Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

14-02-2018

Ricerche recentemente pubblicate dall’Università della Danimarca meridionale e dalla Danish Cancer Society mostrano una connessione tra uno dei più comuni farmaci per l’ipertensione e il cancro della pelle. Ricercatori danesi si sono concentrati sulla medicina antipertensiva contenente idroclorotiazide (Esidrex) in relazione ad un aumentato rischio di cancro della pelle. I ricercatori hanno precedentemente dimostrato che il farmaco, che è uno dei farmaci più usati in tutto il mondo, può aumentare il rischio di cancro al labbro. In un nuovo studio, i ricercatori hanno identificato un’altra chiara connessione tra l’uso del farmaco per l’ipertensione e la possibilità di sviluppare il cancro della pelle. Più specificamente, questo si riferisce a farmaci contenenti idroclorotiazide e carcinoma a cellule squamose.
I ricercatori hanno anche esaminato altri farmaci comunemente usati per l’ipertensione, ma nessuno di questi ha aumentato il rischio di cancro della pelle . “Sapevamo che l’idroclorotiazide rendeva la pelle più vulnerabile ai danni provocati dai raggi UV del sole, ma ciò che è nuovo, e anche sorprendente, è che l’uso a lungo termine di questo medicinale per la pressione del sangue, porta ad un aumento così significativo del rischio di cancro della pelle”, dice Anton Pottegård, Professore associato dell’Università della Danimarca meridionale. Lo studio, che si basa su circa 80.000 casi danesi di cancro della pelle, mostra che il rischio di sviluppare il cancro è fino a sette volte maggiore per gli utilizzatori di medicinali contenenti idroclorotiazide.
Esistono diversi tipi di cancro della pelle. Il carcinoma a cellule squamose, al quale è associato il medicinale per la pressione sanguigna, può essere facilmente trattato e ha un tasso di mortalità molto basso. L’idroclorotiazide è uno dei farmaci più comunemente usati per ridurre la pressione sanguigna sia negli Stati Uniti, dove oltre 10 milioni di persone usano il farmaco ogni anno, sia nell’Europa occidentale. Gli effetti collaterali interessano quindi molte persone e i ricercatori hanno calcolato che circa il 10% di tutti i casi danesi di carcinoma a cellule squamose può essere causato dall’idroclorotiazide. ”Ovviamente non bisogna interrompere il trattamento senza prima consultare il medico, tuttavia, se si utilizza idroclorotiazide al momento, potrebbe essere una buona idea parlare con il medico per vedere se è possibile scegliere un farmaco diverso”, afferma Anton Pottegård.
Come parte del progetto, i ricercatori danesi hanno collaborato con il Dr. Armand B. Cognetta Jr., della divisione di Dermatologia della Florida State University, che è a capo di uno dei più grandi centri di trattamento per il cancro della pelle negli Stati Uniti. Il Dr. Cognetta ha una vasta esperienza nella diagnosi e nel trattamento di pazienti affetti da cancro della pelle in Florida, e ha notato che l’idroclorotiazide è sospettosamente prevalente tra i suoi pazienti. Il ricercatore accoglie i nuovi risultati con entusiasmo ed afferma: “Abbiamo visto e seguìto molti pazienti con diversi tipi di cancro della pelle dove l’unico fattore di rischio, a parte l’esposizione alla luce solare, sembra essere l’idroclorotiazide. Sapevamo che l’idroclorotiazide rende sensibili al sole, ma la connessione tra questo medicinale e il cancro della pelle è rimasta elusiva: lo studio condotto da Pottegård e dai suoi colleghi avrà un grande impatto sulla prevenzione del cancro della pelle e sulla salute pubblica in tutto il mondo”.
I ricercatori continuano a lavorare su studi che possono gettare ulteriore luce sulla connessione tra idroclorotiazide e cancro della pelle. Inoltre, hanno avviato un dialogo con le aziende mediche competenti e con l’Agenzia dei medicinali danese in merito ai loro risultati. “Il rischio di cancro della pelle deve, ovviamente, essere valutato rispetto al fatto che l’idroclorotiazide è un trattamento efficace e sicuro per la maggior parte dei pazienti. Tuttavia i nostri risultati dovrebbero portare a una riconsiderazione dell’uso di idroclorotiazide”, afferma Anton Pottegård.

