Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

24-01-2018

Una nuova terapia per l’autismo nel trapianto della flora batterica. È questo il barlume di speranza dato da uno studio condotto da diversi atenei americani e pubblicato sulla rivista scientifica Microbiome. Lo studio è stato condotto da Ann Gregory della Ohio State University e parte dal presupposto che una delle possibili cause dell’autismo potrebbe risiedere in problemi dell’intestino. Il collegamento tra i due elementi non è nuovo. Già da qualche anno, infatti, gli studiosi hanno iniziato ad indagare la composizione dei microorganismi intestinali di soggetti affetti da autismo. Nel 2017, i ricercatori del CNR e dell’Università di Firenze hanno condotto alcune ricerche per comprendere se i fattori ambientali possono incidere sullo sviluppo della malattia.
La ricerca, coordinata da Carlotta De Filippo dell’Istituto di biologia e biotecnologia agraria (IBBA-CNR), ha analizzato i microrganismi presenti nell’intestino di soggetti affetti da autismo. Lo scopo era verificare la presenza di difformità con il microbiota intestinale di soggetti sani, individuando eventuali marcatori. Un modo per capire se il microbiota intestinale ha un ruolo nello sviluppo della malattia e, in ultima analisi, se fattori ambientali e alimentari possono influenzarla.
Questo quanto affermato dai ricercatori: «Nei soggetti presi in esame, il profilo di cinque generi microbici e uno fungino, inclusi i coliformi, Clostridium e Candida, appaiono aumentati al crescere della gravità dei sintomi. Abbiamo inoltre riscontrato la presenza di Escherichia coli, un batterio rivelatore di stati infiammatori».
Il trapianto della flora intestinale è un intervento che oggi viene adoperato per trattare infezioni gravi e incurabili. Questo perché si ritiene che ripristinare la flora batterica possa aiutare a curare svariate malattie. Anche neurologiche, come appunto l’autismo. D’altra parte, è risaputo che i pazienti autistici spesso presentano alterazioni della flora intestinale e sintomatologia a carico dell’intestino. Proprio per questa ragione, nel loro studio clinico pilota, i ricercatori americani hanno deciso di indagare cosa sarebbe successo “ripulendo” l’intestino di soggetti autistici, eliminandone la flora batterica “malata” e ricolonizzandolo con batteri provenienti da microbiota di individui sani.
Durante la ricerca, sono stati coinvolti 18 pazienti di età compresa tra i 7 e i 16 anni, affetti dalla malattia. I soggetti sono stati sottoposti a un trattamento noto come trapianto fecale. La prima parte dell’operazione consisteva in un trattamento antibiotico di due settimane finalizzato ad eliminare la maggior parte della flora batterica esistente. La seconda parte, consisteva nel somministrare ai bambini per otto settimane, batteri provenienti dall’intestino di soggetti sani. Dopo il trapianto fecale, genitori e medici hanno dichiarato di aver notato non solo un notevole miglioramento delle problematiche intestinali, ma anche cambiamenti positivi nella sintomatologia autistica. Come, ad esempio, le difficoltà relazionali o i problemi del sonno. Miglioramenti durati almeno due mesi dopo il trattamento.
Con il loro studio, i ricercatori hanno osservato un miglioramento dell’80% nei sintomi gastrointestinali e del 20-25% in quelli comportamentali legati allo spettro autistico. L’impatto a lungo termine di questi effetti non è noto, ma secondo gli esperti si tratta di risultati incoraggianti. Malgrado ciò, continuano a invitare alla cautela. Il rischio, in particolare, secondo James Adams, uno degli autori principali dello studio, è che ci sia stato un condizionamento positivo. Una sorta di effetto placebo, dato dal fatto che genitori e ragazzi sapevano di essere oggetto di uno studio. Oltre al limite del numero esiguo di partecipanti alla ricerca. Tuttavia, come dichiara anche Ann Gregory “i dottori sanno che funziona”, solo che ancora non sono riusciti a capire il perché. Serviranno altri studi più ampi per confermare i risultati e soprattutto capirne le cause. Resta comunque aperta una speranza di aver trovato una nuova possibile terapia per l’autismo.

