Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

Giovedì, 01 Febbraio 2018 06:01

NON MANGIATE TARDI: VI FA INGRASSARE.

01-02-2018

Adottare orari “spagnoli” per mangiare non fa bene alla salute. Secondo uno studio della Perelman School of Medicine dell’University of Pennsylvania, chi è abituato a mangiare tardi, procastinando l’orario dei pasti nel corso della giornata, corre un rischio maggiore di ingrassare e di vedere alterati i livelli di insulina e colesterolo. I ricercatori hanno chiesto a un gruppo di 9 adulti normopeso di seguire per 8 settimane un regime alimentare basato su 3 pasti e 2 spuntini fra le 8 e le 19. Dopo due settimane di pausa, le stesse persone hanno affrontato un secondo periodo con gli orari modificati, da mezzogiorno alle 23 della sera. È così emerso che quando le persone mangiavano più tardi, era più probabile che aumentassero il peso corporeo. Inoltre, altri parametri metabolici andavano incontro a modificazioni negative, in particolare i livelli di insulina, glucosio a digiuno, colesterolo e trigliceridi. I risultati suggeriscono quindi l’adozione di un regime alimentare equilibrato anche nella gestione degli orari.

 

https://www.pennmedicine.org/news/news-releases/2017/june/timing-meals-later-at-night-can-cause-weight-gain-and-impair-fat-metabolism

http://www.dailymail.co.uk/health/article-4573270/Eating-night-raises-risk-diabetes-heart-disease.html

01-02-2018

Alcol e cancro: la relazione c’è e il rapporto che correla i consumi di bevande alcoliche al rischio oncologico sarebbe stato sottovalutato (e taciuto) dai maggiori produttori di alcolici. È la notizia che emerge da una ricerca di alcuni ricercatori britannici e svedesi, secondo cui l’alcol è cancerogeno e il comparto industriale lo avrebbe volontariamente nascosto. D’altronde, che le bevande alcoliche siano capaci di aumentare il rischio di cancro del cavo orale, della faringe, dell’esofago e della laringe e in più siano correlate all’insorgenza di tumore del fegato e dell’intestino e della mammella nelle donne è cosa risaputa e ben consolidata. È per questo che, secondo l’Aiom, non si dovrebbero assumere prima dei 15 anni perché l’organismo non è in grado di digerirle bene.
Ora gli scienziati della London School of Hygiene & Tropical Medicine (LSHTP) in collaborazione con quelli dello svedese Karolinska Institutet, hanno analizzato le informazioni relative al cancro che comparivano nei siti web e nei documenti di quasi 30 aziende del settore alcolici in tutto il mondo, tra il settembre 2016 e il dicembre 2016. E il risultato è surreale: l’industria delle bevande alcoliche inganna il pubblico riducendo e falsificando il legame tra l’alcol e il cancro - in particolare il cancro al seno - nell'obiettivo di proteggere i propri profitti.
Per questa analisi - pubblicata su Drug and Alcohol Review - sono state esaminate siti web e documenti diffusi da 27 organizzazioni finanziate dall’Industria dell’alcol, soprattutto “aspetti sociali e organizzazioni di pubbliche relazioni” (SAPROs) e organismi simili. I ricercatori hanno inteso determinare in che misura l’industria dell’alcol interpreti le prove scientifiche sull’alcol e sul cancro per poi riportarle ai consumatori. Hanno analizzato le informazioni sul cancro e sul consumo di alcolici diffusi dagli organismi del settore alcolico e hanno scoperto che le loro tattiche sono quelle di “negazione, distorsione e distrazione”, molto simili a quelle delle aziende di sigarette che limitano l'esposizione al tabacco come causa principale del cancro. E in effetti gli autori dello studio hanno individuato 3 principali strategie di settore:

- omettere selettivamente il rapporto tra cancro e alcol, ovvero evitare di menzionare il cancro mentre si discute di altri rischi o ignorare neoplasie specifiche;

- distorcere le informazioni con la falsificazione o l’offuscamento della reale natura del rischio;

- distrarre e spostare l'attenzione lontano dagli effetti indipendenti dell’alcol sui tumori comuni.

