Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

10-02-2019

Ormai è chiaro e assodato: la salute dell’intestino è una delle chiavi del nostro benessere a 360°. Sempre più ricerche mettono in luce come questo organo sia importante, non solo per la salute del tratto gastro-intestinale, ma anche per organi e tessuti molto lontani da lui. Non sono esclusi neppure cervello e sistema nervoso. Secondo una nuova ricerca, condotta in Belgio e pubblicata su Nature Microbiology, la carenza di specifici batteri intestinali sarebbe da collegare alla comparsa di depressione. Per arrivare a questo risultato, il team di ricerca, guidato da Jeroen Raes del VIB-KU di Lovanio, ha messo a confronto la salute di due campioni indipendenti di persone: il primo composto da 1.054 individui che facevano parte dello studio Flemish Gut Flora Project e il secondo composto da 1.062 individui, parte del Dutch LifeLinesDEEP. In entrambi i gruppi, vi erano persone sane e persone affette da depressione.
Studiando il genoma del microbiota intestinale di tutti i partecipanti, sono state notate differenze importanti nella composizione della flora batterica di chi soffriva di depressione rispetto ai soggetti sani. Si è scoperto che sarebbero in particolare due tipi di batteri, il Coprococcus e il Dialister, ad essere in minor numero nell’intestino delle persone depresse. La ricerca ha poi notato come l’attività di alcuni batteri intestinali sia importante per la salute mentale in quanto aiuta nella produzione di dopamina, neurotrasmettitore che ci dona sensazioni di benessere e gratificazione. Averne un maggior numero nel proprio intestino è dunque un vantaggio per cervello e sistema nervoso e abbasserebbe il rischio depressione. Gli stessi ricercatori sono ora pronti a fare un passo successivo. In primavera partirà un nuovo studio utile a capire meglio il ruolo dei batteri intestinali e il loro coinvolgimento nella comparsa di depressione.

 

https://www.nature.com/articles/s41564-018-0337-x

Venerdì, 08 Febbraio 2019 09:20

LA NIACINA ABBASSA IL COLESTEROLO NEL SANGUE.

09-02-2019

Se è vero che i medici sono ancora indecisi circa il ruolo esatto del colesterolo in rapporto agli attacchi di cuore, sono comunque in maggioranza convinti che un eccesso di colesterolo nella circolazione sanguigna sia dannoso alla salute. Sono inoltre concordi sul fatto che un’alimentazione attentamente controllata è il modo migliore per regolare il livello di colesterolo. Mangiare come si deve e fare un ragionevole esercizio fisico è molto meglio di qualunque nuovo farmaco o dieta d’urto che si sia inventato finora per tenere il colesterolo sotto controllo. In molti pazienti con alti tassi di colesterolo si è riusciti a riportare i valori nella norma semplicemente arricchendo una dieta normale con varie sostanze nutritive. Se l’alimentazione quotidiana viene impostata in modo da prevedere normalmente un apporto adeguato di tali sostanze, è molto minore il rischio di un accumulo di colesterolo nel sangue: gli elementi nutritivi aiutano l’organismo a funzionare come si deve e un organismo che funziona bene è in grado di fare buon uso del colesterolo di cui ha bisogno e di eliminare naturalmente quello in eccesso. Quando però il livello del colesterolo nel sangue sfugge al controllo, le ricerche hanno dimostrato che si può riportarlo a valori normali usando megadosi di niacina, o acido nicotinico. Un articolo comparso su Scope Weekly riferiva il lavoro condotto alla Mayo Clinic su un gruppo di pazienti, ottenendo in 9 casi risultati favorevoli mediante la somministrazione quotidiana di forti dosi di niacina per un periodo di 12 settimane. Ma anche nell’arco più limitato di sole quattro settimane si avevano effetti incoraggianti: con una dose giornaliera di 3 g di niacina, il tasso di colesterolo nel sangue si era abbassato in tra casi su cinque (per quei pazienti che non avevano risposto a questo dosaggio, lo si era riportato in seguito a 4-6 g al giorno).
Ma è stata una ricerca condotta per un periodo di due anni da un’èquipe canadese, pubblicata sul Canadian Medical Association Journal, a stabilire una volta per tutte il rapporto fra niacina e colesterolemia, rapporto ulteriormente corroborato da un articolo dell’anno successivo, pubblicato sulla stessa rivista. Sul British Medical Journal, Rudolf Altschul e Abram Hoffer scrivevano: “sembra saldamente accertato che l’acido nicotinico, in dosi relativamente forti, abbassi il livello del colesterolo nel siero, in soggetti umani sia sani che malati”. In uno studio portato avanti per 11 anni presso il Dartmouth-Hitchcock Medical Center di Hanover (New Hampshire), sono documentati i risultati ottenuti su 160 pazienti trattati con acido nicotinico per colesterolemia. La terapia cominciava con un dosaggio di 100 mg dopo ogni pasto, portato gradualmente, nell’arco di 11 giorni, fino a 1 grammo dopo ogni pasto, cioè 3 grammi al giorno. Secondo un rapporto pubblicato su Modern Medicine, “la diminuzione media del colesterolo nel plasma era del 26% nei pazienti trattati per almeno un anno e questa risposta iniziale si manteneva per tutto il tempo in cui è proseguita la somministrazione del farmaco”. Quando si somministrano megadosi per ridurre il livello di colesterolo nel sangue (di solito 3 g al giorno), secondo i ricercatori la niacina non funziona più come una vitamina, ma come un vero e proprio farmaco: a queste dosi, quindi, deve essere presa sotto stretto controllo medico. Si sono osservate reazioni, lievi ma ben precise, in alcuni pazienti sottoposti a dosi massicce di niacina. In generale, sono frequenti i rossori e i fenomeni vasodilatatori, mentre in qualche caso si hanno risentimenti gastrointestinali e pruriti. Tuttavia, secondo i ricercatori del Dartmouth-Hitchcock Medical Center, “nei 106 pazienti che abbiamo seguito sotto trattamento per oltre un anno, non si sono verificati effetti collaterali irreversibili”.

