Angelo Ortisi
STARE ALL’ARIA APERTA ALLONTANA LA MIOPIA.
10-03-2016
Portare i bambini al parco li aiuta a tenere a bada la miopia. Oltre agli indubitabili vantaggi in termini di socializzazione e di contrasto all'insorgenza dell'obesità, i ricercatori dell'Università di Sun Yat-sen di Guangzhou, in Cina, sostengono infatti che giocare all'aria aperta possa avere un effetto protettivo contro la miopia. Lo studio, pubblicato su Jama, è stato realizzato su quasi 2.000 studenti delle scuole primarie, con un'età media di 6 anni e mezzo. Gli studenti sono stati divisi in due gruppi: i bambini del primo hanno svolto ogni giorno 40 minuti di attività all'aria aperta. Inoltre, i genitori sono stati incoraggiati a coinvolgere i figli in giochi al parco dopo l'orario scolastico e nei giorni festivi. I bambini del secondo gruppo hanno invece continuato le solite attività. A distanza di tre anni, gli scienziati cinesi hanno riscontrato un tasso di miopia del 30,4 per cento nel primo gruppo e del 39,5 nel secondo.
He Mingguang, principale autore dello studio, spiega: “il nostro studio mostra una differenza del 9,1% nel tasso di incidenza della miopia. Il risultato è clinicamente importante perché i bambini piccoli che sviluppano la miopia precoce hanno maggiori probabilità di progredire in una miopia elevata, che aumenta il rischio di miopia patologica”. Ma per quale motivo stare all'aria aperta aiuterebbe i nostri occhi a vedere meglio? Una delle ipotesi è che la ridotta attività di sfuocamento grazie alle distanze meno ravvicinate inibisca la produzione di dopamina, mediatore chimico coinvolto nell'aumento dell'elasticità del tessuto oculare esterno, la sclera, ovvero la parte bianca dell'occhio.
http://www.medicalnewstoday.com/articles/299589.php
http://www.reuters.com/article/us-health-children-myopia-sunlight-idUSKCN0RF21X20150915
OCCHIO ALLA FARINA CRUDA: ECCO PERCHÉ GLI IMPASTI DI PANE, TORTE E BISCOTTI NON ANDREBBERO ASSAGGIATI.
26-02-2018
A chi non è capitato di assaggiare gli impasti crudi di biscotti, dolci, torte salate ecc. Spesso ci si preoccupa solo della presenza di uova non cotte e dunque potenzialmente pericolose per la trasmissione della Salmonella, gli esperti avvisano però che esistono rischi anche dovuti alla farina cruda. Secondo uno studio, pubblicato sul The New England Journal of Medicine, sembra che anche la farina in alcuni casi possa rivelarsi pericolosa. Si fa riferimento all'inchiesta su un'epidemia di Escherichia coli (E. coli) che la scorsa estate ha colpito 56 persone in 24 stati americani e che ha portato ad un richiamo di tonnellate di farina. L'apparentemente innocuo alimento di base di tantissimi impasti di ricette comuni può infatti teoricamente ospitare proprio ceppi di batteri di E. coli. Questo microrganismo spesso vive e prolifera in ambienti umidi come la carne o le verdure a foglia verde confezionate nei sacchetti ma riesce a prosperare anche in ambienti secchi. Questi batteri possono riuscire a sopravvivere in stato di disidratazione per mesi e riattivarsi poi a contatto con l'acqua. E non servono neppure grandi quantità per stare male, può bastare anche un piccolo assaggio di farina o altro alimento contaminato. Come ha dichiarato Samuel J. Crowe, autore principale dello studio ed epidemiologo della divisione di malattie alimentari, trasmesse dall'acqua e ambientali presso il Centers for Disease Control and Prevention (CDC): "I batteri non sono distribuiti uniformemente in un sacco di farina. Una piccola quantità potrebbe farti davvero male. Ho avuto E. Coli e salmonella ed è dannatamente spiacevole".