 

https://www.sciencedaily.com/releases/2017/12/171204105339.htm

http://www.jaad.org/article/S0190-9622(17)32741-X/pdf

13-02-2018

Peste nera: per secoli ce la siamo presa coi topi, ma la vera causa l’avevamo tra noi. Sarebbe stato, infatti, l’uomo stesso, con le sue pulci e i suoi pidocchi, a diffondere l’epidemia che nel 1347 sterminò mezza Europa. A dirlo è uno studio congiunto dell’Università di Ferrara e dell’Università di Oslo, secondo cui la causa della cosiddetta “Black Death”, la Morte nera, è da ricercarsi non già nei parassiti infetti che colonizzavano i topi, ma nella scarsa igiene delle popolazioni umane. E così, dal 1347 al 1352 il contagio diretto avvenuto tramite pulci e pidocchi dell’essere umano uccise ben 25 milioni di europei.

COS’ERA LA PESTE NERA

Una delle più grandi epidemie su cui si è certi, uccise - anche se non c’è un numero preciso della popolazione a quei tempi - almeno un terzo degli europei nel XIV secolo. A impiegare per la prima volta il termine “morte nera” furono cronisti danesi e svedesi (dal latino atra mors, letteralmente "morte nera", dove l’aggettivo atra ha il significato di “triste”, “atroce”) riferendolo alla peste del 1347-1353 per rimarcare la devastazione di tale epidemia.
Agli inizi del 1800 la definizione fu ripresa dal medico tedesco Justus Friedrich Karl Hecker, che con l’articolo sull’epidemia di peste del 1347-1353, “La morte nera”, diede grande risonanza alla faccenda. Da allora i termini Black death o Schwarzer Tod vennero utilizzati per indicare l'epidemia di peste del XIV secolo. Quanto alle cause, non ci sono mai state piste certe, ma i più hanno sempre pensato che il batterio della malattia fosse portato dai topi.

LO STUDIO

Quel che è certo è che la peste, causata dal batterio Yersinia pestis, può diffondersi attraverso le popolazioni umane attraverso molteplici vie di trasmissione. Oggi, la maggior parte dei casi di peste umana sono di peste cosiddetta “bubbonica”, causata da pulci infette di roditori o dall’inalazione di goccioline infettive (trasmissione pneumonica). Tuttavia, si sa poco sulla diffusione storica della peste in Europa durante la seconda pandemia (14esimo - 19esimo secoli), compresa la peste nera, che ha portato ad un’elevata mortalità e ricorrenti epidemie per centinaia di anni. Diversi studi hanno suggerito che i vettori umani ectoparassiti, come le pulci umane (Pulex irritans) o i pidocchi del corpo (Pediculus humanus humanus), hanno causato epidemie in rapida diffusione. E in questo studio, i ricercatori vogliono descrivere un modello per la trasmissione della peste da un vettore umano ectoparassita, scoprendo che questo modello si adatta alle curve di mortalità di nove focolai in Europa, ancora meglio rispetto ai modelli per trasmissione pneumonica o di roditori. I risultati sostengono che gli ectoparassiti umani sono stati i principali vettori di peste durante la seconda pandemia, compresa la peste nera (1346-1353), sfidando l'ipotesi che la peste in Europa fosse prevalentemente diffusa dai topi.
I ricercatori norvegesi e italiani hanno dunque usato i dati sulla mortalità in nove città europee, confrontandoli con modelli simulati della diffusione della malattia in ciascuna città, “in modo da ricostruire la dinamica dello sviluppo del morbo”. Gli studiosi hanno poi realizzato tre modelli: la diffusione della peste nera da parte dei ratti; la trasmissione per via aerea e la trasmissione tramite pulci e pidocchi che vivevano su esseri umani e sui loro vestiti. In sette casi su nove, è risultato che “il modello dei parassiti umani” rifletteva meglio la maniera in cui la peste si è moltiplicata e ha fatto vittime. “La conclusione è molto chiara - afferma il professor Stenseth -. Sono stati i pidocchi umani. È improbabile che la peste si sarebbe diffusa così rapidamente se fosse stata trasmessa dai ratti. L’ipotesi più verosimile è la trasmissione umana, da persona a persona. Ma comprendere il più possibile che cosa succede durante un’epidemia può aiutarci a ridurre la mortalità in futuro”, osserva il professore norvegese.