Venerdì, 08 Febbraio 2019 09:16

OKG AIUTA LA CRESCITA E IL RECUPERO MUSCOLARE.

03-01-2017

L’alfa-chetoglutarato di ornitina, è un sale formato da due molecole di ornitina libera e una molecola di alfa- chetoglutarato. Una recente ricerca ha evidenziato che la combinazione di ornitina e di alfa-chetoglutarato è in grado di modificare il metabolismo aminoacidico. Le azioni dell’OKG (ornitina alfa-chetoglutarato) sono da attribuirsi ai metaboliti che lo compongono: L-arginina, L-glutammina, L-prolina e poliammine. Il metabolismo della L-glutammina e della L-arginina viene compromesso in seguito a traumi e ciò è collegato alle disfunzioni del sistema immunitario. L’ornitina alfa-chetoglutarato, oltre a modificare il metabolismo degli aminoacidi, aumenta i livelli di insulina nel sangue. L’OKG aumenta la sintesi della glutammina con conseguente incremento della soglia della fatica, essendo la glutammina un aminoacido glucogenetico. Una recente ricerca ha mostrato infatti che nella fase immediatamente seguente a un’operazione chirurgica, integrando l’alimentazione parenterale con OKG, si osservava la diminuzione di glutammina libera nei muscoli, cosa che non avveniva con la sola integrazione di aminoacidi ramificati. L’organismo è in grado di sintetizzare glutammina sia partendo dall’ornitina che dall’alfa-chetoglutarato. Numerosi studi dimostrano che la somministrazione orale di OKG favorisce l’incremento di glutammina nel muscolo, riducendone il catabolismo.

IMMUNOMODULANTE

L’azione dell’OKG è strettamente correlata a quella dei metaboliti della L-ornitina e dell’alfa-chetoglutarato che sono: L-arginina, L-glutamina, L-prolina e poliammine. Le alterazioni del metabolismo della L-arginina e della L-glutammina sono associate ad alcune disfunzioni del sistema immunitario. Ad esempio, in caso di gravi ustioni, la L-glutammina intramuscolare diminuisce drasticamente, poiché il fabbisogno di questo aminoacido aumenta, in particolare per soddisfare le richieste delle cellule immunitarie e intestinali. Anche la L-arginina è fondamentale per le cellule del sistema immunitario, il cui ruolo principale sembra essere mediato dal suo metabolita, l’ossido nitrico. E’ stato osservato che in caso di traumi e ustioni il metabolismo di questi due aminoacidi viene alterato, in particolare a livello muscolare, immunitario e intestinale. Inoltre l’OKG, grazie alla capacità di incrementare la sintesi di L-glutammina e L-arginina, può avere effetti benefici in caso di cicatrizzazione lenta (recupero da interventi chirurgici) e nella malnutrizione cronica.