 

https://microbiomejournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/s40168-016-0225-7

23-01-2018

La febbre da fieno indica quelle forme di rinite allergica che si ripetono annualmente e sono causate da una reazione della mucosa degli occhi, del naso e delle vie respiratorie ai pollini stagionali, ma anche alla polvere, ad alcuni tipi di volatili, al pelo animale (soprattutto felino) e ad altri elementi irritanti. Secondo un nuovo studio, i sintomi della febbre da fieno potrebbero essere ridotti con un semplice probiotico.
I ricercatori hanno dimostrato che un probiotico costituito da lattobacilli e bifidobatteri ha contribuito ad alleviare i sintomi della febbre da fieno e migliorato la qualità della vita delle persone che ne soffrono, durante la stagione delle allergie. Il primo autore dello studio, Jennifer Dennis, del Dipartimento di Scienze degli Alimenti e Nutrizione Umana presso l’Università della Florida e colleghi, hanno recentemente riportato i loro risultati nel Journal of Clinical Nutrition.
La febbre da fieno interessa circa 40/60.000.000 di persone negli Stati Uniti ed è causata da una reazione eccessiva del sistema immunitario agli allergeni presenti nell’aria. La rinite allergica stagionale di solito si verifica in primavera, estate e inizio autunno. Gli antistaminici e decongestionanti possono aiutare ad alleviare i sintomi della febbre da fieno. Tuttavia, come tutti i farmaci, possono causare effetti indesiderati che includono sonnolenza, vertigini, visione offuscata, nausea e vomito. Secondo i risultati del nuovo studio, ci può essere un trattamento alternativo per le allergie stagionali: i probiotici.
Precedenti studi hanno indagato l’efficacia dei probiotici contro le allergie stagionali, ma i risultati cambiano in modo significativo a seconda dei ceppi batterici utilizzati. Inoltre, le ricerche precedenti hanno anche dimostrato che i batteri “amici”, lattobacilli e bifidobatteri, possono favorire la salute dell’intestino e del sistema immunitario. Ora, i ricercatori hanno cercato di determinare come un probiotico che contiene una combinazione di Lactobacillus gasseri , Bifidobacterium bifidum e Bifidobacterium longum, allevia i sintomi delle allergie stagionali e migliora la qualità della vita.
Il team ha arruolato 173 adulti sani con allergie stagionali da lievi a moderate che sono stati casualmente divisi in due gruppi. Ad un gruppo è stata somministrata la combinazione di probiotici in capsula da assumere due volte al giorno, mentre l’altro gruppo ha ricevuto un placebo. I partecipanti non hanno usato altri farmaci per il trattamento delle allergie durante il periodo di studio di 8 settimane che è stato condotto al culmine della stagione primaverile. Rispetto ai partecipanti che hanno assunto il placebo, quelli trattati con la combinazione di probiotici hanno riportato una riduzione dei sintomi delle allergie e il miglioramento della qualità della vita, come determinato da sondaggi settimanali. “Tuttavia, non tutti i probiotici sono utili per trattare le allergie, a differenza di questa combinazione”, dicono i ricercatori. I risultati dello studio indicano che i soggetti con allergie stagionali lievi hanno riportato i maggiori benefici dalla combinazione di probiotici.
Anche se sono necessari ulteriori studi per individuare con precisione come la combinazione di probiotici allevia i sintomi delle allergie stagionali, il team ipotizza che i probiotici utilizzati portano ad un aumento delle cellule T regolatorie*, che di conseguenza potrebbe aumentare la tolleranza a tali sintomi. In conclusione, i ricercatori affermano: “Il nostro studio dimostra un potenziale beneficio dei probiotici per gli adulti sani con allergie stagionali. La ricerca futura dovrebbe concentrarsi sul meccanismo molecolare con cui i probiotici modulano la funzione immunitaria per una comprensione più completa del ruolo dei microrganismi nel mantenere l’equilibrio immunitario”.