 

https://www.independent.co.uk/news/science/black-death-what-cause-humans-rats-fleas-deaths-bubonic-plague-a8162006.html

13-02-2018

Soffiare sulle candeline della propria torta di compleanno è un rito che si ripete di anno in anno, apprezzato soprattutto dai più piccoli. Ma neanche questo semplice gesto sarà più del tutto spensierato se si considerano i dati di un nuovo studio che arriva dalla Carolina del Sud. Quanti batteri avranno trovato su una torta? I batteri sono ovunque, ci accompagnano nei luoghi che frequentiamo, sono su cibi che mangiamo, sugli oggetti che tocchiamo e ovviamente anche dentro di noi. Ma avete mai pensato a quanti batteri ci trasmettiamo vicendevolmente durante una festa di compleanno? Quanti microrganismi sono ad esempio presenti sulla tanto attesa torta che poi condividiamo?
A voler analizzare i batteri "ospiti" di una torta di compleanno è stato un team dell’Università di Clemson che ha riprodotto il dolce tipico delle feste mettendo della glassa su un pezzo di stagnola avvolta su una ruota di polistirolo. Sopra immancabili vi erano le candeline. Ai partecipanti all'esperimento è stato chiesto, per prima cosa, di mangiare una fetta di pizza in modo da stimolare le ghiandole salivari e rendere più veritiera la loro partecipazione ad una festa di compleanno, solo dopo hanno soffiato sulle candeline. A questo punto i ricercatori si sono messi alla ricerca dei batteri presenti sulla glassa scoprendo che, una volta spente le candeline, la torta aumentava la sua carica batterica e di molto. Si è notato che ogni partecipante aggiungeva al dolce diversi tipi di batteri e in maggiore o minore quantità. In media, soffiando sulle candeline, il numero di batteri aumentava di 14 volte ma c’è stato un caso in cui si incrementava addirittura di 120 volte, si è capito così che alcune persone trasferiscono più batteri rispetto ad altre.
Il dottor Paul Dawson, a capo della ricerca pubblicata sul Journal of food research, ha però dichiarato che la maggior parte dei batteri non erano dannosi per gli esseri umani. Molti microrganismi innocui vivono infatti nelle nostre cavità orali ogni giorno. Insomma dovremmo rinunciare ad una fetta di torta per paura dei batteri? Assolutamente no, è questo un mezzo come un altro per tenere vivo il nostro sistema immunitario!

 

http://www.ccsenet.org/journal/index.php/jfr/article/view/67217

13-02-2018

Oltre ad essere un potente antiossidante e un forte alleato di fegato e apparato respiratorio, il glutatione svolge effetti protettivi contro il danno cutaneo dovuto ad un’eccessiva esposizione solare. Inoltre contrasta la disidratazione della pelle, proteggendo dall’invecchiamento cutaneo. Di recente è stato condotto uno studio in Giappone su 60 volontarie sane tra i 20 e 50 anni, suddivise in tre gruppi a cui sono stati somministrati oralmente per 12 settimane rispettivamente 250 mg/die di GSH (glutatione ridotto), 250 mg/die di GSSG (una sua forma ossidata) o un placebo, per valutare il miglioramento delle proprietà del tessuto cutaneo. L’analisi dei risultati finali ha dimostrato che l’indice di melanina e le macchie ultraviolette miglioravano su viso e braccia in egual misura con GSH e GSSG; in questi due gruppi è stata registrata una tendenza all’aumento dell’elasticità della pelle. Inoltre, le rughe diminuivano in modo significativo nel gruppo GSH. Gli studiosi giapponesi sono pertanto giunti alla conclusione che l’assunzione di 250 mg/die di glutatione, nelle sue due forme possibili, rinforza la cute e svolge una funzione antiaging, quantomeno nelle donne mature. Per confermare questi risultati, hanno garantito nuovi studi su più ampie e diversificate tipologie di popolazione.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5413479/

Martedì, 13 Febbraio 2018 05:58

ALLARME ASSORBENTI: SOSTANZA CANCEROGENA.