E invece “il peso delle prove scientifiche chiaro: il consumo di alcol aumenta il rischio di alcune delle forme più comuni di cancro, tra cui numerosi tumori comuni - dice Mark Petticrew della LSHTP e principale autore dello studio. “La consapevolezza pubblica di questo rischio è bassa e si è sostenuto che una maggiore consapevolezza del pubblico, in particolare del rischio di cancro al seno, costituisce una grave minaccia per l’industria dell’alcol. Nella nostra analisi si suggerisce che i principali produttori di alcol a livello mondiale potrebbero tentare per attenuare ciò diffondendo informazioni fuorvianti sul cancro attraverso i loro testi che invitano a un bere responsabile”.
Dai risultati è inoltre emerso che i materiali dei produttori di alcolici sembrano omettere o falsificare nello specifico soprattutto le prove sul cancro del seno e del colon-retto. Quando invece il cancro al seno era menzionato, 21 delle organizzazioni analizzate non riportavano informazioni sul cancro al seno o le confondevano tra molti altri fattori di rischio alternativi per lo stesso tipo di cancro. Ad esempio, il sito web di talkalcohol.com del produttore di birra SAB Miller afferma in modo errato che “non esiste alcun legame tra alcol e la maggior parte dei tumori, ad eccezione di tumori al tratto aerodigestivo superiore e al fegato”. Allo stesso modo, il gruppo Portman afferma che “la stragrande maggioranza dei tipi di cancro non sono associati al consumo di alcol”.
E invece, tra più di 200 tipi di cancro, l’alcol è riconosciuto dalle autorità mediche come una delle cause più comuni. L’industria dell’alcol, insomma, un pò come quella del fumo, veicola molte informazioni sulla salute delle persone e inganna i consumatori.

 

http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/dar.12596/full

https://www.theguardian.com/society/2017/sep/07/alcohol-cancer-link-report-portman-group-drinkaware

01-02-2018

Sembra che l’ibuprofene, noto principio attivo antidolorifico, se assunto ad alte dosi abbia un impatto negativo in particolare sugli uomini. Un nuovo studio ne ha infatti collegato l’utilizzo ad un maggior rischio di infertilità. Secondo la ricerca, pubblicata sulla rivista Proceedings of National Academy of Sciences, l’assunzione di ibuprofene può portare a sviluppare precocemente una condizione ormonale che solitamente inizia solo una volta giunti alla mezza età. Per arrivare ad affermare ciò i ricercatori hanno preso a campione un gruppo di giovani atleti che assumevano spesso questo principio attivo. Un antinfiammatorio non steroideo come l'ibuprofene è infatti di uso frequente in chi pratica sport, da assumere ad esempio prima di un evento per prevenire il dolore. Ma quali sono le possibili conseguenze sulla salute per gli atleti che usano abitualmente questo farmaco?
Per rispondere a questa domanda il team di ricerca ha reclutato 31 volontari maschi di età compresa tra i 18 e i 35 anni. Di questi, 14 hanno ricevuto una dose giornaliera di ibuprofene che molti atleti professionisti e dilettanti assumono: 600 milligrammi due volte al giorno (la dose di 1.200 mg al giorno è il limite massimo indicato dalle etichette dei prodotti generici di ibuprofene). Ai restanti 17 volontari è stato somministrato un placebo. Il tutto per un periodo massimo di 6 settimane.
Risultato? L’ibuprofene sembrerebbe agire come un anti-androgenico cioè va ad interagire con la produzione di ormoni maschili. Entro 14 giorni dall’assunzione gli ormoni luteinizzanti, che sono secreti dalla ghiandola pituitaria e stimolano i testicoli a produrre testosterone, vengono influenzati dall’ibuprofene circolante nel sangue. Inoltre il rapporto tra il testosterone e gli ormoni luteinizzanti è diminuito, segnale che i testicoli sono mal funzionanti. Questo squilibrio ormonale ha prodotto un ipogonadismo compensato, una condizione associata a compromissione della fertilità, depressione e aumento del rischio di eventi cardiovascolari, tra cui insufficienza cardiaca e ictus.
Bernard Jégou, co-autore e direttore dell'Istituto di ricerca sulla salute ambientale e occupazionale in Francia ha dichiarato di essere sicuro della reversibilità di questi effetti anche se non è noto quello che può accadere in caso di assunzioni a lungo termine. A questo proposito David Moeberg Kristensen dell’Università di Copenaghen ha dichiarato: “La nostra preoccupazione è per la fertilità degli uomini che usano questi farmaci per lunghi periodi. Sono buoni antidolorifici ma una certa quantità di persone nella società li usa senza pensare a loro come a vere medicine”.
Questo nuovo studio altro non è che la continuazione di una ricerca iniziata su donne in dolce attesa. In quel caso Bernard Jégou aveva esplorato gli effetti sulla salute di questo farmaco nelle future mamme mettendolo a confronto con altri medicinali simili come l’aspirina e il paracetamolo. Il team aveva dimostrato che quando venivano assunti durante la gravidanza, tutti e tre questi farmaci (considerati leggeri) avevano un effetto negativo sui testicoli dei bambini maschi. Il consiglio rimane dunque quello di limitare alle situazioni davvero necessarie l’utilizzo di questi come di altri farmaci.