ATTIVITA’ ANTICATABOLICA/ANABOLICA

L’OKG mostra un effetto anticatabolico/anabolico e provoca un aumento della sintesi proteica. A seconda dello stato del metabolismo, il trattamento con OKG fa diminuire il catabolismo delle proteine nei muscoli e/o ne aumenta la sintesi. Quando i muscoli sono sottoposti a uno stress intenso e prolungato, l’organismo secerne l’ormone cortisolo, il quale esercita sui muscoli una potente azione catabolica, distruggendo una parte considerevole di muscoli. In questo modo viene impedita la possibilità di ottenere buoni risultati e può provocare la sindrome da sovrallenamento, poiché viene favorito uno stato catabolico piuttosto che anabolico. L’OKG agisce positivamente sul cortisolo e pertanto ha una buona attività anticatabolica. Diminuire il catabolismo può essere un altro modo per favorire l’anabolismo. Allenamenti intensi e ripetuti provocano un notevole incremento della massa muscolare, ma sono anche responsabili dell’aumento del tasso di ammoniaca. Muscoli, fegato e cervello sono molto sensibili all’intossicazione da ammoniaca, condizione che può provocare dolori muscolari e compromettere le prestazioni atletiche. L’OKG favorisce il recupero muscolare e l’assorbimento dell’ammoniaca, partecipando ai processi di smaltimento dell’acido lattico e degli acidi grassi, agendo indirettamente sul ciclo di Krebs. L’OKG risulta indispensabile per convertire l’ammoniaca in sostanze meno tossiche quali urea e acido urico. L’OKG, grazie alla sua attività regolatrice sul metabolismo degli aminoacidi è in grado di:

• favorire il recupero muscolare;
• detossicare l’organismo dall’ammoniaca;
• promuovere la liberazione di insulina e dell’ormone della crescita (GH) che svolgono attività anticatabolica/anabolica;
• incrementare la sintesi di glucagone, ormone che ostacola gli accumuli di lipidi e gli stati ipoglicemici.

BAMBINI E ANZIANI

L'OKG è stato utilizzato per favorisce la crescita dei bambini di taglia anormalmente debole. La sua assunzione ha permesso anche di rallentare la perdita di massa muscolare nei pazienti ospedalizzati e di accelerare la cicatrizzazione dei grandi ustionati.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2407764

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/1969067

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/3118827

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/8074074/

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/9482764/

08-02-2019

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Science (PNAS) , ha rilevato che l’ibuprofene, il noto analgesico e antinfiammatorio non-steroideo venduto senza prescrizione medica, può avere un impatto negativo sulla fertilità maschile. I ricercatori hanno scoperto che il farmaco, comunemente assunto dagli atleti, quando testato su un piccolo campione di giovani, ha sviluppato una condizione ormonale associata alla mezza età e una ridotta fertilità. Le informazioni sono state rese note dalla CNN. Secondo Bernard Jégou, co-autore dello studio e direttore dell’Istituto per la ricerca sulla salute ambientale e occupazionale in Francia, la ricerca in questione è la continuazione di uno studio precedente iniziato con le donne in gravidanza. Questo ha collegato il farmaco allo sviluppo del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) nei bambini.
Jégou e il suo team di ricercatori francesi e danesi hanno studiato gli effetti dell’aspirina, del paracetamolo (acetaminofene) e dell’ibuprofene sulla salute delle donne incinte. I primi esperimenti, pubblicati in diversi articoli, mostravano che quando venivano assunti con moderazione durante la gravidanza, tutti e tre avevano colpito i testicoli e gli ormoni dei bambini e pertanto erano caratterizzati come ”antiandrogeni“. Considerando quello che i farmaci erano in grado di fare con i bambini, gli scienziati si chiedevano quali fossero i potenziali effetti sugli uomini adulti. Pertanto, hanno concentrato la loro ricerca sull’ibuprofene, che ha presentato risultati più rilevanti.
Per lo studio pubblicato su PNAS, il team ha reclutato 31 volontari maschi tra i 18 ei 35 anni. Di questi, 14 hanno ricevuto una dose giornaliera di ibuprofene, 600 milligrammi due volte al giorno. Gli altri 17 volontari hanno ricevuto un placebo. Entro 14 giorni dopo l’inizio dell’esperimento, gli uomini che hanno preso l’ibuprofene hanno visto il loro ormone luteinizzante - il quale viene secreto dalla ghiandola pituitaria e stimola i testicoli a produrre testosterone - modificato dal livello di ibuprofene in circolo nel sangue. Allo stesso tempo, il rapporto tra il testosterone e gli ormoni luteinizzanti diminuiva, segnalando chiaramente una disfunzione dei testicoli. Il risultato di questo squilibrio ormonale è stato compensato dall’ipogonadismo, una condizione associata a ridotta fertilità, depressione, aumento del rischio di problemi cardiovascolari e ictus. 
Secondo Jégou, almeno per il piccolo campione di partecipanti allo studio che hanno usato l’ibuprofene per un breve periodo, gli effetti sono reversibili. Tuttavia, gli scienziati non sanno se gli effetti dell’uso a lungo termine sono reversibili. Sebbene lo studio fosse piccolo, è importante perché parla di un farmaco che viene utilizzato in tutto il mondo. Pertanto, Jégou concorda sul fatto che sono ancora necessari ulteriori studi per rispondere a domande importanti.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29311296

