Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

11-02-2015

E' anche lo zucchero e non soltanto il sale il nemico di chi soffre di pressione alta. Lo zucchero, infatti, sembrerebbe, anche in virtù di studi svolti su larga scala, avere una correlazione molto più stretta del sodio con la pressione alta, perché se assunto in quantità elevate stimolerebbe un'area del cervello (l'ipotalamo), che provocherebbe a sua volta un aumento del battito cardiaco e della pressione sanguigna. E' quanto emerge da una ricerca Usa, guidata dal Saint Lukès Mid America heart institute in Kansas City, pubblicata sulla rivista American journal of cardiology. In particolare, ad essere messe sotto accusa dagli studiosi sono le bevande gassata e zuccherate di cui si fa spesso largo consumo, responsabili secondo i dati della ricerca di picchi di ipertensione che portano ad un'estrema quanto pericolosa variabilità nella pressione arteriosa, che può aumentare anche le possibilità di andare incontro ad un infarto. Secondo il dottor James Di Nicolantonio, che ha condotto lo studio, «già solo per questo lo zucchero deve essere considerato un predittore di rischio cardiovascolare, per questo bisognerebbe consigliare a chi soffre di pressione alta di tagliare anche lo zucchero».

 

http://www.dailymail.co.uk/health/article-2755288/Sugar-worse-blood-pressure-salt-shock-new-research-reveals.html

11-02-2015

Per verificare se questa tendenza a consumare maggiori quantità di cibo quando si guarda un action movie fosse effettivamente riscontrabile in un campione di soggetti, il dottor Tal e i suoi collaboratori hanno coinvolto 98 studenti e li hanno suddivisi in tre gruppi. Gli studenti del primo gruppo hanno seguito una parte del film “The Island”, diretto da Michael Bay, vero specialista dei film ad alto tasso di adrenalina, ricchi di effetti speciali e di esplosioni fragorose, caratterizzati da montaggio serratissimo e ritmo narrativo assai frenetico. Quelli del secondo gruppo, invece, hanno visionato un tranquillo talk show. Quelli del terzo, infine, hanno visto la stessa parte del film visionata dagli studenti del primo gruppo, ma priva di audio. Tutti e tre i gruppi sono stati impegnati per 20 minuti di visione, durante i quali i partecipanti hanno potuto attingere liberamente alle abbondanti razioni di cioccolato, biscotti, frutta e verdura piazzate accanto a loro.
I ricercatori hanno dunque potuto stabilire che, effettivamente, gli spettatori del film mangiavano un quantitativo di cibo pari al doppio e facevano registrare un introito calorico superiore del 65% rispetto a coloro che avevano visionato il talk show. Anche gli studenti che avevano guardato il film senza audio consumavano maggiori quantità di cibo (36% in più) e apportavano più calorie (45% in più) a confronto di quanti avevano visionato il talk show, un dato che mette in evidenza come anche il sonoro sia un elemento capace di influenzare la nostra tendenza agli eccessi alimentari.
Il dottor Tal e i suoi colleghi ritengono che, per evitare il rischio di mangiare troppo quando si guarda un film che ci coinvolge a tal punto da rendere quasi meccanica l’introduzione di cibo in bocca bisogna fare in modo da evitare di tenere a portata di mano porzioni di snack molto abbonanti, quindi è opportuno astenersi dal tenere accanto a sé un pacco intero di patatine o un recipiente di pop-corn. Casomai, rilanciano gli esperti, si potrebbe approfittare della distrazione che spinge a mangiare compulsivamente per incrementare il consumo di frutta e verdura, preparando dunque un ricco spuntino vegetale, opzione decisamente più salutare rispetto agli snack.

