. Il senso di solitudine ha un impatto notevole sulla longevità, paragonabile a quello prodotto da una condizione socio-economica svantaggiata, che invece aumenta il rischio addirittura del 19 per cento. Una meta-analisi firmata sempre dal dott. John Cacioppo e dai suoi colleghi ha indagato in particolare il rapporto fra soddisfazione delle relazioni fra le persone anziane e capacità di sviluppare la resilienza, ovvero la capacità di riprendersi dopo un evento avverso. La sensazione di solitudine può comportare un aumento dei disturbi del sonno e dei livelli di cortisolo nel sangue, alterare l'espressione genica delle cellule immunitarie e aumentare la pressione sanguigna. Anche una ricerca della Ohio State University è concorde nel ritenere la solitudine un fattore di indebolimento del sistema immunitario. Secondo i risultati dello studio condotto da Lisa Jaremka, le persone sole mostrano una maggior produzione di proteine legate alla presenza di infiammazioni, condizione a sua volta connessa con alcune patologie croniche gravi come il diabete, l'artrite, il morbo di Alzheimer e i disturbi cardiovascolari. I ricercatori si sono concentrati in particolare sulla presenza di anticorpi del citomegalovirus, confrontando i livelli delle persone sole con quelli di persone che vantavano maggiori relazioni sociali. Nel primo gruppo il livello era più alto, ma non è una buona notizia perché significa soltanto una maggiore aggressività del virus, che ha trovato vita più facile all'interno di un organismo “debilitato” dalla solitudine, il che ha prodotto un aumento degli anticorpi per tentare di combatterlo. In un organismo più sano, invece, il virus avrebbe faticato molto di più a raggiungere livelli di attivazione tali.
Sono tante ormai le ricerche che sottolineano i pericoli di una vita solitaria, priva o povera di relazioni sociali qualificanti. Secondo un altro studio, riportato dal quotidiano Daily Mail e firmato da ricercatori delle Università dello Utah e della Carolina del Nord, negli Stati Uniti, le persone con un sostegno sociale basso mostrano un tasso di mortalità pari a quello degli alcolizzati. Quello dei ricercatori statunitensi è un meta-studio che prende in considerazione oltre 150 ricerche degli ultimi 30 anni che hanno coinvolto più di 300.000 mila persone. Il coordinatore dello studio, Burt Uchino, spiega: “gli amici e le persone di supporto possono rendere la vita più facile ogni giorno. Possono incoraggiare anche le pratiche per avere una migliore salute, come consultare un medico o fare più esercizio. Possono anche aiutare indirettamente, facendoci credere che si ha qualcosa per cui vivere. Avere relazioni sicure e sentirsi amati fa vivere meglio le persone". Una conferma viene dai risultati di un'altra ricerca della Brigham Young University pubblicati su Plos Medicine. Lo studio dimostra che vivere una vita ricca di relazioni sociali ha un impatto determinante sulla salute, aumentando le possibilità di sopravvivere addirittura del 50 per cento. Gli scienziati hanno messo a confronto gli effetti di una vita solitaria con fattori di rischio per la salute più convenzionali, scoprendo che avere poche amicizie equivale a fumare 15 sigarette al giorno o ad eccedere con l'alcool, è più dannoso di una mancata attività fisica e di qualche chilo di troppo. Per arrivare a queste conclusioni, i ricercatori hanno portato a termine un meta-studio sulla base dei dati provenienti da altre 148 ricerche. Julianne Holt-Lunstad e Timothy Smith, autori della ricerca, hanno commentato: “ci sono molte strade attraverso cui gli amici e la famiglia possono influire in meglio sulla nostra salute, dal calmarci con una carezza al farci trovare un significato nella vita. Quando si è legati a un gruppo e ci si sente responsabilizzati verso le altre persone, il senso di avere uno scopo si traduce nel prendersi maggior cura di noi stessi e caricarci di meno rischi. E questo è un effetto che si può riscontrare a tutte le età”.
A puntare il dito contro la solitudine anche un'altra ricerca firmata da un team di psicologi delle università di Harvard e di Chicago, secondo i quali la solitudine sarebbe anche contagiosa e le emozioni che ognuno di noi sente dentro di sé avrebbero la capacità di trasmettersi facilmente nel corpo sociale che ci circonda. La ricerca ha esaminato le condizioni di 5.000 soggetti nell'arco di un decennio, rifacendosi al Framingham Hearth Study, una grande raccolta di dati iniziata nel 1948 con lo scopo di valutare la diffusione di patologie cardiovascolari nella popolazione nordamericana. Nel complesso, il Framingham ha seguito circa 12.000 persone nell'arco di tre generazioni. I ricercatori di Harvard e Chicago hanno scelto quelle appartenenti alla seconda generazione, arrivando alla conclusione che il sentimento della solitudine, ovvero la massima espressione della propria individualità, avrebbe in realtà un valore e un'influenza collettivi. Nell'articolo pubblicato sul “Journal of Personality and Social Psychology”, il professor Joseph Cacioppo, che ha coordinato la ricerca, afferma: “La solitudine non è proprietà di un singolo individuo; può essere trasmessa anche a individui che non hanno contatti diretti con la fonte originaria del contagio”. Chi dà vita al contagio, per usare le parole del ricercatore, si trova ai margini della rete sociale di riferimento, il che lo spinge a isolarsi sempre di più: “Alla periferia le persone hanno meno amici e la loro solitudine li porta poi a perdere via via quelli che erano rimasti”. È sorprendente notare che, in base allo studio, chi ha un parente o un amico in una condizione simile ha il 52% di probabilità in più di sentirsi solo a sua volta, mentre la percentuale scende drasticamente all'aumentare dei gradi di separazione fra le persone: “I 'soli' interagiscono con gli altri in modo negativo e questo crea umori negativi a domino. L'idea è che il nostro tessuto sociale può consumarsi ai bordi, proprio come i fili dei bordi di un maglione”, sostiene il professor Cacioppo. In una sorta di infernale circolo vizioso, le persone sole avranno meno fiducia negli altri e saranno meno disposte ad allacciare nuove amicizie in grado di strapparle a tale condizione. Si genera così una sorta di virus che, oltre a determinare l'infelicità delle persone in questione, può incidere anche sulla salute fisica delle stesse, attraverso episodi depressivi, insonnia, ansia e altre manifestazioni che riducono la qualità della vita e la sua durata. Tutte queste ricerche ci invitano quindi ad abbandonare ogni proposito di autosufficienza e a guardare con sospetto chi romanticamente esalta il fascino dell'eremita.