https://edition.cnn.com/2018/01/08/health/ibuprofen-male-fertility-study/index.html

https://www.pnas.org/content/115/4/E715

08-02-2019

Acne, un problema antiestetico e fastidioso che in alcuni casi si consiglia di trattare con l’uso di creme a base di eritromicina (antiobiotico). Un recente studio ha però scoperto come una combinazione tutta naturale sia addirittura più efficace dei rimedi tradizionali. Gli antibiotici che sopprimono il Propionibacterium acnes, batterio Gram-positivo collegato ad alcune patologie a carico della cute (come appunto l'acne), sono il trattamento standard per questa problematica ma stanno diventando sempre meno efficaci, a causa della comparsa di ceppi resistenti. Ecco allora che possono venire in aiuto alcune piante dall’azione antimicrobica da utilizzare in alternativa alle creme antibiotiche.
Uno studio di Skin lab, Dipartimento di Scienze Biomediche dell'Università di Sassari, ha voluto verificare l'efficacia anti-acne di una nuova crema a base di tre estratti naturali, nello specifico di propoli, tea tree oil e aloe vera, confrontandola con la crema di eritromicina e con un placebo. A questo scopo sono stati selezionati 60 pazienti con acne vulgaris, da lieve a moderata, divisi casualmente in tre gruppi: il primo trattato con crema contenente propoli al 20%, tea tree oil al 3% e aloe vera al 10% (PTAC), il secondo con crema al 3% di eritromicina (ERC) e il terzo con un placebo. Le risposte al trattamento sono state valutate a 15 e 30 giorni, contando le lesioni dell'acne attraverso misurazioni non invasive e macrofotografia. Si è visto così che il primo e secondo gruppo avevano avuto risultati diversi dal placebo mostrando una buona riduzione delle lesioni. La vera sorpresa è stata però che la formulazione di PTAC era risultata migliore dell'ERC nel ridurre cicatrici da eritema, indice di gravità dell'acne e conta totale delle lesioni.

 

https://www.dovepress.com/treatment-of-acne-with-a-combination-of-propolis-tea-tree-oil-and-aloe-peer-reviewed-article-CPAA

Mercoledì, 06 Febbraio 2019 14:33

VITAMINA A PER UNA VISTA NORMALE.