 

http://www.reuters.com/article/2014/09/01/us-tv-watching-snacking-idUSKBN0GW32L20140901

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/09/140901211533.htm

http://media.jamanetwork.com/news-item/research-letter-viewers-ate-more-while-watching-hollywood-action-flick-on-tv/

http://archinte.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1899554

11-02-2015

Pratiche millenarie per eccezione, la meditazione e lo yoga aiutano a essere più sereni interiormente, ad avere una migliore prestanza fisica e – secondo le ultime ricerche – ottimizzano al massimo le funzioni cerebrali. A detta degli studiosi, tutto ciò potrebbe avere importanti implicazioni anche su persone affette da malattie degenerative e paralizzanti. Per arrivare a tali conclusioni, un team di ricerca dell’Università del Minnesota ha raggruppato più di trenta volontari. Dodici di loro aveva almeno un anno di esperienza di yoga o meditazione per un minimo di un paio di ore alla settimana. Il gruppo di controllo, invece, era formato da 24 partecipanti sani che avevano poca o nessuna esperienza con tali tecniche. Nessuno dei due gruppi, tuttavia, aveva mai avuto a che fare con i sistemi che sfruttano il cervello per controllare un computer.
Ognuno di loro ha quindi partecipato a tre esperimenti di due ore ciascuno nel corso di un mese. I volontari utilizzavano apparecchi ad alta tecnologia collegati al cuoio capelluto in maniera da controllare l’attività cerebrale. Le persone dovevano provare a spostare il cursore sullo schermo del computer immaginando i movimenti che avrebbero compiuto con la mano destra o la sinistra. Chi aveva una certa dimestichezza e familiarità con lo yoga o la meditazione ha dimostrato di avere il doppio delle possibilità di completare l’attività interfacciata cervello/computer. Il tutto è stato stabilito attraverso 30 prove in cui è stata verificata anche la velocità di risposta che era tre volte migliore in chi pratica yoga e affini. «Negli ultimi anni, c’è stata molta di attenzione sul miglioramento computer/cervello e interfacciamenti al computer, ma molto poca attenzione al solo lato cervello», spiega Bin Lui, professore di ingegneria biomedica presso l’Università di College del Minnesota e direttore dell’Istituto dell’Università di Ingegneria in Medicina. Bin Lui è stato oggetto di particolare attenzione mediatica l’anno scorso quando i membri del suo team hanno potuto dimostrare come sia possibile pilotare un robot esclusivamente con la propria mente. Purtroppo in questa fase hanno anche scoperto che non tutte le persone sono in grado fare tutto ciò abbastanza velocemente imparando l’abilità in tempi brevi. Ecco che il nuovo studio ha senz’altro posto l’accento nel vantaggio che possono trarne le persone che costantemente praticano tecniche meditative.

 

http://www.worldscientific.com/doi/abs/10.1142/S233954781450023X

11-02-2015

Lo scopo di questo rapporto è quello di sottolineare l'utilità potenziale per l'uso della melatonina nel trattamento di individui che sono infettati con il virus Ebola. I cambiamenti patologici associati ad un'infezione Ebola includono, in particolare, perturbazione endoteliale, coagulazione intravascolare ed emorragie multiple. La melatonina ha dimostrato di essere utile in queste alterazioni. Da più di un decennio si conoscono le analogie tra infezione da virus Ebola e shock settico. La melatonina è stata impiegata con successo per il trattamento della sepsi in molti studi sperimentali e clinici. Sulla base di questi fattori, poiché il numero di trattamenti attualmente disponibili è limitato, l'uso della melatonina per il trattamento dell’infezione da virus Ebola potrebbe rappresentare una valida alternativa. Inoltre, la melatonina ha un alto profilo di sicurezza, è prontamente disponibile e può essere somministrata per via orale; pertanto, l'uso della melatonina è compatibile in larga scala per questa grave epidemia.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25262626