A causa delle preoccupazioni che suscita il consumo di uova crude, molte persone evitano di assaggiare impasti che le contengono ma spesso, avvisano gli esperti, si sottovalutano i potenziali rischi della farina. In caso di E. Coli, infatti, le persone potrebbero trovarsi alle prese con diarrea sanguinolenta, vomito, disidratazione e rischio di sviluppare la sindrome emolitica uremica (HUS), un tipo specifico di insufficienza renale, più comune nei bambini sotto i 5 anni di età, anziani e soggetti con sistema immunitario debole. Oltre ad astenersi dall'assaggiare impasti in cui sia presente farina cruda, gli esperti consigliano alle persone di lavarsi le mani con acqua calda e sapone subito dopo aver maneggiato la farina o aver utilizzato un mattarello. Nessun rischio invece per il prodotto finale: una cottura ad elevate temperature e prolungata ucciderà tutti gli agenti patogeni eventualmente presenti. Ricordiamoci quindi di queste raccomandazioni la prossima volta che ci verrà voglia di leccare il cucchiaio o “fare la scarpetta” nella ciotola dell’impasto che stiamo preparando.
LO ZUCCHERO ALIMENTA IL CANCRO: LO STUDIO CHE SPIEGA COME E PERCHÉ.
26-02-2018
Sul fatto che tra zucchero e cancro vi sia un'importante correlazione si discute da tempo, ma ora una nuova ricerca è riuscita a dare una svolta alla questione spiegando i meccanismi che sono alla base del rapporto tra eccessive assunzioni di zuccheri e la crescita di cellule tumorali. Sappiamo che le cellule del corpo umano richiedono energia e questa viene ricavata dagli zuccheri presenti nel cibo che assumiamo. Non fanno eccezione neppure le cellule tumorali, anche queste infatti necessitano di zuccheri per poter crescere. Quello che le distingue però dalle cellule sane è il fatto che la loro assunzione di glucosio è di molto superiore a quella delle cellule non degenerate così come il tasso di fermentazione del glucosio in acido lattico. Questo è conosciuto come effetto Warburg (dal nome del medico premio Nobel tedesco che l’ha scoperto ad inizio ‘900) e si ipotizza abbia a che fare con il rapido tasso di crescita del cancro anche se non è ancora chiaro se si tratta di un sintomo o di una causa della comparsa di questa malattia.
Un team di ricerca belga-olandese della Katholieke Universiteit Leuven e del VIB-VUB Center for Structural Biology di Bruxelles, ha studiato l’argomento per nove anni individuando il meccanismo grazie al quale le cellule tumorali metabolizzano lo zucchero. Per arrivare a questo risultato sono state utilizzate delle cellule di lievito che hanno un gene "Ras" che “programma” la sintesi delle omonime proteine che si trovano comunemente anche nelle cellule tumorali. Si è visto così che nelle cellule di lievito con grande afflusso di glucosio, le proteine Ras si attivano troppo e di conseguenza le cellule poi crescono a ritmo accelerato. In sostanza quello che avviene al cancro se vi è grande presenza di zucchero è che, in questo modo, può diventare più aggressivo e difficile da trattare.
Johan Thevelein, autore principale dello studio pubblicato su Nature Communications, in proposito ha dichiarato: "Abbiamo osservato che nel lievito il degrado dello zucchero è collegato all’attivazione delle proteine Ras tramite il fruttosio 1,6-bifosfato intermedio, che stimola la moltiplicazione di entrambi: lievito e cellule tumorali. La nostra ricerca rivela come il consumo di zucchero iperattivo delle cellule cancerose porta ad un circolo vizioso di continua stimolazione dello sviluppo del cancro e la crescita. Quindi è in grado di spiegare la correlazione tra la forza dell'effetto Warburg e l'aggressività del tumore”. Si tratta di “una svolta” come l’hanno definita i ricercatori ma si è ancora lontani dal riuscire ad arginare l’avanzata del cancro grazie alla comprensione di questo meccanismo. Potrebbe essere questa la chiave per “affamare” le cellule tumorali, il problema è però come riuscirci senza creare problemi anche a quelle sane. I risultati ottenuti da questa ricerca sono indubbiamente importanti e saranno una base fondamentale per futuri studi sull'argomento. Potrebbero avere anche implicazioni riguardo alla creazione di diete ad hoc per i malati di cancro.
https://www.nature.com/articles/s41467-017-01019-z
https://www.sciencealert.com/a-nine-year-study-has-just-shown-how-sugar-exacerbates-cancer
DEPRESSIONE: PER TENERLA LONTANA BASTA UN’ORA DI ATTIVITÀ FISICA A SETTIMANA.