 

*Le cellule T regolatorie (Tregs) sono una sottoclasse di cellule T che gioca un ruolo di primo piano nell’induzione e mantenimento della tolleranza immunologica. Nel corso degli anni, diversi tipi di cellule Tregs sono stati identificati ma, a oggi, le cellule meglio caratterizzate sono le cellule FOXP3+ Tregs, indotte sia nel timo che in periferia, sono fondamentali per il mantenimento della tolleranza verso gli auto-antigeni, e le cellule CD4+ che secernono IL-10 (Tr1), indotte in periferia in presenza di IL-10.

 

http://www.medicalnewstoday.com/articles/316177.php

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28228426

 

23-01-2018

L’hispolon, una sostanza polifenolica presente in diversi tipi di funghi, sta destando molto interesse nella comunità scientifica internazionale per le sue proprietà antitumorali. Una ricerca del Laboratorio di Neuropatologia Molecolare dell’Unità di Neuropatologia dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli ha dimostrato la sua potente azione anche nel bloccare la crescita del glioblastoma, il più aggressivo tipo di tumore cerebrale. Pubblicato sulla rivista Environmental Toxicology, lo studio è stato effettuato su colture cellulari di glioblastoma umano. «Abbiamo somministrato a queste cellule - spiega Antonella Arcella, responsabile del lavoro scientifico - hispolon a diverse concentrazioni, riscontrando un potente blocco della crescita delle cellule tumorali, un aumento significativo dell’apoptosi (morte cellulare) e una netta riduzione della loro capacità di infiltrazione». 
Il risultato più interessante è stato ottenuto abbinando l’hispolon al chemioterapico più usato per la cura dei glioblastomi: la temozolomide. L’azione del farmaco è risultata potenziata. «Ci sarà naturalmente bisogno di ulteriori approfondimenti - spiega Arcella - ma ciò che possiamo dire è che siamo di fronte a un’altra sostanza di origine naturale che potrebbe giocare un ruolo importante come adiuvante delle terapie antitumorali già in uso».

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28618133

22-01-2018

Per mantenere la salute dovremmo assumere il giusto quantitativo di fibre ogni giorno. Se questo non avviene il nostro corpo ci manda alcuni segnali per farci capire che siamo in carenza di queste sostanze. Siamo soliti assumere fibre con l’alimentazione, sostanze particolarmente importanti per favorire i processi digestivi, il corretto funzionamento dell'intestino e, come provato da alcune ricerche, diminuire il rischio di sviluppare malattie croniche come diabete e cancro. Le fibre si trovano soprattutto negli alimenti integrali, nei legumi, nella frutta e nella verdura. In alcuni casi però la nostra dieta ne è carente, ecco allora che potrebbero comparire i seguenti sintomi:

STITICHEZZA

Il primo e più frequente sintomo di una carenza di fibre è indubbiamente la stitichezza, queste sostanze aiutano infatti la motilità intestinale e di conseguenza la naturale regolarità.

GONFIORE ADDOMINALE

Una carenza di fibre può manifestarsi con gonfiore addominale e crampi. La pancia gonfia e il meteorismo fanno sempre parte di un quadro in cui l’intestino è irritato e spesso non riesce a liberarsi bene dalle feci creando ristagno e fermentazione.

PROBLEMI DIGESTIVI

Assumere il giusto quantitativo di fibre aiuta anche la digestione, una carenza può dunque far comparire problemi a livello del corretto funzionamento dello stomaco.

SONNOLENZA DOPO I PASTI

A causa delle difficoltà digestive e dell’intestino sovraccarico è facile che, se le fibre che assumiamo non sono sufficienti, compaia sonnolenza dopo i pasti.

SENSO DI FAME

Le fibre tendono a saziare e dunque un’alimentazione che le contiene nella giusta misura ci aiuta a tenere a bada il senso di fame. In caso contrario potremmo aver bisogno nuovamente di mangiare anche poco tempo dopo aver consumato un pasto.

EMORROIDI E RAGADI

La difficoltà di evacuare dovuta alla scarsa assunzione di fibre può portare come effetto collaterale anche alla comparsa di emorroidi e ragadi che peggiorano il quadro complessivo.