 

http://www.pnas.org/content/early/2018/01/03/1715035115

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28559473

13-02-2018

La medicina cosiddetta “ufficiale“, e già il termine dice tutto, ha perso di vista la realtà complessiva della persona ammalata interpretando il disturbo come mal funzionamento di un singolo organo, quando ogni disturbo è causa di diversi fattori concomitanti quali cibo stili di vita, emozioni, batteri, virus ecc., che vanno individuati e singolarmente trattati. Le terapie naturali, non sono una “moda” come spesso viene definita, ma una tradizione diffusa che dura da secoli, che aiuta a prevenire e a ristabilire lo stato di salute e quando necessario, con l’aiuto della medicina, a curare. Il paese più aperto alla naturopatia è attualmente la Germania, dove la figura professionale (Heilpraktiker) viene riconosciuta fin dagli inizi del novecento, seguono l’Inghilterra, l’Olanda, la Danimarca. In tali paesi tale terapia viene usata nelle strutture pubbliche come supporto alla medicina ufficiale. L’operatore naturopata del benessere non può e non deve fare diagnosi di malattia, compito di esclusiva pertinenza medica, né interferire sulla prescrizione di farmaci dati dai medici. La sua competenza è educativa e preventiva, consiglia una corretta alimentazione, integratori alimentari e fitoterapici (di erboristeria) rimedi floreali e abitudini di vita sane. Il naturopata può lavorare in studi privati, centri benessere, presso studi medici, scuole, centri estetici ecc. Spesso può abbinare terapie quali la riflessologia e lo shiatsu, l’iridologia, lettura dei polsi, conosce la deontologia professionale e le basi di pronto intervento, ha un informazione generale su biologia, chimica, anatomia, fisiologia e patologia. 
I medici potranno trovare quindi nel naturopata un valido collaboratore e non un rivale o inutile figura, e le persone un punto di riferimento per mantenere o recuperare il proprio benessere psicofisico e prendersi cura di sé. Per concludere voglio comunicare l’importanza di svolgere la propria professione in maniera consapevole, cioè non superando le proprie competenze, mi riferisco a chi si improvvisa come guaritore offendendo la fiducia e la sensibilità di chi disperato ed impaurito dalla malattia si trova ad un bivio ed è pronto a sperimentare ogni terapia. Se ogni operatore della salute lavorasse seriamente non ci sarebbero critiche da parte dei medici e il termine di “maghi” non verrebbe attribuito. La salute di ogni persona è una cosa seria ed è diritto di ogni essere umano ricevere la più attenta cura ed attenzione e soprattutto con il dovuto amore.

