08-01-2015
Nelle donne in post-menopausa l'utilizzo dell'antidolorifico naprossene è associato a un aumento del rischio di ictus e di infarto. Lo segnala uno studio apparso su Circulation e firmato da ricercatori dell'Università della Florida. Anthony Bavry, uno degli autori, spiega: "era già noto che gli antinfiammatori non steroidei (Fans) inibitori selettivi dell’enzima COX-2 incrementano le probabilità di eventi acuti cardiovascolari, ma dai nostri dati emerge il medesimo rischio anche per i Fans che lo inibiscono in parte". Il naprossene, un inibitore parziale di COX-2, è legato a un aumento del rischio di morte per ictus e infarto del 22 per cento. I Fans agiscono inibendo la ciclossigenasi (COX), un enzima coinvolto nel controllo dell'infiammazione che mostra la presenza di 2 sottotipi: COX-1 e COX-2. "Studi precedenti hanno dimostrato che l'inibizione specifica di COX-2 accresce le probabilità di attacchi di cuore e ictus, tanto che anti COX-2 come rofecoxib (Vioxx) e valdecoxib (Bextra) sono stati ritirati dal mercato per motivi di sicurezza a metà degli anni 2000", spiega Bavry.
I ricercatori hanno studiato il rischio cardiovascolare negli inibitori parziali suddividendoli in due categorie, quelli che generano un'inibizione di COX-2 più di COX-1 e quelli che si comportano in maniera opposta. Utilizzando i dati relativi a oltre 160mila donne in post-menopausa che hanno preso parte alla Women's Health Initiative, una serie di studi iniziati nel 1991 per sperimentare gli effetti della terapia ormonale. Il dott. Bavry sottolinea: "tra i Fans da banco, il naprossene era il più usato della prima categoria, mentre l'ibuprofene era il più utilizzato di quella opposta. Per questo i nostri risultati sono in gran parte riferiti a questi due farmaci. Molti pensano che il naprossene sia sicuro, ma alla luce di questi dati le donne in post-menopausa dovrebbero decidere con il loro medico se il farmaco è giusto per loro", conclude il ricercatore americano.
Un altro studio segnala il nesso fra utilizzo dei Fans in genere e aumento del rischio di fibrillazione atriale. Lo dice una ricerca pubblicata sulla rivista Bmj Open da Bouwe Krijthe e dai suoi colleghi del Dipartimento di Epidemiologia dell'Erasmus Medical Center di Rotterdam. Il meccanismo alla base dell'associazione non è del tutto chiaro, come spiega il ricercatore olandese: “l’obiettivo dello studio era indagare se l’uso di Fans è associato a fibrillazione atriale in uno studio prospettico di coorte, di popolazione, con dati precisi sui casi incidenti di fibrillazione e informazioni complete sull’uso dei farmaci e potenziali fattori confondenti”.
La ricerca ha coinvolto 8.423 partecipanti al Rotterdam Study, di cui fa parte un campione di anziani con età media di 68,5 anni residenti nel quartiere Ommoord. Dopo aver eseguito un ECG a riposo, i partecipanti sono stati seguiti a ogni visita successiva con un nuovo elettrocardiogramma, e nel contempo gli scienziati hanno monitorato l'uso dei Fans attraverso l'ausilio della rete di farmacie. In tal modo hanno diviso i soggetti in diversi gruppi: utilizzatori da meno di 14 giorni, per un periodo tra 15 e 30 giorni e oltre i 30 giorni; ex utilizzatori, che non avevano assunto i farmaci nell'ultimo mese, negli ultimi 6 mesi e oltre i 6 mesi; e infine i non utilizzatori. Nel corso del follow up, durato 12,9 anni, 857 partecipanti hanno sviluppato una forma di fibrillazione atriale. Al momento della diagnosi 261 non avevano mai utilizzato Fans, 554 li avevano usati in passato e 42 li stavano tuttora utilizzando. Dopo aver aggiustato i fattori di rischio cardiovascolare e aver considerato età e sesso, è emerso che l'uso di Fans per un periodo di 15-30 giorni si può associare a un aumento di rischio significativo di insorgenza del disturbo, ancora più evidente nei soggetti che avevano smesso di assumere farmaci il mese precedente. Del resto, i rischi per il cuore connessi con l'utilizzo dei Fans era già emerso in precedenti analisi. Una ricerca pubblicata sulla rivista Lancet da un team dell'Università di Oxford guidato da Colin Baigent in collaborazione con Carlo Patrono della Cattolica di Roma si è concentrata in particolare sui principi attivi diclofenac e ibuprofene, mentre al contrario il naprossene non sembra essere associato allo stesso pericolo. Lo studio prevede 3 infarti in più per ogni 1000 pazienti trattati con Fans, dei quali uno ha esito fatale. I ricercatori hanno analizzato i dati di 639 trial clinici per un campione totale di oltre 300 mila persone, verificando le singole situazioni cliniche dei pazienti, affetti da patologie diverse. La ricerca ha peraltro confermato un'intuizione legata ad analisi precedenti, ovvero il rischio maggiore di infarto legato in particolare ai Fans di nuova generazione, sviluppati per ridurre gli effetti sull'intestino provocati dalla prima generazione di questi medicinali. Questi nuovi farmaci, definiti inibitori selettivi dell'enzima COX-2, come ad esempio celecoxib ed etoricoxib, innalzano il rischio di un qualche evento cardiovascolare per chi li assume in maniera prolungata.
Un altro studio, peraltro, sottolinea il rischio particolare che corrono le persone che hanno già avuto un infarto. In questo caso, se si sopravvive a un attacco cardiaco, fra le altre cose bisognerebbe prestare molta attenzione al consumo degli antinfiammatori, che aumenterebbero il rischio di decesso per un secondo infarto, stando ai risultati di una ricerca pubblicata sulla rivista specializzata Circulation. La ricercatrice Anne-Marie Schjerning Olsen dell'Università di Copenhagen, responsabile dello studio, spiega: “è importante che passi il messaggio ai medici che prendere questi farmaci dopo un infarto è pericoloso anche dopo diversi anni dall'attacco di cuore". Nel corso dell'analisi i ricercatori hanno preso in esame quasi 100 mila casi di soggetti sopra i 30 anni che avevano subito il primo attacco cardiaco fra il 1997 e il 2009. Di questi, quasi la metà, il 44 per cento, aveva assunto poi dei farmaci antinfiammatori. In questo sottocampione, il rischio di morte saliva del 59 per cento dopo un anno e del 63,5 a cinque anni dalla crisi cardiaca. Nello specifico, il rischio di morire per un secondo infarto o comunque per un problema connesso con l'apparato cardiovascolare era più alto del 30 per cento dopo un anno e del 41 dopo cinque anni, eliminati i classici fattori di rischio come il sesso, l'età, la condizione socioeconomica e la presenza di altre patologie.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25006185
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Bmj+Open+Bouwe+Krijthe