COLESTEROLO ALTO

Diversi studi hanno dimostrato che le fibre aiutano a tenere a bada il colesterolo cattivo, non assumerne a sufficienza può dunque farci trovare alle prese con un problema di colesterolo alto (dovuto ovviamente anche ad altri fattori).

GLICEMIA ALTA

Un effetto negativo della carenza di fibre si può riscontrare anche sulla glicemia che queste sostanze presenti nei cibi contribuiscono a ridurre compensando in qualche modo l’eccesso di zuccheri.

TENDENZA AI DIVERTICOLI

L’intestino messo in crisi dalla carenza di fibre può sviluppare anche alcune patologie tra cui la diverticolosi ovvero la comparsa di anse intestinali che tendono ad infiammarsi diventando molto dolorose.

TENDENZA AL SOVRAPPESO

Le fibre ci aiutano a mantenere il peso forma. Una carenza, associata ad un’alimentazione errata e alla sedentarietà, può farci incorrere in problemi di sovrappeso.

22-01-2018

Studi scientifici dimostrano che i pomodori possono proteggere sia il fegato che il cervello dai danni causati dal consumo di alcol. I pomodori non possono salvare dal mal di testa e dalle vertigini che sono i segni rivelatori di una sbronza, ma la ricerca ha dimostrato che possono schermare il cervello e il fegato e difenderli dai danni causati dall’alcol.
Il Dr. Xiang-Dong Wang, Direttore del Laboratorio di nutrizione e di cancro alla Friedman presso la Tufts University di Boston, ha sperimentato l’effetto dei pomodori sui ratti esposti all’alcol. Gli esperimenti utilizzavano l’equivalente di 100 grammi di consumo di alcol, che è di circa 7 bevande alcoliche standard, ogni giorno per 4 settimane. Questa dose imita l’assunzione cronica e eccessiva di alcol nell’uomo.
Sono stati testati tre diversi prodotti a base di pomodoro:

1. Polvere di pomodoro che è nutrizionalmente equivalente di tutto il pomodoro intero.

2. Estratto di pomodoro che contiene solo componenti grassi solubili.

3. Licopene purificato, il pigmento rosso che conferisce ai pomodori il loro colore ed è un antiossidante noto.

La polvere di pomodoro, ma non il licopene purificato e nè l’estratto, ha ridotto gli effetti dei danni all’alcol in oltre il 90 per cento dei ratti. Questi risultati sono in linea con i risultati precedenti del team che dimostravano che il licopene da solo non previene il danno epatico, ma i pomodori interi sono la chiave dei benefici. Tuttavia, il fegato non è l’unico organo colpito dall’alcol. Anche l’assunzione modesta di alcol provoca danni alle cellule del cervello.
Ross Grant, Professore associato di medicina presso l’Università di Sydney in Australia e il suo team di ricerca, hanno dimostrato che l’equivalente di due bevande alcoliche standard ha causato danni al DNA delle cellule cerebrali entro 15 minuti. Ma trattando queste cellule con il licopene 3,5 ore prima di esporle all’alcol, i danni sono stati significativamente ridotti. È interessante notare che il licopene purificato era protettivo delle cellule cerebrali, mentre i pomodori interi erano necessari per gli effetti simili nel fegato.
Gli autori dello studio spiegano che quantità di pomodori usati nel loro studio sono facilmente raggiungibili “mangiando quattro pomodori di medie dimensioni” o “un terzo di una tazza di salsa di pomodoro” ogni giorno. Il modo migliore per evitare gli effetti dannosi dell’alcol è, naturalmente, astenersi dal bere. Tuttavia, se si desidera indulgere in un drink o due, una dose giornaliera di pomodori certamente sembra in qualche modo proteggere il cervello e il fegato.