06-02-2015

Leggere è un’attività non solo piacevole e istruttiva, ma anche salutare. Difatti, come testimoniato da varie ricerche scientifiche, quando si legge si allena la mente, potenziando così la capacità di pensare, la concentrazione e persino l’empatia, ossia la predisposizione a comprendere lo stato d’animo dei nostri interlocutori. E, per le persone più in là con gli anni, la lettura diventa una delle migliori forme di prevenzione rispetto al rischio di declino cognitivo e perdita di memoria. Tra i diversi studi che hanno svolto indagini in tal senso, possiamo ricordarne uno pubblicato lo scorso anno sulla rivista “Neurology” e realizzato da alcuni ricercatori della Rush University di Chicago, Stati Uniti, i quali hanno studiato, per 6 anni, un campione di 294 soggetti di età avanzata tramite questionari relativi alle loro abitudini in fatto di lettura e test che ne misuravano le prestazioni cognitive. In questo modo, gli esperti americani hanno potuto verificare come i soggetti mentalmente più attivi e maggiormente dediti alla lettura facessero registrare un tasso di declino cognitivo decisamente più lento rispetto a coloro che leggevano poco o quasi mai.
Una volta elencati i vantaggi della lettura, occorre fare una precisazione e sottolineare che esiste una condizione indispensabile per poter trarre giovamento da questa attività, cioè quella di tornare alle abitudini che avevamo prima della rivoluzione digitale. Nella fattispecie, dobbiamo staccarci dalla nostra postazione informatica, lasciare spento il pc portatile, il tablet o lo smartphone, prendere tra le mani un libro di carta (o un lettore ebook) e convogliare tutta la nostra attenzione verso quest’ultimo. Diversamente, ossia usando un dispositivo digitale con il quale si ha accesso anche al web, sarà molto più difficile concentrarsi in modo esclusivo sul testo e giungere a una comprensione profonda dello stesso. Difatti, quando usiamo un computer o uno smartphone e leggiamo online, tendiamo a farlo utilizzando il cosiddetto “modello a F”: si leggono per intero le righe del testo collocate più in alto, la metà di quelle presenti al centro della pagina e soltanto il lato sinistro della parte finale della pagina. Questo accade perché, quando siamo connessi su internet, veniamo continuamente distratti dai contenuti multimediali e ipertestuali, che ci impediscono di concentrarci totalmente sulle parole che appaiono sullo schermo.
Proprio a tal proposito, segnaliamo un fenomeno nato negli Usa e in via di diffusione in vari Paesi del Mondo: gli slow reading club, posti nei quali si può restare seduti a leggere e bere qualcosa, al riparo dallo stress e dal ritmo frenetico della vita quotidiana. In questi club sono tassativamente vietati portatili e smartphone, mentre sono ammessi, oltre ai libri di carta, anche i tablet senza connessione internet e, soprattutto, gli ebook reader, dispositivi creati appositamente per la lettura di libri in formato digitale, dotati di schermi con tecnologia e-ink (inchiostro elettronico), la cui resa è molto simile a quella di un testo stampato. Come si legge nel Manifesto dello slow reading, la lettura di testi cartacei è sempre molto apprezzata, ma occorre fare i conti con il presente e con il futuro, quindi con il digitale. Motivo per cui la tecnologia risulta bene accetta, a patto che gli strumenti usati consentano la lettura di libri fatti esclusivamente di parole, senza immagini da visionare o suoni da ascoltare. In questo modo, scrivono gli autori del Manifesto, ci si può temporaneamente isolare dal resto del mondo per immergersi completamente nell’universo parallelo creato dal libro che si sta leggendo, concentrando sui contenuti testuali tutte le proprie risorse intellettuali e immaginative.

 

http://www.sciencedaily.com/releases/2013/07/130704094454.htm

http://www.neurology.org/content/81/4/314

Venerdì, 06 Febbraio 2015 17:20

LE NOCI CONTRO IL CANCRO DELLA PROSTATA.