26-02-2018
Se cerchi un modo completamente naturale per migliorare il tuo umore, rafforzare la memoria e proteggere il cervello dal declino cognitivo, questo potrebbe essere semplicemente fare del movimento. Una nuova ricerca suggerisce che basta un'ora di attività fisica a settimana per tenere lontana la depressione. Una serie di studi, tra cui quello appena pubblicato sull'American Journal of Psychiatry, suggeriscono che qualsiasi tipo di esercizio che aumenta la frequenza cardiaca e che grazie al movimento fa sudare per un periodo prolungato di tempo (ovvero il cosiddetto esercizio aerobico) ha un impatto significativo e benefico sul cervello. La maggior parte delle ricerche ha evidenziato che l’esercizio aerobico benefico per la mente è quello che si fa regolarmente per 30-45 minuti. Il nuovo studio ha mostrato invece che, indipendentemente dalla durata dell’allenamento, questo offre comunque vantaggi per la salute mentale. Fa bene dunque muoversi per 45 ma anche solo per 5 minuti. L’ideale sarebbe comunque praticare attività fisica per almeno un’ora a settimana.
Quello condotto dal team di ricerca internazionale del Black Dog Institute è il più grande studio a lungo termine che si è proposto di esaminare il legame tra esercizio fisico e salute mentale, con particolare attenzione alla depressione. I ricercatori hanno studiato quasi 34.000 persone adulte per 11 anni e analizzato con che frequenza si esercitavano ogni settimana, quanto fosse intenso il loro allenamento e se percepivano segnali di depressione o ansia. I risultati hanno evidenziato che basta un'ora di esercizio ogni settimana per proteggere le persone dalla depressione. Chi faceva movimento, infatti, aveva meno probabilità di avere sintomi depressivi. Nello specifico chi non dedica mai tempo all’attività fisica ha il 44% di probabilità in più di soffrire di problemi mentali rispetto a chi si allena un’ora o due a settimana. E questo indipendentemente da età e sesso.
Così ha commentato Samuel Harvey, coordinatore del team di ricerca: "Eravamo già a conoscenza che l'esercizio fisico gioca un ruolo importante nel trattare i sintomi della depressione. Ma è la prima volta che siamo in grado di quantificare il potenziale preventivo dello sport. Questi risultati sono emozionanti perché dimostrano che relativamente piccole quantità di esercizio, da un'ora alla settimana, possono offrire una protezione significativa contro la depressione". I ricercatori non sono ancora riusciti a chiarire tutti i meccanismi grazie ai quali l’esercizio fisico sembra offrire tanti benefici al nostro cervello e in generale a tutto il corpo. Indubbiamente muoversi migliora il flusso di sangue e dunque dona energia fresca e ossigeno al cervello. Ma si ritiene che ci sia da valutare anche l'impatto combinato dei benefici fisici con quelli sociali del praticare sport. In seguito ai risultati ottenuti, gli esperti suggeriscono di integrare l'esercizio nei singoli piani di salute mentale e nelle campagne di salute pubblica. Se si riuscisse a far praticare un pò più di attività fisica a tutta la popolazione, questo potrebbe comportare notevoli benefici per la salute fisica e mentale di ciascuno.
http://ajp.psychiatryonline.org/doi/abs/10.1176/appi.ajp.2017.16111223?journalCode=ajp&
PISTACCHI E ARACHIDI MIGLIORANO LA MEMORIA E LE ABILITÀ COGNITIVE.