 

http://www.medicalnewstoday.com/articles/319345.php

22-01-2018

Il tumore del colon-retto è il secondo tipo di tumore più diffuso in Italia dopo il tumore della mammella. Tra i fattori di rischio ci sono mancanza di attività fisica, basso consumo di frutta e verdura, consumo di alcol e sovrappeso. Uno nuovo studio potrebbe aggiungere alla lista l’uso di antibiotici a lungo termine. Solo negli ultimi anni è emerso un collegamento tra utilizzo di antibiotici ed alcune patologie, tra le quali la celiachia, la sindrome del colon irritabile e persino l’obesità. Questo collegamento è dovuto all’alterazione della flora batterica intestinale (microbioma) prodotta dagli antibiotici che può scatenare patologie e modifiche del metabolismo.
Alcuni studi precedenti hanno già investigato la correlazione tra assunzione di antibiotici e tumore dell’intestino, ma il periodo osservato era relativamente breve. In questo studio sono stati presi i dati del Nurses Health Study, un progetto che ha monitorato 121.700 infermiere dal 1976. Le donne avevano un’età compresa tra i 30 e i 55 anni quando lo studio è iniziato. Ogni 2 anni le partecipanti hanno riempito questionari dettagliati con informazioni demografiche, sullo stile di vita (fumo ed esercizio fisico), storia medica e sviluppo di patologie. Ogni 4 anni inoltre completavano un questionario sulle loro abitudini alimentari.
Nello studio i ricercatori hanno usato i dati di 16.642 tra queste donne che avevano più di sessant’anni nel 2004 e che si erano sottoposte almeno ad una colonscopia tra il 2004 e il 2010. Durante il periodo investigato 1.195 adenomi sono stati diagnosticati nel gruppo esaminato. Gli adenomi, conosciuti anche come polipi, sono tumori benigni che precedono in alcuni casi lo sviluppo del tumore dell’intestino. Una volta che i dati sono stati analizzati, il team ha riscontrato che l’utilizzo degli antibiotici nei 4 anni precedenti non era associato con la patologia, ma lo era l’utilizzo a lungo termine nel passato. Le donne che avevano preso antibiotici per due o più mesi a venti o trent’anni erano il 36% più a rischio di avere una diagnosi di adenoma rispetto a quelle che li avevano presi per un breve periodo. Inoltre coloro che si erano sottoposte ad una cura antibiotica per lungo periodo tra i quaranta e i cinquant’anni erano il 69% più a rischio rispetto agli altri. L’associazione non è comunque correlata alla pericolosità del tumore, ma sembra ci sia un collegamento con la posizione del tumore, che erano più frequenti nel colon prossimale (la prima sezione del colon, quella collegata con l’intestino tenue). Allo stesso modo, le donne che avevano preso antibiotici tra i venti e i sessant’anni per più di 15 giorni avevano un rischio aumentato del 73% rispetto alle altre. Naturalmente sono necessari ulteriori studi per confermare questi dati. La correlazione potrebbe non essere così immediata, ad esempio gli antibiotici potrebbero essere stati usati per infiammazioni dell’intestino, che sono anch’esse un fattore di rischio. Sebbene ci sia ancora molto lavoro da fare, c’è una plausibile spiegazione biologica per il potenziale collegamento tra antibiotici e tumore dell’intestino. Gli antibiotici, infatti, alterano significativamente il microbioma, impoverendolo di alcuni ceppi batterici e cambiandone la composizione. Ciò sarebbe in accordo con studi precedenti che avevano trovato differenze nella flora batterica intestinale di persone malate di tumore dell’intestino.

 

http://www.medicalnewstoday.com/articles/316734.php

Domenica, 21 Gennaio 2018 06:56

LA NAC PROTEGGE DA SMOG E INQUINAMENTO.