06-02-2015

Questa nuova scoperta conferma, ancora una volta, che con qualche modifica alle nostre abitudini alimentari possiamo prevenire molto malattie. Alcuni prodotti alimentari sono in grado di modificare i livelli ormonali e permettere che i geni funzionino correttamente e in pieno vigore. Tra i prodotti, come si è scoperto, vi sono le noci. Infatti le noci compaiono ai primi posti nell'elenco dei prodotti più utili per la salute del pianeta. Gli scienziati della California University, Davis City, hanno condotto una serie di esperimenti sui topi. Gli esperimenti hanno dimostrato che una dieta ricca di noci ha ridotto le dimensioni e la crescita del tumore alla prostata. I ricercatori hanno rilevato che i topi che hanno mangiato noci, lo sviluppo del cancro della prostata si è ridotto del 50% rispetto ai topi che non hanno mangiato noci e che sono stati trattati con olio di soia. Gli scienziati ritengono che il segreto risiede nella proprietà, che hanno le noci, di ridurre l'endotelina, sostanza che se aumenta, restringe i vasi sanguigni e ne provoca l'infiammazione che contribuisce al rapido sviluppo delle cellule cancerogene. Gli scienziati sono a conoscenza, da tempo, che le persone affette da cancro alla prostata hanno alti livelli di endotelina.
I ricercatori hanno fatto, consapevolmente, la scelta di una dose giornaliera di una manciata di noci, per l'alimentazione animale, anzichè di integratori di tipo estratto. Il dottor Paul Davis, che ha condotto la ricerca, ha spiegato i motivi che hanno indotto alla scelta di utilizzare le noci al naturale: gli scienziati avevano, precedentemente, constatato che una sostanza di un prodotto alimentare con proprietà di prevenzione contro il cancro, se associato come additivo ad altre sostanze, (per esempio producendo un integratore), nella maggior parte dei casi non conserva alcun effetto profilattico. Le noci sono sature di sostanze indispensabili, tra queste: acidi grassi omega-3, la forma attiva della vitamina E, composti polifenoli e altri antiossidanti. Il dottor Paul Davis, ha affermato che le noci dovrebbero essere assolutamente inserite nel menù alimentare delle persone affette da problemi di prostata.

 

http://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-2835089/Eating-walnuts-day-reduce-chance-prostate-cancer-study-finds.html

http://www.telegraph.co.uk/news/science/science-news/7498161/Walnuts-could-prevent-prostate-cancer-research-finds.html

http://www.medicalnewstoday.com/articles/285472.php

http://www.ucdmc.ucdavis.edu/publish/news/newsroom/9471

 

Venerdì, 06 Febbraio 2015 17:19

ATTENZIONE ALL'ALCOL: NUOCE AGLI SPERMATOZOI.