11-02-2018

La carenza di ferro tra i possibili fattori di rischio per l’ictus. A sostenerlo uno studio presentato dai ricercatori dell’Imperial College London, secondo il quale bassi livelli di questo minerale favorirebbero una consistenza più “appiccicosa” del sangue. L’ictus rappresenta una delle malattie più diffuse e pericolose, con oltre 15 milioni di individui al mondo che ne hanno sofferto. Due le differenti tipologie associate a questa patologia: quella emorragica e quella ischemica, meno letale, ma molto più diffusa rispetto alla prima. Nello studio sono state prese in esame le cartelle cliniche di 497 pazienti dell’Hammersmith Hospital di Londra, tutti affetti da un’anomalia ai vasi sanguigni polmonari denominata telangiectasia emorragica ereditaria (HHT). Questa patologia dilata le pareti venose nei polmoni riducendo l’azione offerta dai vasi polmonari di filtraggio dei piccoli accumuli di sangue e consentendo loro in alcuni casi di entrare in circolo nelle arterie. Nello specifico è stato riscontrato come nei pazienti con livelli di ferro particolarmente bassi il rischio di ictus risultasse doppio rispetto a chi aveva valori nella norma. Dalle analisi di laboratorio svolte sulle piastrine dei pazienti è emerso come, stimolandole con una sostanza coagulante, la mancanza di questo minerale provocherebbe un’accelerazione nella coagulazione del sangue.
Molti sono i passaggi dalla formazione del coagulo al verificarsi dell’ictus che andranno verificati, spiega la Dr.ssa Claire Shovlin del National Heart and Lung Institute presso l’Imperial College London, e ulteriori studi si riveleranno preziosi per la comprensione del fenomeno: “Dal momento che le piastrine nel sangue si attaccano più in fretta se c’è carenza di ferro, noi pensiamo che questo possa spiegare perché una carenza di ferro può portare all’ictus, anche se sono comunque necessarie ulteriori ricerche per verificare questo collegamento. Il prossimo passo è di testare se è possibile ridurre il rischio di ictus nei soggetti ad alto rischio trattando la loro carenza di ferro. Saremo quindi in grado di vedere se in quel caso le piastrine diventeranno meno appiccicose”.

 

http://consumer.healthday.com/cardiovascular-health-information-20/misc-stroke-related-heart-news-360/iron-deficiency-may-raise-stroke-risk-685039.html

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4204536/

08-02-2018

La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo nello sviluppo della fibromialgia, patologia reumatologica caratterizzata da dolore muscolo-scheletrico, astenia, sbalzi d’umore e insonnia. Un team di ricercatori, considerando che i soggetti sofferenti di fibromialgia mostrano bassi livelli di vitamina D, hanno condotto questo studio con l’obiettivo di aumentarne il livello ematico e possibilmente di ridurre la sintomatologia. A 30 donne con fibromialgia e bassi livelli di vitamina D (al di sotto di 32ng/ml), sono stati somministrati vitamina D o un placebo per 20 settimane. Al termine della sperimentazione, nel gruppo che aveva assunto la vitamina D è stata osservata una marcata riduzione della percezione del dolore e dell’affaticamento mattutino e il miglioramento della funzionalità fisica, parametri rimasti inalterati nel gruppo placebo.
Secondo i ricercatori sono necessarie ulteriori conferme sull’efficacia della vitamina D nel management della fibromialgia, perché lo studio è su piccola scala. Tuttavia, visti i risultati promettenti, la somministrazione di vitamina D può essere considerata uno strumento estremamente efficace e a buon mercato da aggiungere alle altre terapie per la fibromialgia. Gli studi che indicano il collegamento tra carenza di vitamina D e dolore muscolare sono numerosi, e a volte i dati sono anche contraddittori. Nel 2010 l’International Osteoporosis Foundation ha proposto un dosaggio profilattico-preventivo di almeno 800-1000 UI al giorno per contrastare l’elevata incidenza della carenza di vitamina D evidenziata nella popolazione occidentale.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Wepner+F%2C+Scheuer+R

04-05-2015

Il D-mannosio, uno zucchero semplice estratto dal legno di larice o di betulla e dal mais, sembra essere un’alternativa promettente alle terapie farmacologiche per l’eradicazione dell’Escherichia coli, batterio che rappresenta per il 90% la causa delle infezioni del tratto urinario e delle cistiti infettive. In uno studio clinico, infatti, l’assunzione di D-mannosio ha mostrato un’azione preventiva paragonabile a quella di un antibiotico. 308 donne sofferenti di infezioni ricorrenti delle vie urinarie, dopo un trattamento iniziale con antibiotico (ciprofloxacin 500 mg 2 volte al giorno per 1 settimana), sono state divise in 3 gruppi ricevendo per 6 mesi: 1) profilassi con 2 g al giorno di D-mannosio, 2) profilassi con 50 mg al giorno di nitrofurantoina, 3) nessuna profilassi. Dopo 6 mesi è stato osservato che le donne trattate con mannosio o antibiotico avevano avuto un rischio minore di ricadute rispetto alle donne che non avevano assunto nessun trattamento. Infatti, il 60% delle donne che non avevano assunto nessun trattamento ha sviluppato un’infezione delle vie urinarie, contro il 20% di quelle che avevano assunto l’antibiotico e il 15% del mannosio. Inoltre, il gruppo che aveva assunto mannosio, ha mostrato un rischio minore di effetti collaterali rispetto al gruppo della terapia farmacologica, suggerendo un suo possibile utilizzo a lungo termine. Negli ultimi anni l’utilizzo del mannosio ha fornito risultati promettenti oltre che nelle infezioni delle vie urinarie anche nella cistite interstiziale. Il D-mannosio si configura pertanto come un integratore sicuro, naturale ed efficace per il controllo delle infezioni delle vie urinarie.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23633128

Mercoledì, 31 Gennaio 2018 06:33

MAL DI SCHIENA: I FARMACI NON FUNZIONANO.