25-02-2018
La frutta secca fa bene e dovremmo mangiarne una manciatina ogni giorno. Sempre nuove ricerche confermano infatti i benefici delle tante varietà di semi oleosi tra cui i pistacchi e le arachidi in grado di migliorare la memoria e le abilità cognitive. Un team di ricerca della Loma Linda University negli Stati Uniti ha scoperto che alcune noci hanno effetti benefici sulle frequenze cerebrali. Sebbene tutta la frutta secca agisca positivamente sul nostro corpo, in questo caso sarebbero in particolare i pistacchi e le arachidi che, se consumati regolarmente, migliorerebbero la salute del nostro cervello.
Per condurre l’esperimento, i ricercatori hanno preso sei varietà di frutta secca tra cui mandorle, pistacchi, noci, noci pecan, anacardi e arachidi. Sono stati effettuati poi, sui volontari che partecipavano alla ricerca, degli elettroencefalogrammi (EEG) per misurare la forza dei segnali delle onde cerebrali in seguito all’assunzione delle diverse varietà di alimenti. Secondo i dati dello studio, i pistacchi sarebbero in grado di produrre la più grande risposta di onde gamma, fondamentale per migliorare l'elaborazione cognitiva, la conservazione delle informazioni, l'apprendimento, la percezione e il rapido movimento degli occhi durante il sonno. Le arachidi, invece, hanno prodotto la più alta risposta delta associata ad un'immunità sana, alla guarigione naturale e al sonno profondo.
Mangiare ogni giorno questi tipi di frutta secca, a detta degli esperti, potrebbe dunque potenziare la memoria, rallentare l’invecchiamento, ridurre l’infiammazione all’interno del corpo e migliorare le abilità cognitive delle persone. Ciò sarebbe dovuto alla presenza in questi preziosi alimenti di acidi grassi essenziali e antiossidanti utili anche per rafforzare il sistema immunitario, aumentare il metabolismo e mantenere in buona salute il cuore. "Questo studio fornisce significativi risultati positivi dimostrando che la frutta secca è buona per il tuo cervello come lo è per il resto del corpo", ha dichiarato il professor Berk, ricercatore principale dello studio pubblicato sul FASEB Journal.
Ricordiamoci dunque di inserire più spesso la frutta secca nella nostra alimentazione, un’ottima idea è quella di utilizzarla come spuntino di metà mattina o metà pomeriggio. Naturalmente sarebbe bene scegliere le varianti più naturali, come ad esempio, pistacchi e arachidi senza l’aggiunta di sale, zucchero o altri ingredienti.
INCREDIBILE SCOPERTA: LE OSSA INFLUENZANO IL METABOLISMO DEI GRASSI E ZUCCHERI E REGOLANO L’APPETITO.
25-02-2018
Il tuo scheletro è molto più della struttura che aiuta i muscoli e altri tessuti. Produce anche ormoni. E Mathieu Ferron sa molto di tutto questo! Il ricercatore dell’Istituto di Ricerca Clinica Montreal (IRCM) e Professore presso la Facoltà di Medicina Université de Montréal ha trascorso l’ultimo decennio a studiare un ormone chiamato osteocalcina. Prodotta dalle nostre ossa, l’osteocalcina influisce sul metabolismo degli zuccheri e dei grassi. In un recente articolo pubblicato dal Journal of Clinical Investigation, il team di Ferron ha spiegato come funziona l’osteocalcina. La scoperta potrebbe aprire la strada a nuovi modi per prevenire il diabete di tipo 2 e l’obesità.
Nel corpo umano ci sono 206 ossa. La loro funzione più ovvia è strutturale, cioè sostenere i muscoli e gli organi del corpo. Le ossa sono vive e ricostruiscono costantemente se stesse, ma ora è stato scoperto che hanno una funzione precedentemente sconosciuta: possono agire come un organo endocrino che regola il metabolismo energetico, svolgendo un ruolo nella perdita e nel guadagno di peso attraverso la regolazione ormonale del glucosio. È da tempo noto che gli ormoni possono influenzare le ossa. “Basta pensare a come le donne sono più inclini a soffrire di osteoporosi quando raggiungono la menopausa, perché i loro livelli di estrogeni diminuiscono”, ha dichiarato Ferron. Ma l’idea che le ossa stesse possano influenzare altri tessuti si è radicata solo pochi anni fa con la scoperta dell’osteocalcina. Grazie a questo ormone, prodotto dalle cellule ossee, lo zucchero viene metabolizzato più facilmente. “Una delle funzioni dell’osteocalcina è aumentare la produzione di insulina, che a sua volta riduce i livelli di glucosio nel sangue”, ha spiegato Ferron. “Può anche proteggere dall’obesità aumentando le spese energetiche”.