06-02-2015

Bere alcol, anche in quantità moderate, può provocare un impoverimento e una scarsa qualità dello sperma. A suggerirlo una ricerca pubblicata di recente sulla rivista British Medical Journal Open. I risultati di questo studio, condotto da un gruppo di ricercatori dell’University of Southern Denmark di Copenhagen (Danimarca), indicano che più è alto il consumo settimanale di alcol, peggiore è la qualità dello sperma, suggerendo che i giovani dovrebbero tenere in considerazione questa importante controindicazione. La ricerca è stata condotta su 1221 uomini danesi di età compresa tra 18 e i 28 anni, sottoposti tra il 2008 e il 2012 alla consueta visita medica per l'idoneità al servizio militare (obbligatorio in Danimarca). Alle giovani reclute è stato chiesto quanto alcol avessero bevuto nella settimana precedente all'esame, se fossero soliti consumare alcolici e se ne abusassero o ne avessero abusato nel mese precedente alla visita. Inoltre, i ragazzi sono stati invitati a fornire un campione di sperma per verificarne la qualità e sottoposti a un esame del sangue per controllare i livelli degli ormoni riproduttivi. Il consumo medio di alcol nella settimana precedente all'esame è risultato di circa undici unità, in altre parole quasi due terzi (64 percento) dei ragazzi aveva abusato di sostanze alcoliche, mentre circa sei ragazzi su dieci (59 percento) aveva bevuto più di due volte nel mese precedente alla visita. I ricercatori hanno riscontrato delle variazioni importanti dei livelli ormonali riproduttivi negli individui che avevano fatto uso o abuso di alcol nella settimana precedente all’esame, con effetti sempre più evidenti più alto era il numero di unità consumate. In dettaglio, dagli esami è risultato un aumento dei livelli di testosterone a discapito delle globuline leganti gli ormoni sessuali (sex hormone-binding globulin o SHBG), associazione ancora più evidente in tutti quegli individui che nel mese precedente avevano abusato di alcol più volte.
Quasi la metà dei ragazzi (45 percento, 553) ha affermato che la quantità di alcol dichiarata come bevuta nella settimana precedente ai test era in linea con le loro abitudini. In questi casi, lo studio ha dimostrato chiaramente che maggiore è il consumo di bevande alcoliche minore è la qualità dello sperma, che si traduce in un numero piuttosto ridotto di spermatozoi di forma e dimensione irregolari. Gli effetti dannosi dell’alcol sullo sperma sono risultati evidenti già dalle cinque unità consumate a settimana in su e ancora più manifesti tra coloro che avevano bevuto 25 o più unità a settimana. Tra quelli che avevano fatto uso di più di 40 unità di alcol a settimana rispetto a coloro che ne avevano bevute solo una o cinque, il numero degli spermatozoi è risultato inferiore del 33 percento rispetto alla norma e la percentuale di spermatozoi sani più bassa del 51 percento. Secondo gli autori, questo è il primo studio condotto su uomini giovani perfettamente sani, che fornisce una serie di informazioni dettagliate sulle tendenze relative all’assunzione di alcol mostrando che gli uomini occidentali ne abusano troppo spesso. Questo fattore è senza dubbio un campanello di allarme per la salute pubblica. Resta ora da comprendere se la qualità dello sperma compromesso dall'uso abituale di alcolici possa essere ripristinata astenendosi dal bere o bevendo meno. L’importante, sempre secondo i ricercatori, è che i giovani siano coscienti del fatto che l’alcol può impattare non solo sulla salute in generale, ma anche su quella riproduttiva.

 

http://bmjopen.bmj.com/content/4/9/e005462.full

06-02-2015

I farmaci rappresentano i principali responsabili delle morti provocate da crisi allergiche acute negli Stati Uniti. È quanto emerge da uno studio condotto dai ricercatori del Montefiore Medical Center e Albert Einstein College of Medicine della Yeshiva University pubblicato online nella rivista Journal of Allergy and Clinical Immunology. Lo studio ha anche scoperto che il rischio di reazioni allergiche indotte da farmaci mortali era particolarmente elevata tra gli anziani e afro-americani e che tali decessi sono significativamente aumentati negli Stati Uniti negli ultimi anni. Gli autori della ricerca hanno preso in esame i certificati di morte negli Usa dal 1999 al 2010. “I decessi correlati con l'anafilassi negli Stati Uniti non sono molto ben studiati – afferma la principale autrice della ricerca Elina Jerschow - speriamo che questi risultati aiuteranno ad identificare i fattori di rischio specifici e permettere ai medici di formulare approcci di prevenzione”. Dalla ricerca è emerso che l'anafilassi da farmaco è il 58,8 per cento dei 2458 decessi registrati negli Usa. Le anafilassi alimentari causano il 6,7 per cento dei decessi dovuti allo shock anafilattico. Nel corso dello studio i ricercatori hanno rilevato anche un trend in aumento di questo fenomeno. Nel periodo 1999-2001 i decessi dovuti a shock anafilattico correlato ai farmaci era pari a 0,27 per milione di abitanti. Nel periodo 2008-2010 questo rapporto è salito a 0,51 per milione di abitanti.

 

http://www.jacionline.org/article/S0091-6749%2814%2901190-7/abstract

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/09/140930132506.htm

Giovedì, 05 Febbraio 2015 16:51

DONNE GELOSE ATTENTE: RISCHIATE L'ALZHEIMER.

