18-12-2016
L’inquinamento provoca il diabete tipo 2. La rivelazione, abbastanza sconcertante, viene da uno studio realizzato dai ricercatori dell’University School of Medicine di New York, diretti da Leonardo Trasande, e pubblicato sul Journal of Epidemiology & Community Health. Hanno scoperto che ridurre del 25% gli agenti inquinanti come ftalati, pesticidi e bifenili policlorurati potrebbe portare a circa 150.000 casi in meno, ogni anno. Purtroppo questi prodotti chimici sono ovunque: dai tappeti ai detergenti per la casa, fino a frutta e verdura da agricoltura non biologica. Basterebbe ridurli di un quarto per portare un risparmio al sistema sanitario di oltre 4,5 milioni di euro all’anno. I ricercatori sono arrivati a queste conclusioni partendo da un campione di anziani provenienti dalla Svezia (di età compresa tra i 70-75 anni). Li hanno sottoposti a un prelievo di sangue per misurare la presenza di sostanze chimiche nocive. Poi hanno incrociato questi dati con le diagnosi di diabete tipo 2 che il campione mostrava. Sulla base di tali risultati, sono state poi formulate le stime finali su tutta la popolazione europea.
Di studi che evidenziano la correlazione tra inquinamento ambientale e problemi metabolici ed endocrini, ne sono stati realizzati diversi. Questa è la prima volta però che si prova a quantificare concretamente il danno sia per le persone in termini di salute che per il sistema sanitario in termini economici. «I casi di diabete tipo 2 sono stati stimati usando i dati di prevalenza europei e svedesi, calcolando i costi annuali di trattamento» scrivono gli autori della ricerca. Gli autori hanno calcolato che una riduzione del 25% dell’esposizione a ciascuno dei quattro composti (PCB 153, monoetilftalato, diclorofenildicloroetilene e acido perfluorononanoico o PFNA) darebbe luogo a un calo del 13% della prevalenza di diabete tipo 2. «Percentuale equivalente a 152.481 casi annuali di diabete in meno, con un risparmio di 4,51 miliardi di euro l’anno» precisa il coautore della ricerca Lars Lind dell’Università di Uppsala in Svezia. E conclude: «Questi risultati sottolineano la necessità di un quadro normativo in grado di identificare in modo proattivo sia il rischio chimico di un composto prima che questo venga usato su larga scala, sia le alternative più sicure».
http://jech.bmj.com/content/early/2016/09/19/jech-2016-208006.abstract