31-01-2018

Chi soffre di mal di schiena cronico non può affidarsi ai farmaci, e se lo fa non si aspetti grandi risultati. È impietosa la conclusione di uno studio apparso su Annals of the Rheumatic Diseases a firma di ricercatori del George Institute for Global Health di Sydney. Stando all'analisi di 35 studi randomizzati per un totale di oltre 6.000 persone coinvolte, gli antinfiammatori NSAIDs (Non-steroidal anti-inflammatory drugs, farmaci antinfiammatori non steroidei) avrebbero effetti solo lievemente superiori al placebo. L'analisi evidenzia che solo 1.000 pazienti sui 6.000 esaminati hanno mostrato benefici clinicamente significativi nel breve termine. Benefici che in ogni caso erano inferiori a gravi effetti collaterali come ulcere gastriche e sanguinamento. Manuela Ferreira e Gustavo Machado, i responsabili dello studio, spiegano: «La nostra analisi di sicurezza farmaceutica rivela che i NSAIDs aggravano il rischio di effetti collaterali intestinali di due volte e mezzo rispetto al placebo». Una ricerca precedente degli stessi autori aveva sottolineato la scarsa efficacia del paracetamolo, che d'altro canto quadruplica l'incidenza di funzioni epatiche anormali. Neanche gli oppioidi sembrano affidabili, in quanto poco più efficaci dei NSAIDs, con l'aggravante di effetti collaterali ancora più pesanti. «I risultati mettono in luce la necessità urgente di sviluppare nuove terapie e di dedicare più attenzione alla prevenzione», aggiungono i ricercatori. 
Un altro studio ha analizzato anche l'effetto degli steroidi per il trattamento del mal di schiena, anche in questo caso evidenziando risultati poco lusinghieri. Janna Friedly, assistente alla cattedra di medicina della riabilitazione all'Università di Washington a Seattle, commenta: «Le iniezioni di steroidi sono un trattamento comune per la stenosi spinale e siamo rimasti sorpresi dai risultati del nostro studio». I ricercatori, che hanno pubblicato i risultati dello studio sul New England Journal of Medicine, hanno coinvolto 400 persone affette da dolore alla schiena e alla gamba per via della compressione nervosa provocata da una stenosi spinale, sottoponendole all'iniezione di lidocaina da sola o insieme allo steroide. A tre settimane dall'iniezione, il gruppo steroide stava meglio, ma a sei settimane non c'era nessuna differenza in termini di dolore e funzionalità fra i due gruppi. La ratio medica per la somministrazione degli steroidi si basa sulla loro efficacia nel ridurre il gonfiore e l'infiammazione attorno ai nervi schiacciati. «Per alcuni pazienti funziona davvero così», ha ricordato Gunnar Andersson, docente del dipartimento di Chirurgia ortopedica al Rush University Medical Center di Chicago, in un editoriale di commento allo studio, «mentre in altri pazienti non funziona oppure ha un effetto di durata molto breve». Le opzioni alternative, ovvero la chirurgia e l'attività fisica, non modificano comunque il problema di base e non producono un effetto duraturo della stenosi, spiega il dott. Andersson, che quindi invita in ogni caso a considerare con attenzione un’eventuale rinuncia alla terapia di infiltrazione.