05-02-2015

Chi soffre di gelosia dovrebbe stare attento e rivedere le sue priorità. Uno studio dell'Università di Goteborg pubblicato su Neurology rivela infatti che le donne di mezza età il cui comportamento è caratterizzato da gelosia, cambiamenti repentini di umore e ansia hanno più probabilità di sviluppare il morbo di Alzheimer in età avanzata. Il gruppo svedese ha somministrato dei test psicologici a un campione di 800 donne a trenta, quaranta e cinquant'anni. Le domande vertevano sulle loro nevrosi, sul senso di colpa e sull'irascibilità, tutte componenti manifeste nel caso si soffra di ansia, gelosia e umoralità. Le volontarie hanno anche risposto a domande sullo stress sul posto di lavoro o causato da eventuali problemi di salute. Al termine dello studio, 153 donne hanno sviluppato la demenza. Le donne che avevano fatto registrare punteggi più alti nei test che misuravano la nevrosi erano anche quelle più suscettibili di sviluppare il morbo di Alzheimer.
L'autrice dello studio, Lena Johansson, spiega: “la maggior parte delle ricerche sull'Alzheimer è dedicata a fattori come istruzione, rischi cardiovascolari, traumi cerebrali, storia familiare e genetica. La personalità potrebbe influenzare il rischio di demenza attraverso il suo effetto sul comportamento, lo stile di vita o le reazioni allo stress. È stimato che il numero di persone con demenza crescerà drammaticamente. È dunque importante identificare i fattori di rischio e quelli protettivi". Clare Walton dell'Alzheimer's Society precisa: “mentre non possiamo controllare le fonti quotidiane di tensione, possiamo sviluppare delle strategia che aiutino ad affrontarle e stiamo finanziando una ricerca che ci aiuti a esplorare in che modo questo possa aiutare a ridurre i rischi di demenza".

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25274849

http://consumer.healthday.com/cognitive-health-information-26/alzheimer-s-news-20/jealous-moody-personalities-may-be-tied-to-higher-alzheimer-s-risk-in-women-692296.html