Gli studi hanno dimostrato che, per alcune persone, i cambiamenti nelle concentrazioni di sangue di osteocalcina possono anche impedire lo sviluppo del diabete. Queste proprietà protettive hanno suscitato l’interesse di Ferron che ha indagato per capire come funziona effettivamente questo ormone. L’osteocalcina è prodotta dagli osteoblasti, le stesse cellule responsabili della produzione delle nostre ossa. L’ormone si accumula nelle ossa e poi, attraverso una serie di reazioni chimiche, viene rilasciato nel sangue. Il team IRCM sta concentrandosi su questo passo fondamentale. “Quando viene prodotta negli osteoblasti, l’osteocalcina è in forma inattiva”, fa notare Ferron. “Quello che ci interessava era capire come l’osteocalcina diventa attiva per essere in grado di svolgere il suo ruolo quando viene rilasciata nel sangue”. Il laboratorio IRCM ha dimostrato che è necessario un enzima che agisce come forbici molecolari. L’osteocalcina inattiva ha un pezzo in più dell’osteocalcina attiva. I ricercatori hanno esaminato nei topi i diversi enzimi presenti nelle cellule in cui è stata prodotta l’osteocalcina che potrebbero essere responsabili della eliminazione del pezzo in questione.
La squadra di Ferron è riuscita ad identificare l’enzima: si chiama furina e induce l’osteocalcina a diventare attiva e viene quindi rilasciata nel sangue. “Abbiamo dimostrato che quando non c’è l’enzima furina nelle cellule ossee, l’osteocalcina prodotta è inattiva e non viene rilasciata. Ciò ha portato ad un aumento dei livelli di glucosio nel sangue e una riduzione della spesa energetica e della produzione di insulina“, ha dichiarato Ferron. Anche la cancellazione di queste “forbici” ha avuto un effetto inaspettato: ha ridotto l’appetito del topo. ”Riteniamo che l’assenza di furina è la causa della riduzione dell’appetito nei topi”, spiega Ferron. Infatti, il suo team ha dimostrato che l’osteocalcina stessa non ha alcun effetto sull’appetito. “I nostri risultati suggeriscono l’esistenza di un nuovo ormone osseo che controlla l’assunzione di cibo”, ha dichiarato Ferron. “Nel futuro lavoro, speriamo di determinare se la furina interagisce con un’altra proteina coinvolta nella regolazione dell’appetito“.
CON ARGININA E ORNITINA L’ATTIVITA’ FISICA DECOLLA.
25-02-2018
La L-arginina è un aminoacido con importanti proprietà immunoprotettive e antistress presente in natura in ogni forma di vita. La sua integrazione è diffusa nel mondo dello sport per combattere l’affaticamento, l’astenia e gli stati post-traumatici; inoltre, ha mostrato di migliorare la tolleranza all’esercizio fisico ed è un precursore dell’ossido nitrico, gas che contribuisce all’aumento della vasodilatazione e che aiuta a migliorare la capacità di endurance nel flusso ematico.
Un recente studio si è concentrato sulla somministrazione di L-arginina nell’ambito di discipline di combattimento e di resistenza. I risultati hanno documentato una maggiore efficacia della L-arginina nella performance sportiva se assunta in combinazione con altri integratori come l’ornitina; lavorando in sinergia, infatti, questi due aminoacidi favoriscono con rapidità ancora maggiore il recupero muscolare.
https://juniperpublishers.com/nfsij/pdf/NFSIJ.MS.ID.555593.pdf
PIÙ DORMI E PIÙ LUNGA SARÀ LA TUA VITA.