15-09-2016

La vitamina A è essenziale per una vista sana e normale. Circa l’uno per cento del nostro rifornimento giornaliero di vitamina A viene utilizzato dalla retina, l’organo che riceve e trasmette le immagini formate dal cristallino. Le persone carenti di questa vitamina soffrono spesso di cecità notturna, ovvero incapacità dell’occhio di adattarsi all’oscurità. Secondo il dottor John Dowling, professore di biologia della Harvard University, la cecità notturna – o insensibilità dell’occhio alla luce crepuscolare – è una delle malattie più anticamente conosciute dell’uomo, ed anche la sua cura risale a tempi remoti. Certi papiri medici dell’antico Egitto prescrivevano il fegato crudo come cura specifica per recuperare la visione notturna. Tuttavia, secondo il dottor Dowling, solo nel ventesimo secolo la vitamina A venne ufficialmente riconosciuta come il fattore chiave per una migliore visione crepuscolare. La causa fisiologica della cecità notturna risiede nel pigmento della retina. La retina è composta da due tipi di cellule: i coni, sensibili alla luce e ai colori, e i bastoncelli sensibili alla luce debole e al bianco e nero. I coni sono utilizzati soprattutto di giorno, mentre i bastoncelli ci permettono la visione notturna. I bastoncelli contengono la rodopsina , composta di opsina (una molecola proteica) e retinene (una forma di vitamina A). Quando la luce raggiunge la retina, scompone la rodopsina in queste due componenti. Questa reazione chimica invia degli impulsi nervosi al cervello attraverso il nervo ottico. Gli impulsi nervosi formano l’immagine di qualunque cosa si guardi. Il grado di scomposizione della rodopsina è in funzione della quantità di luce che penetra l’occhio. Una luce di forte intensità accelera la scomposizione della rodopsina, causando la sensazione di luminosità intensa. Per far sì che la visione sia costante, la rodopsina si ricompone dal retinene e dall’opsina, tanto rapidamente quanto si è scomposta. Questo ciclo di degenerazione e rigenerazione continua per tutta la vita. Tuttavia, in questo processo un pò di retinene viene distrutto, e se le riserve di vitamina A non sono costantemente ripristinate, l’occhio perde la sua capacità di buon adattamento all’oscurità. “La rodopsina deve essere immediatamente rigenerata dalla vitamina A perché la visione possa continuare senza indebolirsi. Ma in caso di carenza vitaminica, la rigenerazione è lenta e i bastoncelli divengono meno sensibili alla luce, con il risultato di una debole capacità visiva nella scarsa luce, ovvero cecità notturna”, secondo quanto afferma Glenn Kittler in un articolo sul Richmond Times Dispatch. Il dottor George Wald, dell’Università di Harvard, ha dimostrato inoltre che la scarsità di vitamina A inibisce anche la sensibilità delle cellule necessarie alla visione di normali condizioni di luce, perché la vitamina A è importante anche per i pigmenti visivi dei coni. L’osservazione di soggetti nutriti con diete carenti di vitamina A ha dimostrato che ad alcune persone occorre un periodo di tempo più lungo per accusare una cecità notturna. La ragione di ciò, secondo ricercatori inglesi, sta nel fatto che gli esseri umani differiscono riguardo al quantitativo di vitamina A che sono in grado di immagazzinare nel fegato. Di conseguenza, se un individuo inizia una dieta povera di vitamina A, ma ne possiede ampie riserve, può anche non notare alcun cambiamento nella sua visione notturna per settimane o addirittura per mesi. Un altro individuo posto alla medesima dieta, ma senza riserve di vitamina A, può presentare sintomi di cecità notturna nel giro di pochi giorni. Altrettanto importante è il fatto che i soggetti sofferenti di cecità notturna si dividono in due categorie: quelli che recuperano prontamente la loro capacità visiva normale, una volta reintegrata la vitamina A nella dieta, e quelli che si ristabiliscono più lentamente (talvolta in un periodo di qualche mese).
Nei suo esperimenti sulla cecità notturna dei ratti, che possiedono un grande numero di cellule responsabili della visione crepuscolare, il dottor Dowling annotò il depauperamento delle loro riserve di vitamina A. Come egli supponeva, quando gli animali non ricavavano dal cibo un sufficiente quantitativo di vitamina A, attingevano alle riserve del fegato. Nei giovani ratti le riserve duravano dalle tre alle quattro settimane. Durante questo periodo, il tasso di vitamina A nel sangue e la rodopsina degli occhi rimanevano normali. Quando tutta la vitamina A del fegato era esaurita, il suo livello nel sangue scendeva rapidamente e a ciò faceva seguito la diminuzione del quantitativo di vitamina A negli occhi. Due o tre settimane più tardi, anche l’opsina cominciava a diminuire. Il dottor Dowling e i suoi colleghi poterono osservare l’effetto reale della carenza di vitamina A sulla visione degli animali, misurando la sensibilità degli occhi dei ratti con la quantità di luce necessaria per ottenere una reazione. Durante le primissime settimane dell’esperimento, gli occhi dei topi reagivano normalmente. Ma a partire dalla quinta settimana fu necessaria sempre più luce per avere una sia pur minima reazione. Tuttavia, malgrado le difficoltà di visione, gli occhi dei ratti non riportarono lesioni permanenti. Forti dosi di vitamina A, somministrata per pochi giorni, restituirono alla retina dei ratti le sue capacità normali. A questo punto dell’esperimento, il dottor Dowling si trovò di fronte a un problema: i ratti non vivevano abbastanza da permettergli di scoprire cosa accadeva ai loro occhi. La vitamina A è essenziale per mantenere in buona salute i tessuti dell’organismo. Dopo otto o nove settimane di dieta carente di vitamina A, i ratti perdevano peso, avevano disturbi respiratori e contraevano facilmente delle infezioni. Un ratto privato di vitamina A per 10 o 12 settimane, generalmente muore. Per risolvere questo problema, il dottor Dowling somministrò ai topi acido di vitamina A, che a quanto pare non è convertito in vitamina A nei tessuti organici dei topi. L’acido di vitamina A manteneva sani i ratti, lasciando immutato allo stesso tempo il loro stato di carenza di questa vitamina. I ricercatori erano in grado di tenere in vita gli animali e contemporaneamente osservare il declino della vista per la carenza di vitamina A. Con questa nuova dieta, la cecità notturna dei ratti diventò grave. Le cellule visive della retina cominciarono a degenerare e al decimo mese dell’esperimento erano completamente distrutte. Gli animali erano totalmente ciechi, incapaci di reagire alla luce di qualsiasi intensità. Anche con forti dosi di vitamina A non fu più possibile restituire la vista ai ratti. Quando guidate l’auto di notte, la luce dei fari dei veicoli che incrociate diretta sui vostri occhi, scompone rapidamente la rodopsina. Secondo alcune ricerche, un guidatore medio alla velocità di 90 km/h, viaggia per oltre una trentina di metri nella più totale cecità, dopo aver incrociato altre automobili con i fari accesi. Per la persona con basse riserve di vitamina A, la distanza percorsa alla cieca è due o tre volte maggiore. Poiché la visione notturna dipende esclusivamente dai meccanismi relativi alla vitamina A, anche una leggera carenza la può menomare. Se siete eccessivamente sensibili alla luce dei fari d’auto e vi occorre un certo tempo per recuperare la visione normale dopo aver incrociato dei veicoli di notte, e faticate a distinguere gli oggetti dal loro sfondo, allora avete bisogno di vitamina A. Una carenza più grave di questa vitamina può generare altri problemi, come occhi stanchi e doloranti dopo la lettura o un lavoro di precisione. Una carenza acuta causa irritazione e bruciore agli occhi, palpebre infiammate, mal di testa e dolori ai bulbi oculari. La nostra necessità di vitamina A dipende in parte dal nostro tipo di lavoro o da altre attività. Per esempio, gli impiegati di un ufficio che leggono sotto una luce intensa, hanno maggior bisogno di vitamina A di quelli che lavorano in ambienti di luminosità moderata. D’altra parte, minatori o fotografi, che lavorano nella semioscurità, dove si richiede una buona visione notturna, dovrebbero aumentare anch’essi le loro dosi di vitamina A nella dieta. E chi progetta una vacanza sulla spiaggia o sulla neve, si ricordi di portare con sé della vitamina A. La luce riflessa dalla sabbia o dalla neve può danneggiare la visione notturna.