13-02-2018

Uno studio dell’Università Nazionale di La Plata in Argentina, ha fatto luce su un dato fino ad ora sconosciuto e che mette in seria preoccupazione le donne di tutto il mondo. Gli studiosi, analizzando assorbenti classici e tamponi interni, anche di marche molto famose, hanno rinvenuto che nell’85% di questi, sono presenti tracce di glifosato, ovvero il principio chimico del pesticida maggiormente venduto a livello globale. Diversi studi hanno dimostrato, ad esempio, una correlazione tra l’alta tossicità del glifosato utilizzato per la disinfestazione dei campi e le svariate e gravi malattie riscontrate negli animali. Nel marzo 2015, inoltre, l’organismo internazionale IARC (International Agency for Research on Cancer) ha classificato la sostanza come “probabile cancerogena per l’uomo”.
Proprio tale sostanza, quindi, si trova all’interno degli assorbenti che molte donne acquistano nei supermercati. Nel mirino anche garze e cotone per le ferite. “Crediamo di usare prodotti sterili e invece sono contaminati da sostanze cancerogene, ha spiegato al terzo congresso dei Peuples contamines il medico Medardo Avila Vazquez. “Controllate che cosa contengono i prodotti che comprate. Quando il bozzolo è aperto, il glifosato viene sparso sul cotone e quindi si condensa sui prodotti”.

 

http://www.babydotorganic.com/why-we-should-stop-using-tampons-and-pads/

https://steptohealth.com/85-feminine-hygiene-products-contain-glyphosate/

12-02-2018

Il cibo non è solo la somma delle sue sostanze nutritive. Tradizionalmente le indagini sulle implicazioni di un prodotto alimentare sulla salute umana si basano sull’analisi del suo contenuto di singoli nutrienti come proteine, grassi, carboidrati ecc. Tuttavia, la ricerca più recente dimostra che gli effetti sulla salute di un prodotto alimentare non possono essere determinati sulla base delle singole sostanze nutritive che esso contiene. Il cibo deve essere valutato nel suo insieme e insieme ad altri alimenti consumati allo stesso tempo. Sono queste le conclusioni di un gruppo di esperti, pubblicate sulla rivista scientifica di prestigio The American Journal of Clinical Nutrition.
Tanja Kongerslev Thorning, postdoc del Dipartimento di Nutrizione dell’Università di Copenaghen e primo autore dell’articolo, spiega che i ricercatori si sono a lungo chiesti perché gli effetti concreti di un alimento sono in contrasto con gli effetti attesi sulla base del suo contenuto nutrizionale. Hanno quindi iniziato ad indagare in un contesto più ampio. ”Nel corso degli anni abbiamo acquisito più metodi per esplorare ciò che nutrienti specifici significano per la digestione e la salute umana. Ma quando mangiamo, noi non consumiamo singoli nutrienti. In entrambi i casi, da soli o insieme in un pasto, sembra evidente che i prodotti alimentari devono essere valutati nel contesto”, dice Tanja Kongerslev Thorning. Infine questo significa che la composizione di un alimento può alterare le proprietà dei nutrienti in esso contenuti in modi che non possono essere previsti sulla base di un’analisi dei singoli nutrienti. Ad esempio, i prodotti lattiero-caseari come il formaggio hanno un minore effetto sul colesterolo nel sangue di quanto previsto sulla base del loro contenuto di grassi saturi. Ci sono interazioni tra le sostanze nutritive in un alimento che sono significative per il suo effetto complessivo sulla salute.
Tanja Kongerslev Thorning spiega ulteriormente: “Un altro esempio sono le mandorle che contengono molti grassi, ma che rilasciano meno grasso di quanto previsto durante la digestione, soprattutto quando vengono masticate molto bene. Gli effetti sulla salute di un alimento sono probabilmente una combinazione di rapporti fra le sue sostanze nutritive e anche metodi utilizzati per la sua preparazione o produzione. Questo significa che alcuni alimenti possono essere più sani di quanto attualmente si crede. Alcuni dei precetti della corrente scienza della nutrizione devono essere riconsiderati”.
Il gruppo di ricercatori alla base di queste conclusioni è composto da 18 esperti in epidemiologia, cibo, nutrizione e scienza medica, che hanno collaborato ad un workshop organizzato dall’Università di Copenhagen in collaborazione con l’Università di Reading nel mese di settembre 2016. Lo studio è stato focalizzato sui prodotti lattiero-caseari e su come la miscela complessa di sostanze nutrienti e sostanze bioattive, come minerali e vitamine, può influenzare la digestione e in ultima analisi, modificare le proprietà generali nutrizionali e i benefici sulla salute di un determinato alimento. Il gruppo ha concluso, tra l’altro, che lo yogurt e il formaggio hanno un effetto diverso e più benefico sulla salute delle ossa, il peso corporeo, il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, rispetto a quanto ci si aspetterebbe sulla base del loro contenuto di grassi saturi e di calcio.
Il Direttore del Dipartimento di Nutrizione dell’Università di Copenaghen, il Prof. Arne Astrup che ha presieduto il seminario, spiega che l’esempio del formaggio è buono per illustrare che gli effetti sulla salute di un alimento non possono essere giudicati da singoli nutrienti ad esempio sodio e grassi saturi. Spiega Astrup: “In contrasto con le attuali raccomandazioni che essenzialmente vietano il formaggio a causa del totale di grassi in esso contenuti, la ricerca attuale dimostra chiaramente che il formaggio offre numerosi benefici per la prevenzione del diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari e tumori. Tutti gli effetti positivi sono dovuti a una complessa interazione tra batteri benefici, minerali e gli ingredienti bio-attivi del formaggio”. Ian Givens, Prof. di Nutrizione presso l’Università di Reading e co-Presidente della riunione, conclude: “Sono necessari ulteriori studi, ma alla fine sembra che alcune aree della scienza della nutrizione hanno bisogno di essere ripensate. Non possiamo concentrarci su un nutriente senza guardare come si è consumato e che altro si mangia allo stesso tempo”.