24-02-2018
Dormire è un piacere, ma anche un modo per mantenersi in salute. L’esperto del sonno Matthew Walker spiega perché dormire allunga la vita e, al contrario, la scarsità di sonno può portare alla comparsa di diverse malattie. Matthew Walker è direttore del Centro per la Scienza del sonno umano (Università della California), un dipartimento che si impegna a comprendere il vero impatto del sonno sulla salute delle persone. L’esperto, in una lunga intervista apparsa sul The Guardian, ha raccontato i risultati di anni di studi sul sonno racchiusi poi nel suo libro “Why We Sleep”. Walker è convinto che siamo alle prese con una "catastrofica epidemia di perdita di sonno" le cui conseguenze sono molto più gravi di quanto possiamo immaginare. L’insonnia e un riposo non sufficiente stanno aumentando infatti il rischio di cancro, malattie cardiovascolari e Alzheimer. Come ha dichiarato l'esperto: “Alcuni aspetti della nostra biologia non sono rimasti indenni dalla privazione del sonno”.
E i risultati scientifici parlano chiaro! Più di 20 studi epidemiologici su larga scala sono arrivati alle stesse conclusioni: più breve è il sonno, più breve è la tua vita. Per fare un solo esempio, gli adulti di età superiore ai 45 anni che dormono meno di sei ore a notte hanno una probabilità maggiore del 200% di avere un infarto o ictus durante la loro vita, rispetto a quelli che dormono sette o otto ore a notte. La mancanza di sonno ostacola tra l’altro il controllo degli zuccheri nel sangue da parte del corpo e a lungo andare si diventa maggiormente sensibili all’aumento di peso. Il sonno ha poi un potente effetto sul sistema immunitario, non è un caso infatti che, quando abbiamo l’influenza, il nostro primo istinto è proprio quello di riposare di più. Dormire poco in età adulta aumenta in modo significativo anche il rischio di sviluppare l’Alzheimer. Le ragioni di questo sono difficili da riassumere, ma in sostanza hanno a che fare con i depositi amiloidi (una proteina tossica) che si accumulano nel cervello di coloro che soffrono della malattia, uccidendo le cellule circostanti. Durante il sonno profondo, tali depositi vengono puliti dal cervello.
Secondo l’esperto, il mondo dovrebbe essere più consapevole dei reali rischi della mancanza di sonno e prendere sul serio la questione anche in ambito lavorativo. Molte volte, infatti, dietro ad uno scarso riposo vi sono particolari orari di lavoro così come il poco tempo libero che ci costringe a sacrificare qualcosa e spesso a farne le spese è proprio il sonno. Importanti cambiamenti per garantire un buon riposo a tutti andrebbero apportati nelle case, nelle comunità ma anche nei luoghi di lavoro.
Ma qual è la causa di questa generale mancanza di sonno? Lo scienziato spiega che la presenza costante di luce, confini sempre più labili tra lavoro e vita privata e l'individualizzazione della società sono responsabili di questo fenomeno. Ma non è tutto: vi è anche un certo “stigma del sonno”, dormire è infatti attualmente associato a pigrizia e debolezza. Negli ultimi 75 anni i modelli di sonno sono cambiati, ha spiegato Walker. Nel 1942 solo l'8% della popolazione dormiva 6 o ancor meno ore per notte. Anche l'ansia fa molti danni e questo disturbo negli ultimi anni è particolarmente aumentato. Siamo una società che tende alla depressione e sostanze come alcol e caffeina, nemiche del sonno, sono alla portata di tutti. Ma Walker è effettivamente fedele alle sue convinzioni sul sonno. Questa la sua risposta: “Prendo il mio sonno incredibilmente sul serio perché ho visto le cose come stanno. Una volta che si sa che dopo una sola notte di quattro o cinque ore di sonno, le cellule natural killer - quelle che attaccano le cellule tumorali che appaiono nel tuo corpo ogni giorno - diminuiscono del 70%, o che una mancanza di sonno è legata al cancro dell'intestino, alla prostata e al seno, o addirittura che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato qualsiasi forma di lavoro a turni notturni come un possibile cancerogeno, come potresti fare altrimenti"?
Ricapitolando: senza sonno abbiamo una più bassa energia e ci esponiamo maggiormente alle malattie. Con il giusto sonno, invece, c'è vitalità e salute.
