01-11-2019
«La promozione della vaccinazione antinfluenzale è una delle politiche di salute pubblica più in vista e più aggressive» scrive Doshi sul British Medical Journal. «Trent’anni fa, nel 1990, negli Usa erano disponibili 32 milioni di dosi di vaccino. Oggi sul mercato americano vengono immesse ogni anno circa 150 milioni di dosi. Questo aumento enorme non è stato dovuto a un incremento della domanda proveniente dalla gente, ma a campagne che hanno insistito su un messaggio semplice e diretto, reso incontrovertibile: l’influenza è una malattia grave, siamo tutti a rischio di complicazioni, il vaccino è di fatto privo di rischi e la vaccinazione salva delle vite». Ma, prosegue Doshi, «il vaccino potrebbe avere meno benefici ed essere meno sicuro di quanto viene detto e i rischi dell’influenza sono sovrastimati». La produzione di vaccino antinfluenzale è cresciuta parallelamente all’aumento del bisogno percepito del vaccino stesso, continua lo studioso. Negli anni ’90 l’obiettivo era diminuire la mortalità da influenza e, poiché la maggior parte delle morti avveniva negli anziani, la vaccinazione era stata indirizzata su di loro. Ma dal 2000 il concetto di chi fosse «a rischio» si è rapidamente ampliato, arrivando a comprendere l’intera popolazione. Oggi le linee guida raccomandano il vaccino dai 6 mesi di età fino alla morte. Ma su quali studi si sono basati i Centers for Disease Control (CDC) americani per formulare tale raccomandazione?
Sostanzialmente due, spiega Doshi; uno del 1995 sulla riduzione del rischio di polmonite che attestava anche «una riduzione dal 27 al 30% di morti per tutte le cause» e un altro secondo cui la riduzione delle morti per tutte le cause arrivava addirittura al 48%. «Se fosse vero, queste statistiche indicherebbero che i vaccini antinfluenzali possono salvare più vite di ogni altro farmaco mai autorizzato sul Pianeta. Fin dal 2005, ricercatori non appartenenti ai CDC hanno sottolineato come appaia impossibile che i vaccini antinfluenzali possano prevenire il 50% delle morti per tutte le cause quando si stima che l’influenza causa solo il 5% dei decessi che avvengono nella stagione invernale» dice sempre Doshi.
Quindi, dov’è che questi studi sbagliano? «Prendiamo una ricerca che il CDC non ha considerato e che ha trovato come la vaccinazione antinfluenzale risulti associata a una riduzione della probabilità di morte nei pazienti ricoverati per polmonite. L’elemento insolito era che in questo caso lo studio era stato condotto al di fuori della stagione dell’influenza, quando è dura immaginare che il vaccino possa arrecare qualche beneficio, e gli autori lo sapevano: l’obiettivo era dimostrare che i benefici fantastici che si attendevano e che hanno trovato (e che anche altri hanno trovato, come i due studi considerati dai CDC) sono semplicemente non plausibili e sono il risultato del fatto che vengono vaccinati anche i sani. Gli utilizzatori sani rischiano quindi di rendere non credibili gli studi osservazionali».
Le stesse linee guida dei CDC lo ammettono: «…gli studi che dimostrano una forte riduzione dei ricoveri e delle morti tra gli anziani vaccinati sono stati condotti utilizzando database clinici e non hanno misurato le riduzioni dell’influenza confermate in laboratorio. Tali studi sono stati contestati poiché si teme che non abbiano adeguatamente controllato le differenze nella propensione alla vaccinazione, che è maggiore nelle persone sane».
Si chiede dunque Doshi: «Se non si può credere agli studi osservazionali, quali sono le evidenze che attestano che i vaccini antinfluenzali riducono la mortalità negli anziani? Di fatto non ce ne sono. C’è un solo studio randomizzato sui vaccini antinfluenzali nelle persone anziane, condotto trent’anni fa, che non ha mostrato diminuzioni nella mortalità. Ciò significa che tali vaccini sono stati approvati per gli anziani malgrado non ci siano studi che dimostrino una riduzione di complicanze gravi. L’approvazione è stata basata solo sulla capacità del vaccino di indurre la produzione di anticorpi, senza alcuna prova che tali anticorpi si traducano in una riduzione della malattia». Le campagne per promuovere la vaccinazione antinfluenzale lasciano intendere che tale farmaco possa fare soltanto bene, quindi non c’è nemmeno bisogno di valutarne rischi e benefici. Ma è proprio così?
Nell’ottobre 2009, i National Institute of Health americani sostenevano in un video che era molto raro, pressoché impossibile, che si manifestasse qualche evento avverso dopo la vaccinazione contro l’H1N1. Qualche mese dopo l’Australia ha sospeso le vaccinazioni nei bambini sotto i 5 anni dopo che molti piccoli avevano manifestato convulsioni febbrili. In Svezia e Finlandia quel vaccino fu associato a un picco di casi di narcolessia tra gli adolescenti. «Le aziende farmaceutiche sanno da tempo che per vendere un prodotto, devi prima vendere alla gente la malattia» è l’amara conclusione di Doshi. «Io penso che l’influenza sia un caso di “disease mongering”. Ma a differenza di altre situazioni, qui i venditori sono gli operatori della salute pubblica». Sul sito dei CDC si leggono numeri di decessi per influenza che possono andare da 3 mila fino a 49 mila. Ma le morti registrate per influenza sono andate diminuendo nettamente nel ventesimo secolo prima che partissero le grandi campagne di vaccinazione degli anni 2000. E non si dimentichi che ogni anno centinaia di migliaia di casi di patologie respiratorie sono oggetto di analisi nei soli Stati Uniti e in media solo il 16% viene trovato positivo all’influenza.