 

http://ajcn.nutrition.org/content/105/5/1033

12-02-2018

Vitamina D, una sostanza fondamentale per il nostro organismo di cui però, per diversi motivi, siamo spesso carenti. Una nuova ricerca mette in luce i rischi per le donne: una carenza di vitamina D aumenta la probabilità di ammalarsi di Sclerosi Multipla. Secondo lo studio, condotto da un team della Harvard TH Chan School of Public Health di Boston e pubblicato sulla rivista Neurology, le conseguenze di una carenza di vitamina D per le donne potrebbero rivelarsi davvero molto serie. Bassi livelli di questa sostanza sono stati associati infatti a quasi il 50% in più di probabilità di sviluppare la Sclerosi Multipla, malattia neurodegenerativa.
Per arrivare a questo risultato i ricercatori americani hanno esaminato campioni di sangue di oltre 3.200 donne, che hanno già di per sé una probabilità di due o tre volte maggiore di trovarsi alle prese con una diagnosi di Sclerosi Multipla rispetto agli uomini. Analizzando alcuni parametri si è notato che le persone carenti di vitamina D avevano una probabilità superiore del 43% di ammalarsi nell’arco dei successivi 9 anni rispetto a coloro che avevano livelli adeguati. Il rischio è stato invece del 27% più alto per le donne carenti rispetto a quelle con livelli appena insufficienti.
I risultati potrebbero aiutare a spiegare perché esistono tassi più alti di Sclerosi Multipla tra le persone che vivono nei paesi nordici (la ricerca ha preso a campione proprio donne finlandesi) meno esposte alla luce solare (ricordiamo che il sole è fondamentale per aiutare il corpo a produrre la vitamina D necessaria). Si ritiene che la cosiddetta "vitamina del sole”, che si trova anche in alcuni alimenti come uova, latte, carne e pesce, possa aiutare a sopprimere le cellule immunitarie che attaccano il corpo causando appunto la malattia, tristemente nota per la sua aggressività e che porta in molti casi alla necessità di utilizzare una sedia a rotelle. 
Nonostante siano necessari ulteriori studi, da effettuare su persone provenienti da una gamma più ampia di gruppi e regioni, Kassandra Munger, autrice principale dello studio ha dichiarato: "Il nostro studio, che coinvolge un gran numero di donne, suggerisce che la correzione della carenza di vitamina D nelle donne giovani e di mezza età può ridurre il rischio futuro di SM". Secondo gli esperti, dunque, tutte le donne dovrebbero discutere con il proprio medico l’eventualità di assumere un integratore, soprattutto nel caso si lavori in luoghi chiusi, durante la gravidanza o in età avanzata. La vitamina D, tra l’altro, non è importante solo per evitare la comparsa di questa malattia ma nel corso della vita di ogni individuo offre molteplici benefici per la salute.