 

http://ard.bmj.com/content/early/2017/01/20/annrheumdis-2016-210597.short

https://www.sciencedaily.com/releases/2017/02/170202090820.htm

https://www.georgeinstitute.org/media-releases/the-drugs-dont-work-say-back-pain-researchers

http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1313265

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24988555

31-01-2018

Gli integratori di glutammina hanno soppresso la riattivazione dell’herpes virus (HSV) nei topi e porcellini d’India, secondo i risultati di un nuovo studio recentemente pubblicato nel Journal of Clinical Investigation. La ricerca è stata condotta da scienziati del National Institutes of Health e della U.S. Food and Drug Administration. Non esiste una cura per le infezioni da virus HSV-1 e HSV-2 che possono causare epidemie ricorrenti di herpes labiale e piaghe genitali negli esseri umani. Anche se i medicinali antivirali aiutano a ridurre i focolai, il virus persiste nel corpo e può inaspettatamente riattivarsi e questo sottolinea la necessità di nuovi approcci terapeutici.
Precedenti ricerche hanno dimostrato l’importanza delle cellule T HSV-specifiche per il controllo di focolai HSV ricorrenti e che le cellule T attivate richiedono un aumento del metabolismo della glutammina (un aminoacido prodotto dal corpo e presente nel cibo). Pertanto, gli autori dello studio hanno ipotizzato che la supplementazione di glutammina può aumentare la funzione delle cellule T e migliorare il controllo delle infezioni da herpes virus.
Per verificare questa ipotesi, gli scienziati hanno infettato i topi con HSV-1 e i porcellini d’India con HSV-2. Gli animali sono stati assegnati in modo casuale a diversi gruppi di trattamento. Due settimane dopo l’infezione, alcuni animali hanno ricevuto un supplemento di glutammina orale e altri no. I risultati hanno dimostrato che i topi che hanno ricevuto la glutammina avevano meno probabilità che il virus HSV-1 potesse riattivarsi, e allo stesso modo, le cavie che avevano ricevuto la glutammina avevano meno probabilità di epidemie ricorrenti di HSV-2 rispetto agli animali che non avevano ricevuto il supplemento. I topi trattati con glutammina avevano anche un numero elevato di cellule T specifiche per i virus nei tessuti nervosi infetti. Insieme, i risultati suggeriscono che la glutammina può ridurre la riattivazione dell’HSV migliorando la risposta delle cellule T alle infezioni. Altri studi clinici saranno necessari per determinare se questo nuovo approccio potrebbe trattare efficacemente l’herpes virus nell’uomo.

 

http://www.jci.org/articles/view/88990

30-01-2018

Vi siete mai chiesti il perché il vostro cane si dimostra particolarmente agitato o addirittura aggressivo solo con determinate persone? Se ci avete pensato, sicuramente avrete finito col dare la colpa all'amico a quattro zampe e alla sua maleducazione, ma la scienza oggi ci dice che in realtà c'è una motivazione logica al suo comportamento. Ebbene, i cani riconoscono una persona cattiva, per questo gli abbaiano cercando di allontanarla dalle vicinanze. È già stato verificato che i cani sono animali empatici poiché in grado di distinguere diverse espressioni facciali dell'uomo: ad esempio riconoscono perfettamente un volto triste e uno arrabbiato. Ma per arrivare alla conclusione che i cani "riconoscono" una persona cattiva, senza che questa abbia effettivamente al momento un'espressione cattiva, è stato necessario fare un esperimento diverso. I ricercatori hanno fatto partecipare un cane ad una messa in scena, in cui era presente anche il padrone insieme a due collaboratori. Nella prima parte il padrone si faceva vedere in difficoltà nell'aprire una scatola con del cibo all'interno, e chiedere aiuto ad uno dei collaboratori che riusciva alla fine ad estrarre il cibo. Tutti i cani coinvolti nell'esperimento accettavano le crocchette sia dal collaboratore che dal padrone.
Nella seconda parte invece, uno dei due collaboratori si rifiutava di aiutare il padrone, mentre l'altro guardava senza intervenire. Al momento dell'offerta di cibo, i cani non lo hanno mai accettato dalle mani di chi si è mostrato "cattivo" nei confronti del padrone, mentre invece lo hanno preso sempre da quest'ultimo e dal collaboratore non interpellato. 
I ricercatori hanno dunque concluso che i cani si fanno una propria opinione degli esseri umani, che varia a seconda di come si comportano. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica di Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Se il vostro cane ringhia, abbaia o non si fa accarezzare da una persona in particolare potrebbe essere perché in un'occasione non si è comportato bene con voi ed il cane lo ha notato. Pensateci bene! Qui sotto trovate il link dell'esperimento condotto dai ricercatori.

 

https://phys.org/news/2017-02-dogs-monkeys-human-like-morality.html

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28077260

https://www.youtube.com/watch?v=aWphPYqJ35c

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