12-01-2017

La zeolite è un minerale di origine vulcanica che, grazie alla sua struttura microporosa, può essere utile al nostro organismo per disintossicarsi dalle sostanze dannose che circolano al suo interno, dovute al metabolismo delle cellule o a fattori esterni come alimentazione e respirazione. La zeolite, infatti, soprannominata “lo spazzino dell’organismo” possiede la grande capacità di assorbire tossine, metalli pesanti, pesticidi e micotossine. Una volta entrata nel nostro organismo e arrivata nel tratto gastro-intestinale non solo non è tossica ma non viene neppure assorbita, svolge infatti il suo lavoro all’interno dell’intestino, grazie ad un reazione chimica. La zeolite possiede una struttura cristallina a carica negativa e quindi assorbe i cationi, ovvero le sostanze che hanno carica positiva, tra queste appunto metalli pesanti, nitrosamine e ammonio. Ottime potenzialità ha poi la zeolite nel preservare l’organismo dai danni dei radicali liberi grazie alle sue doti antiossidanti ed inoltre, grazie alla riduzione di ioni ammonio all’interno del corpo, assumere zeolite favorisce la concentrazione, diminuisce il senso di stanchezza, aumenta la resistenza fisica e riduce l’acido lattico. Ecco perché spesso la assumono gli sportivi. Oltre all’uso interno della zeolite, questo minerale è ottimo anche per applicazioni topiche in caso di acne, pruriti, dermatiti, psoriasi e altre problematiche della pelle. In questo caso bisogna prendere una puntina di polvere e tamponarla sulle zone interessate con un batuffolo imbevuto d’acqua, massaggiando delicatamente.