21-01-2018

Come sottolinea il Dott. Santus, primario di pneumologia riabilitativa della Fondazione Maugeri e ricercatore di malattie respiratorie presso l’Università di Milano, il PM10 e il PM2,5 si depositano su alveoli e bronchi, favorendo un processo infiammatorio che può diffondersi a tutto l’apparato respiratorio e anche a quello cardiovascolare. L’inalazione delle polveri sottili può aumentare il rischio di contrarre raffreddore, tosse, infezioni virali e quindi influenze. Questi rischi aumentano se consideriamo le fasce di età più sensibili come bambini, anziani e chi soffre già di problemi respiratori come asmatici, bronchitici cronici soprattutto quelli affetti da BPCO (Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva).
Molti dati correlano i picchi di PM10 nell’aria con aumento di crisi asmatiche, bronchiti acute e nei bambini anche tracheiti. Purtroppo anche attacchi cardiaci e cardiovascolari sembrano aumentare. Tra le varie strategie per proteggersi dall’inquinamento si è rilevato utile l’utilizzo di N-acetilcisteina. Questa sostanza ad azione mucolitica possiede anche proprietà antiossidanti e antinfiammatorie che proteggono l’apparato respiratorio dallo stress ossidativo principale responsabile della flogosi polmonare. La N-acetilcisteina è infatti in grado di rigenerare il glutatione e aumentarne i livelli contrastando la formazione dei radicali liberi. Inoltre è in grado di chelare alcuni elementi tossici che accumulandosi nell’organismo potrebbero scatenare reazioni infiammatorie.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24787454

21-01-2018

Le patatine fritte fanno male? Beh, se mangiate senza moderazione ovvio che sì. Se quelle precotte e surgelate potrebbero essere cancerogene e in genere potrebbero provocare dipendenza, ora una nuova ricerca evidenzia addirittura uno stretto legame tra il mangiare troppe patate fritte e un elevato rischio di morte prematura. Secondo uno studio pubblicato dall’American Journal of Clinical Nutrition, mangiare patatine fritte due o più volte la settimana può aumentare, fino a raddoppiare, il rischio di mortalità negli adulti. Dalla ricerca, che tra l’altro porta la firma dell’italiano Nicola Veronese (Università di Padova), è emerso che chi consuma patate fritte più di due volte alla settimana segue già di suo uno stile di vita malsano e questo porta all’aumento del rischio di morte.
Per lo studio, i ricercatori hanno seguito le abitudini alimentari di 4.440 persone di età compresa tra i 45 e i 79 per otto anni. Dopo aver adattato diversi fattori, è emerso che mangiare generalmente le patate (anche tantissime) non aumentava il rischio di morte di una persona. Ma analizzando gli stili di vita dei diversi partecipanti, i ricercatori hanno scoperto che mangiare troppe patate fritte portava a un rischio raddoppiato di morte. La quantità di patatine che avevano mangiato è stata studiata chiedendo loro di compilare un questionario alimentare. A conclusione dello studio, delle 4.440 persone che hanno partecipato, 236 partecipanti sono morte alla fine del follow-up di otto anni.
Sta di fatto che anche altri fattori potrebbero avere influenzato i risultati dello studio, tra cui senza dubbio la qualità di patate fritte mangiate e l’accostamento a qualcosa. Ad esempio, mangiare solo alcune patate fritte con un’insalata è cosa ben diversa che mangiarle con un cheeseburger. Non mangiare mai più patate fritte? La verità è sempre nel giusto mezzo: una volta ogni tanto qualche patatina fritta non fa male, ma magari preferite quelle fatte in casa e fritte nel giusto olio.

 

http://ajcn.nutrition.org/content/early/2017/06/07/ajcn.117.154872.abstract?papetoc

Sabato, 20 Gennaio 2018 06:12

LA VITAMINA D UTILE CONTRO L’INFLUENZA.