IL CORPO HA UNA NOTEVOLE CAPACITA’ DI RIPARARSI ANCHE DOPO ANNI DI FUMO.
24-02-2018
Anche dopo anni di fumo di tabacco, il corpo ha una notevole capacità di ripararsi. Ora, in uno studio che compare in ACS Journal of Proteome Research, gli scienziati riferiscono che alcuni cambiamenti metabolici avvengono presto dopo aver smesso di fumare e questi cambiamenti spiegano come alcuni effetti negativi del fumo sono reversibili. Il fumo uccide più di 7 milioni di persone in tutto il mondo ed è uno dei fattori di rischio più importanti per sei delle otto cause principali di morte prematura, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Subito dopo che una persona ha smesso di fumare, il corpo comincia a riparare alcuni danni accumulati e causati dal fumo. Infatti, secondo i centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, due o tre mesi dopo aver smesso di fumare, la funzione polmonare inizia a migliorare e il rischio di attacco cardiaco inizia a diminuire.
Uno studio precedente, pubblicato nel 2013, ha suggerito che i cambiamenti metabolici che si verificano dopo la cessazione del fumo possono avviare questi miglioramenti fisiologici. Basandosi su questo lavoro, Nikola Pluym e colleghi hanno cercato di verificare le alterazioni che il fumo causa nelle vie metaboliche del corpo e se uno qualsiasi di questi cambiamenti sia reversibile dopo aver smesso di fumare. I ricercatori hanno raccolto regolarmente campioni di sangue, urina e saliva da volontari maschi che tentavano di smettere di fumare e fino a tre mesi dopo la cessazione del fumo. Per ridurre al minimo gli effetti nutrizionali sul metabolismo, i ricercatori hanno controllato rigorosamente le diete dei volontari durante quattro soggiorni dei pazienti. Per garantire la conformità, hanno misurato i livelli di monossido di carbonio e cotinina, un metabolita della nicotina che può essere rilevato nell’urina e nella saliva per diversi giorni dopo che qualcuno ha fumato. Nel complesso, i ricercatori hanno identificato 52 metaboliti che sono risultati alterati in modo significativo dopo che i soggetti hanno smesso di fumare, tra cui diversi che hanno mostrato cambiamenti reversibili. La squadra ha concluso che questi composti potrebbero essere usati un giorno come biomarcatori per rilevare cambiamenti biologici indotti dal fumo.
LA VITAMINA D POTREBBE PREVENIRE IL DIABETE DI TIPO 2.
24-02-2018
La vitamina D esercita i suoi effetti anche al di fuori delle ossa, influenzando anche il metabolismo. Ernesto Maddaloni e colleghi, in uno studio presentato al congresso annuale dell’EASD a Lisbona, sono andati a valutare l’effetto di una supplementazione di calcidiolo (una forma di vitamina D) sull’insulino-resistenza, sulla funzione delle cellule beta- pancreatiche (quelle produttrici di insulina) e sui marcatori di infiammazione e di stress ossidativo nei soggetti con pre-diabete e bassi livelli di vitamina D. A questo scopo, 150 pazienti sono stati randomizzati in doppio cieco in 3 gruppi (ognuno di 50 persone) che hanno assunto ogni giorno per 6 mesi: 50 mcg di calcidiolo (gruppo A), 25 mcg di calcidiolo (gruppo B), o placebo (gruppo C). All’inizio e alla fine dello studio, gli autori sono andati a valutare l’insulino-resistenza (Indice ISogtt) e la funzione beta-cellulare (Indice ISSI-2), confrontandola nei tre gruppi di pazienti.