COME UTILIZZARLA

Per quanto riguarda la zeolite in polvere, come prevenzione si può prendere la punta di 1 cucchiaino 2 volte al giorno prima dei pasti, mentre se si vuole fare una disintossicazione dai metalli pesanti la posologia consigliata è di 1 cucchiaino (5 grammi) mezz’ora prima di ogni pasto principale. Se si assume in capsule, solitamente la dose consigliata è di 3 al giorno. L’unica accortezza da avere quando si assume zeolite è quella di bere molta acqua, dato infatti il potere assorbente di questo minerale la possibile controindicazione è quella di iniziare ad avere problemi di stitichezza.

06-02-2019

Sembra confermato il luogo comune che vuole le donne più forti nel sopportare il dolore e anche più propense a lasciarlo andare dalla memoria, ovvero a ricordarlo meno una volta superato. Una nuova ricerca dice proprio questo: le donne sono meno soggette allo stress dovuto alla sofferenza. Di solito ci si riferisce al momento del parto per capire che genere di dolore fisico sia in grado di sopportare una donna e sempre relativamente a quel momento si dice che la donna dimentica facilmente (tanto da voler avere un altro bambino). Forse non è proprio sempre così, ma sembra effettivamente confermata la speciale capacità della donna di fronteggiare al meglio il dolore e di non tenersi aggrappata ad esso una volta superato. Di contro il luogo comune sugli uomini, li vede particolarmente sofferenti anche con una leggera alterazione a 37°.
Ora uno studio canadese della McGill University e dell'Università di Toronto, pubblicato sulla rivista Current Biology, riapre la questione confermando quello che si pensa. La ricerca ha voluto valutare la diversa percezione del dolore che hanno gli uomini rispetto alle donne nel momento in cui vivono e poi ricordano un'esperienza (ovviamente spiacevole) del passato. Sono stati fatti diversi esperimenti in merito, tra cui quello che prevedeva di entrare in una stanza dove si sperimentava del dolore di basso livello (ad esempio un pò di calore su un avambraccio). Le persone dovevano valutarne l’intensità da 1 a 100. Successivamente si sperimentava del dolore maggiore. Si è notato così come gli uomini siano più propensi a ricordare i dolori trascorsi, stressandosi maggiormente nel momento in cui sono di ritorno nel luogo in cui avevano provato le sensazioni spiacevoli. Nel caso dell’esperimento citato, inoltre, riportavano una soglia del dolore più bassa, ovvero avevano indicato sulla scala un’intensità di dolore più forte rispetto a quella avvertita dalle donne. La capacità delle donne di sopportare al meglio il dolore, a detta dei ricercatori, potrebbe aprire la strada a nuove ricerche volte a trovare trattamenti utili contro le forme di dolore cronico.

 

https://www.mcgill.ca/newsroom/channels/news/men-and-women-remember-pain-differently-293050

https://www.cell.com/current-biology/fulltext/S0960-9822(18)31496-9?_returnURL=https%3A%2F%2Flinkinghub.elsevier.com%2Fretrieve%2Fpii%2FS0960982218314969%3Fshowall%3Dtrue

Martedì, 05 Febbraio 2019 13:33

PERCHE’ I MEDICI SBAGLIANO SUL COLESTEROLO?