 

http://www.neurology.org/content/early/2017/09/13/WNL.0000000000004489

12-02-2018

Una dieta ad alto contenuto di sale può causare problemi al cervello anche se non aumenta la pressione sanguigna, secondo una nuova ricerca. Un nuovo studio ha dimostrato che nei topi alimentati con una dieta molto salata, il flusso di sangue al cervello è diminuito, l’integrità dei vasi sanguigni nel cervello ha sofferto e le prestazioni nei test della funzione cognitiva sono crollate. I ricercatori hanno scoperto che quegli effetti non erano, come è stato a lungo considerato, una conseguenza naturale dell’ipertensione arteriosa, ma sembravano essere il risultato di segnali inviati dall’intestino al cervello, dal sistema immunitario. Lo studio, condotto da ricercatori della Weill Cornell Medicine di New York, è stato pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience.
La ricerca mette in luce un argomento di vivo interesse per gli scienziati che hanno esplorato i legami tra ciò che mangiamo, le nostre abilità mentali e il ruolo di mediazione che il sistema immunitario gioca in quella comunicazione. La ricerca suggerisce che anche prima che una dieta ad alto contenuto di sale potesse causare l’aumento della pressione sanguigna e compromettere la salute dei minuscoli vasi sanguigni nel cervello, l’intestino stava già inviando autonomamente messaggi che gettano le basi per la corrosione di quella rete vitale. Nell’intestino tenue dei topi, gli autori della nuova ricerca hanno scoperto che una dieta ad alto contenuto di sale ha stimolato una risposta immunitaria che ha potenziato i livelli circolanti di una sostanza infiammatoria chiamata interleuchina-17. Questi alti livelli di IL-17 innescano una cascata di risposte chimiche all’interno dei delicati rivestimenti interni dei vasi sanguigni del cervello. La ricerca ha dimostrato che nei topi nutriti con la dieta ad alto contenuto di sale, l’apporto di sangue a due regioni cruciali per l’apprendimento e la memoria - la corteccia e l’ippocampo - rallenta notevolmente e le prestazioni mentali si riducono. Rispetto ai topi alimentati con una dieta a basso contenuto di sale, i topi che consumavano alti livelli di sale hanno dimostrato ridotte abilità nei test con labirinti e non hanno risposto normalmente alla stimolazione dei baffi o ad un nuovo oggetto nella loro gabbia.
In quei topi, la compromissione cognitiva era evidente anche in assenza di ipertensione. La buona notizia, almeno per i topi, è che quando la dieta ad alto contenuto di sale veniva interrotta o quando i segnali immunitari venivano compressi dai farmaci, le prestazioni cognitive dei topi venivano ripristinate. Il ruolo del sistema immunitario nell’invio di segnali tra cervello e intestino si riscontra anche in malattie come la sclerosi multipla, l’artrite reumatoide, la psoriasi e la malattia infiammatoria intestinale, tutti disturbi legati al cattivo funzionamento dei vasi sanguigni del cervello. I ricercatori hanno suggerito che se un farmaco o una terapia potesse interrompere i segnali infiammatori che raggiungono il cervello, il rischio di infarto e ictus associato a tali malattie potrebbe essere ridotto.

 