05-02-2015

I dolcificanti artificiali – promossi come aiuto per la perdita di peso e la prevenzione del diabete – in realtà potrebbero accelerare lo sviluppo di intolleranza al glucosio e malattie metaboliche e lo fanno in un modo sorprendente: cambiando la composizione e la funzione del microbiota intestinale – la popolazione sostanziale di batteri che risiede nel nostro intestino. I risultati degli esperimenti nei topi e nell’uomo, sono stati pubblicati sulla rivista Nature. Il Dr. Eran Elinav del Weizmann Institute of Science’s Department of Immunology, che ha condotto la ricerca insieme al professor Eran Segal del Department of Computer Science and Applied Mathematics, sostiene che l’uso diffuso di dolcificanti artificiali in bevande e cibo, tra le altre cose, può contribuire all'epidemia di obesità e diabete che sta investendo gran parte del mondo. Per anni, i ricercatori si sono interrogati sul perchè i dolcificanti artificiali non sembrano aiutare nella perdita di peso e alcuni studi suggeriscono che essi possono anche avere un effetto opposto. Iotam Suez, del laboratorio del Dr. Elinav, che ha condotto lo studio, ha collaborato con Gili Zilberman-Shapira, Tal Korem e David Zeevi del laboratorio del Prof. Segal per scoprire se i dolcificanti artificiali, che pur non contengono zucchero, hanno comunque un effetto diretto sulla capacità del corpo di utilizzare il glucosio.
Generalmente si pensa che l’intolleranza al glucosio si sviluppa quando il corpo non può far fronte a grandi quantità di zucchero introdotte con la dieta: è il primo passo verso la sindrome metabolica e diabete dell’adulto. Per la sperimentazione, gli scienziati hanno somministrato ai topi, acqua con i tre dei dolcificanti artificiali più comunemente utilizzati, in quantità equivalenti a quelle consentite dalla US Food and Drug Administration (FDA). Questi topi hanno sviluppato intolleranza al glucosio, rispetto ai topi che hanno bevuto acqua senza aggiunta di dolcificanti o anche acqua e zucchero. Ripetendo l’esperimento con diversi tipi di topi e diverse dosi di dolcificanti artificiali, i ricercatori hanno ottenuto gli stessi risultati – queste sostanze hanno in qualche modo, indotto l’intolleranza al glucosio. Successivamente, i ricercatori hanno studiato l’ipotesi che la flora intestinale fosse coinvolta in questo fenomeno. Essi hanno ipotizzato che i batteri potevano essere responsabili dell’intolleranza al glucosio reagendo alle nuove sostanze ossia i dolcificanti artificiali, che il corpo stesso non può riconoscere come alimenti. Infatti, i dolcificanti artificiali non vengono assorbiti nel tratto gastrointestinale e incontrano migliaia di miliardi di batteri nella flora intestinale. I ricercatori hanno trattato i topi con antibiotici per eradicare molti dei loro batteri intestinali; ciò ha determinato un’inversione completa degli effetti dei dolcificanti artificiali sul metabolismo del glucosio. In seguito, hanno trasferito il microbiota da topi che hanno consumato dolcificanti artificiali in topi sterile o ” privi di germi” – con conseguente trasmissione completa dell’intolleranza al glucosio nei topi riceventi. Questo, di per sé, è la prova conclusiva che i batteri intestinali sono direttamente responsabili degli effetti dannosi per il metabolismo del loro ospite, il dolcificante artificiale. Il gruppo ha anche trovato che l’incubazione del microbiota al di fuori del corpo, insieme a dolcificanti artificiali, è stata sufficiente a indurre intolleranza al glucosio nei topi sterili. Una caratterizzazione dettagliata del microbiota in questi topi ha rivelato profondi cambiamenti nella loro popolazione batterica, tra cui nuove funzioni microbiche che sono note per indurre una propensione all’obesità, il diabete e le complicanze di questi problemi, sia nei topi che negli esseri umani. Per indagare meglio la funzione del microbioma umano, il Dr. Elinav e il Prof. Segal hanno esaminato i dati raccolti dal progetto Personalized Nutrition, la più grande sperimentazione umana fino ad oggi realizzata per esaminare il legame tra nutrizione e microbiota. Essi hanno scoperto una significativa associazione tra il consumo di dolcificanti artificiali, le configurazioni personali di batteri intestinali e la propensione all’intolleranza al glucosio. Successivamente i ricercatori hanno condotto un esperimento controllato. Un gruppo di volontari che non avevano consumato cibi dolcificati artificialmente, sono stati invitati a consumarli per una settimana. Il gruppo è stato in seguito sottoposto a test per esaminare i livelli di glucosio e composizione della flora intestinale. I risultati hanno mostrato che molti – ma non tutti – i volontari avevano cominciato a sviluppare intolleranza al glucosio dopo appena una settimana di consumo di edulcoranti artificiali. La composizione della flora intestinale ha spiegato la differenza: i ricercatori hanno scoperto due diverse popolazioni di batteri intestinali umani – uno che ha indotto l’intolleranza al glucosio quando esposto ai dolcificanti, e uno che non ha mostrato cambiamenti in entrambi i casi. Il Dr. Elinav ritiene che alcuni batteri presenti nell’intestino di coloro che hanno sviluppato l’intolleranza al glucosio hanno reagito ai dolcificanti chimici secernendo sostanze che poi hanno provocato una risposta infiammatoria simile al sovraddosaggio di zucchero, promuovendo cambiamenti nella capacità del corpo di utilizzare lo zucchero. Il Prof. Segal afferma: “I risultati dei nostri esperimenti sottolineano l’importanza della medicina personalizzata e della nutrizione per la nostra salute generale. Noi crediamo che un’analisi integrata e individualizzata del nostro genoma, microbioma e abitudini alimentari, potrebbe trasformare la nostra capacità di comprendere come gli alimenti influenzano la salute e il rischio di malattia di una persona“.

 

http://www.nature.com/nature/journal/v514/n7521/abs/nature13793.html

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/09/140917131634.htm

http://wis-wander.weizmann.ac.il/gut-bacteria-artificial-sweeteners-and-glucose-intolerance#.VM9QCvpdXQO

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