20-01-2018

Consumare integrazioni di vitamina D aiuterebbe a ridurre i casi di influenza, raffreddori e polmoniti su scala globale. Lo sostiene un grande studio pubblicato sul British Medical Journal da un team della Queen Mary University di Londra. La ricerca, condotta prendendo in considerazione i dati di 11mila persone che avevano partecipato a un totale di 25 trial clinici, fa emergere l'efficacia della vitamina D nella protezione dalle infezioni delle vie respiratorie, grazie probabilmente alla capacità di stimolare la produzione di antimicrobici nei polmoni. Nei soggetti che mostravano livelli bassi di vitamina D il beneficio era ancora più evidente. L'integrazione ha dimezzato il numero delle infezioni respiratorie nelle persone con livelli più bassi del nutriente e ridotto del 10 per cento le infezioni che colpiscono i soggetti con livelli adeguati di vitamina D. «La nostra ricerca rafforza l’idea che sia opportuno prevedere un’integrazione nell’alimentazione per migliorare i livelli di vitamina D in paesi come il Regno Unito, dove la carenza è comune», hanno scritto gli autori del lavoro.
Altri ricercatori però si mostrano scettici. Mark Bolland dell'Università di Auckland e Alison Avenell dell'Università di Aberdeen hanno commentato lo studio in un editoriale di accompagnamento esprimendosi in questi termini: «Le ricerche finora non supportano l’evidenza che l’uso di integratori di vitamina D serva a prevenire le malattie, salvo nelle persone a rischio di rachitismo, fragilità ossea e osteoporosi». Al contrario, il dott. Benjamin Jacobs, pediatra del Royal National Orthopaedic, è più ottimista: «I dati del nuovo studio sono molto significativi, visto che provengono da 11mila pazienti analizzati in studi clinici di buona qualità in tutto il mondo. La necessità di fornire integratori di vitamina D è ora innegabile. I governi e gli operatori sanitari devono prendere questa ricerca in seria considerazione d’ora in avanti».

 

http://www.bmj.com/content/356/bmj.i6583

http://www.qmul.ac.uk/media/news/items/smd/192725.html

20-01-2018

Un additivo presente nei cereali da colazione americani e in altri prodotti di uso quotidiano interferisce con il sistema ormonale ed è accusato di provocare l’obesità. A dirlo un nuovo studio condotto negli Stati Uniti. Non è la prima volta che il Butylhydroxytoluene, antiossidante chimico che si aggiunge ai prodotti con la funzione di proteggere le sostanze nutritive ed evitare che i grassi irrancidiscano, viene accusato di non essere proprio innocuo per la nostra salute. Questa sostanza, che si trova in etichetta con la sigla E321, è molto utilizzata negli Usa all’interno dei cereali per la colazione che quindi sarebbero non solo pieni di zuccheri ma anche ricchi in additivi che possono incrementare ancora di più il problema dell’obesità.
Fino ad oggi erano state dimostrate le influenze negative di questo additivo sull’aumento di peso solo su campione animale ma ora sono stati confermati anche gli effetti sull’uomo. Un team di ricerca guidato da Dhruv Sareen del Cedars-Sinai Medical Center ha preso in esame 3 disgregatori endocrini, tra cui appunto il Butylhydroxytoluene (BHT). Nello studio pubblicato su Nature Communications, primo nel suo genere, i ricercatori hanno sviluppato un nuovo metodo per testare gli effetti dei disgregatori endocrini sugli esseri umani. Hanno esaminato l'esposizione delle tre sostanze chimiche sui tessuti che producono ormoni a partire da cellule staminali umane. L’obiettivo era analizzare come l'esposizione cronica a queste sostanze chimiche possa interferire con i segnali inviati dal sistema digestivo al cervello fondamentali in quanto consentono alle persone di provare la sensazione di pienezza durante i pasti. Quando questo sistema di messaggi si interrompe, le persone continuano a mangiare e inevitabilmente vanno incontro ad un aumento di peso. 
Cosa hanno scoperto dunque i ricercatori? Il BHT, ma anche gli altri due composti analizzati (l'acido perfluorooctanoico - PFOA e la tributiltina - TBT) producono effetti particolarmente dannosi. Queste sostanze danneggiano infatti gli ormoni che si occupano della comunicazione tra l'intestino e il cervello e sembra che il Butylhydroxytoluene si sia dimostrato il peggiore in questo senso. Proprio per i dubbi effetti sulla salute di questo additivo, già prima dell’ultima ricerca in merito, diverse marche di cereali, anche in America, ne hanno limitato l’utilizzo, sostituendolo con l’E320 (farà meno male?). C’è però il problema che le etichette dei cereali negli States non sono sempre chiare in merito alle sostanze effettivamente addizionate. In Europa questo additivo generalmente non si trova nei cereali per la colazione ed è vietato l’utilizzo nei prodotti per l’infanzia. Io, però, come sempre, vi consiglio di leggere attentamente le etichette di ciò che acquistate.

 

https://www.nature.com/articles/s41467-017-00254-8

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