https://www.nature.com/articles/s41593-017-0059-z

11-02-2018

Le sigarette light non sono più salutari delle altre sigarette. Al contrario, avrebbero contribuito all’aumento della forma più comune di tumori ai polmoni che si è registrata negli ultimi cinquant’anni nonostante la riduzione del numero di fumatori. Lo mostra uno studio finanziato dal National Cancer Institute e dal Food and Drug Administration Center for Tobacco Products e apparso sulla rivista Journal of the National Cancer Institute. I ricercatori della Ohio State University (USA) si sono chiesti il perché della crescita dei casi di adenocarcinoma nonostante la complessiva tendenza alla diminuzione di tutte le forme di tumore al polmone negli Stati Uniti. 
Lo studio, svolto in collaborazione con altri cinque centri del paese, ha confermato quanto gli scienziati già sospettavano da tempo e cioè l’associazione tra il fumo delle sigarette light e l’incidenza dell’adenocarcinoma, tumore che si sviluppa nelle profondità dei polmoni. Infatti, in questo tipo di sigarette, i fori che circondano il filtro fanno pensare ai fumatori che il fumo inalato sia meno dannoso. Al contrario, i fori consentono una combustione più lenta e ad una temperatura inferiore, il fumo poi si disperde in aria e tutto ciò fa sì che i fumatori tendono ad inalare più intensamente, tanto che i prodotti chimici tossici scendono in profondità nei polmoni.
«I nostri dati suggeriscono una chiara relazione tra l’aggiunta di fori di ventilazione nelle sigarette e i tassi crescenti di adenocarcinoma del polmone visti nel corso degli ultimi 20 anni», ha sottolineato Peter Shields, autore dello studio. «Quello che è particolarmente preoccupante - ha continuato - è che questi fori vengono ancora aggiunti a quasi tutte le sigarette che si fumano oggi». Secondo lo scienziato, è sempre più evidente che queste sigarette “ventilate” sono più pericolose e andrebbero vietate.

 

https://academic.oup.com/jnci/article-abstract/109/12/djx075/3836090

https://www.eurekalert.org/pub_releases/2017-05/osuw-ril051717.php

11-02-2018

In un precedente articolo abbiamo visto alcuni degli additivi alimentari più adoperati nei prodotti alimentari e più pericolosi per la nostra salute. Ho anche parlato dei rischi legati al consumo di aspartame, il dolcificante ed esaltatore di sapidità artificiale, capace di creare “danni silenziosi” nel nostro organismo. Oggi vedremo invece alcuni dei rischi collegati a una sostanza aromatizzante, naturalmente presente nella buccia degli agrumi, ma potenzialmente pericolosa: l’aldeide perillica.
Come accennato, l’aldeide perillica è presente naturalmente nella buccia degli agrumi. È prodotta in quantità limitate e aggiunta ad alcuni prodotti alimentari da forno, dolci, prodotti a base di carne e bevande alcoliche e non alcoliche, per ottenere un odore pungente e agrumato e un sapore legnoso, speziato, di agrumi. Come si legge sul sito dell’EFSA, nell’ambito del sistema dell’Unione europea per la valutazione degli aromatizzanti, l’aldeide perillica è un indicatore usato per valutare anche altre nove sostanze chimiche strutturalmente affini, note collettivamente come “aldeidi alicicliche”. Secondo gli ultimi pareri espressi dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare, esiste un potenziale problema di sicurezza anche per queste sostanze, salvo prova contraria. A seguito di una richiesta della Commissione europea, il gruppo di esperti scientifici dell’EFSA sui prodotti alimentari ha condotto una serie di studi per valutare le implicazioni per la salute umana dell’uso di sostanze aromatizzanti chimicamente definite e utilizzate nella preparazione di alimenti.
Il gruppo di aromatizzanti valutati riguarda la sostanza aromatizzante p-menta-1,8-diene-7-al (nota anche come “aldeide perillica” o “perillaldeide”). Da questo nuovo studio condotto su base animale, l’aldeide perillica si sarebbe dimostrata genotossica e capace di creare danni al DNA del fegato. Nel 2002, era già stata effettuata una prima valutazione, secondo la quale l’aldeide perillica non poneva problemi di sicurezza. Nel 2008, la Commissione europea aveva chiesto all’EFSA di effettuare ancora una nuova valutazione e nel 2012 l’industria degli aromatizzanti aveva presentato i primi dati. Nel 2013 gli esperti dell’EFSA hanno concluso che la sostanza era potenzialmente genotossica e hanno richiesto un ulteriore studio per determinarne i potenziali effetti sul fegato e sullo stomaco. Il nuovo studio, presentato nel 2014, è stato valutato dagli esperti dell’EFSA, che sono giunti alla conclusione che l’aldeide perillica potrebbe causare danni al DNA nel fegato. Come riporta Il Fatto Alimentare, l’associazione europea degli aromatizzanti (European Flavour Association - EFFA) avrebbe già chiesto ai propri associati di eliminare l’aldeide perillica dalle proprie formule e di cercare dei sostituti di questa sostanza.

 

http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.2903/j.efsa.2015.4173/abstract

http://www.ilfattoalimentare.it/aldeide-perillica-aroma-dna-efsa.html

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