I risultati dimostrano che i livelli circolanti di vitamina D risultano correlati sia agli indici di insulino-resistenza che di funzionalità delle beta-cellule, parametri questi che migliorano dopo la supplementazione con alte dosi di calcidiolo. Lo studio ha inoltre dimostrato che la supplementazione con calcidiolo si associa a una riduzione del recettore solubile dei prodotti avanzati della glicosilazione, che rappresenta un marcatore di stress ossidativo causato dall’iperglicemia. La vitamina D è un ormone che viene in parte assunto attraverso la dieta e in parte sintetizzato dall’organismo, a partire dal colesterolo, grazie all’azione dei raggi ultravioletti del sole. Esistono diverse forme di vitamina D; quella più comunemente utilizzata in clinica è il colecalciferolo, una molecola liposolubile che deve essere attivata prima dagli enzimi epatici e poi da quelli renali per poter essere utilizzata dall’organismo. Il calcidiolo è invece una molecola idrosolubile, già parzialmente attiva ed è la forma di vitamina D che viene misurata nel sangue.
Gli effetti della vitamina D sono numerosi e non si limitano al metabolismo dell’osso; infatti è stato osservato che bassi livelli di vitamina D sono associati ad alterata glicemia a digiuno, ridotta tolleranza al glucosio e diabete mellito di tipo 2. Tuttavia non è nota la dose ottimale di vitamina D, per prevenire il diabete di tipo 2. Gli studi clinici condotti finora non hanno dato risultati incoraggianti ma questo potrebbe essere legato al fatto che il colecalciferolo si disperde facilmente nel tessuto adiposo, più rappresentato nei soggetti pre-diabetici, che sono tendenzialmente sovrappeso o obesi. “Una maggiore comprensione degli effetti della vitamina D sul metabolismo del glucosio, sull’insulino-resistenza, dei fattori infiammatori e sulla funzione delle cellule beta pancreatiche potrebbe consentire nuovi approcci terapeutici nella prevenzione del diabete tipo 2 e nel progressivo deterioramento del controllo metabolico - commenta il professor Giorgio Sesti, presidente della SID -. Sono particolarmente lieto che tali ricerche possano essere presentate in un importante congresso internazionale da un giovane ricercatore sostenuto dalla SID”.
Un’altra ricerca ha dimostrato invece il nesso esistente fra bassi livelli ematici di 25-idrossivitamina D (25OH-D) e il rischio di malattie vascolari nei pazienti diabetici. Lo dice uno studio pubblicato su Diabetes Care da un team del Royal Prince Alfred Hospital di Sydney. Markus Hermann, il coordinatore dello studio, spiega: “da ricerche recenti emerge la presenza di un'associazione tra diabete, malattie dei vasi e carenza di vitamina D che rende necessari studi prospettici rigorosi per valutare il rapporto tra 25OH-D circolante e disturbi vascolari nei diabetici, con particolare attenzione al coinvolgimento microvascolare. Nello studio FIELD (Fenofibrate Intervention and Event Lowering in Diabetes), riportiamo le correlazioni tra concentrazioni ematiche basali di 25OH-D e patologie a carico dei vasi nella coorte FIELD”.
I ricercatori hanno analizzato il rapporto fra concentrazione di vitamina D e incidenza di lesioni macrovascolari come l'infarto miocardico e l'ictus o microvascolari come la retinopatia, la nefropatia e la neuropatia. Dai risultati emerge che la metà dei pazienti aveva concentrazioni di vitamina D basse e che rischiavano più degli altri l'insorgenza di eventi vascolari. “In conclusione, questi dati dimostrano un legame tra basse concentrazioni ematiche di 25OH-D e aumento delle probabilità di eventi vascolari nel diabete di tipo 2, anche se un nesso causale resta da dimostrare”, concludono gli autori.
Secondo una ricerca dell'Università di San Diego pubblicata sulla rivista Diabetologia, invece, una carenza di vitamina D aumenta le probabilità che si sviluppi il diabete di tipo 1. Secondo i risultati ottenuti, la vitamina D svolgerebbe un ruolo protettivo anche nei confronti di questa forma della malattia. Per arrivare a queste conclusioni, i ricercatori hanno utilizzato alcuni campioni di sangue congelati dal Dipartimento della Difesa, prendendo in esame 1.000 soggetti che hanno sviluppato il diabete di tipo 1 e altri 1.000 sani. Il confronto scaturito ha fatto emergere che la sostanza si rivela protettiva nei confronti della malattia: “un livello di 50 nanogrammi per millilitro di sangue riduce i casi della metà senza provocare effetti collaterali", hanno spiegato gli autori.