06-02-2019

Il colesterolo è una sostanza cerosa che si trova in quasi tutte le cellule del corpo umano ed è essenziale per una buona salute. Svolge un ruolo nella produzione di ormoni, nella digestione, nella produzione di vitamina D dopo l’esposizione al sole e aiuta a proteggere le membrane cellulari. I fattori di rischio più rilevanti per le malattie cardiovascolari sono l’insulino-resistenza, il diabete di tipo 2 e l’infiammazione cronica associata a queste condizioni. Esistono anche altri fattori in gioco, come il modo in cui si mangia e fattori legati allo stress, sia fisico che psicologico. Il danno degli strati interni delle arterie precede le malattie cardiache e questo danno può essere indotto da una serie di fattori, tra cui fumo, ipertensione, glicemia elevata e infiammazione. Una volta che l’arteria è danneggiata, la placca ricca di colesterolo inizia ad accumularsi come meccanismo protettivo. I problemi sorgono quando il tasso di danno e la conseguente formazione di coaguli di sangue fuoriescono o superano la capacità del corpo di riparare.
Alcuni studi dimostrano che i legami tra stress e aumento dei livelli di insulina e fattori di coagulazione del sangue sono matematici e citano dati che mostrano che i tassi di mortalità da malattie cardiovascolari sono eventi stressanti paralleli che colpiscono persino un’intera nazione. Ad esempio, nel 1989 in Lituania, il tasso di malattie cardiache salì alle stelle, anno in cui l’Unione Sovietica collassò. Questo modello può essere visto anche in altri paesi europei. Nel frattempo, l’ipotesi causale dell’LDL (colesterolo cattivo) è stata smentita da una serie di studi. Uno studio del British Medical Journal ha esaminato i livelli di LDL nelle persone di età superiore a 60 anni, trovando che quelli con i livelli più alti di LDL avevano in realtà la mortalità complessiva più bassa, inclusa la mortalità da CVD. Per una buona salute CV, è bene mantenere un equilibrio tra un sangue che coagula troppo e un sangue che non si coagula quando ce n’è bisogno. Esistono oltre 30 fattori capaci di alterare questo equilibrio, e ce ne sono molti altri. In questo elenco abbiamo:

• Uso di certi farmaci, incluso steroidi orali, omeprazolo, avastin e talidomide.

• Malattie come la malattia di Cushing, la malattia di Kawasaki, l’artrite reumatoide, il lupus eritematoso sistemico, la malattia renale cronica e l’insufficienza renale acuta, l’anemia falciforme, la malaria e il diabete di tipo 2, nonché le infezioni batteriche e virali.

• Stress fisico e mentale acuto e stress mentale cronico.

• Esposizione di metalli pesanti, inclusi piombo e mercurio.

• Alcune carenze nutrizionali, comprese le carenze di vitamine B e C.

Successivamente ci sono fattori che promuovono la formazione di coaguli di sangue e/o ne inibiscono la dissoluzione, tutti fattori che aumentano anche il rischio di CVD. Ancora una volta, ci sono molti fattori che possono farlo, inclusi ma non limitati a:

• Livelli elevati di lipoproteina (a), zucchero nel sangue, lipoproteina a densità molto bassa (VLDL) e fibrinogeno.

• Disidratazione.

• Ormoni dello stress come il cortisolo.

• Antinfiammatori non steroidei.

• Stress mentale e/o fisico acuto.

Infine, ci sono fattori che danneggiano il sistema di riparazione del corpo, cioè la formazione di un nuovo strato endoteliale sopra il coagulo di sangue e la rimozione dei detriti dal coagulo di sangue, e anch’essi aumentano il rischio di CVD. I fattori che impediscono la formazione di nuove cellule endoteliali includono ma non sono limitati a:

• Alcuni farmaci come avastin, talidomide, omeprazolo e qualsiasi farmaco che abbassa la sintesi di ossido nitrico (al contrario, tutto ciò che aumenta l’ossido nitrico nel nostro corpo ridurrà il rischio di malattie cardiache).

• Vecchiaia.

• Malattia renale cronica.

• Diabete di tipo 2.

• Inattività (mancanza di esercizio fisico).

I fattori che compromettono la clearance dei detriti all’interno della parete arteriosa includono:

• Uso di steroidi orali, farmaci immunosoppressori, alcuni farmaci antinfiammatori e molti farmaci antitumorali.

• Età.

• Stress psicologico negativo cronico.

RUOLO DELL’INFIAMMAZIONE NELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI

Mentre l’infiammazione cronica è riconosciuta come un fattore che contribuisce alle malattie cardiovascolari, non tutte le infiammazioni sono negative. Infatti, l’uso di farmaci antinfiammatori (che possono compromettere l’infiammazione acuta utile) è stato collegato ad un aumento del rischio di malattie cardiovascolari, il che suggerisce che non è mai intelligente interferire con la risposta di guarigione alle lesioni arteriose. Il vero motivo per cui l’infiammazione cronica viene vista come una possibile causa di CVD è dovuta al fatto che i marker infiammatori possono essere aumentati nella CVD. Ciò dimostra invece che nelle persone con CVD si verificano molti danni con maggiore riparazione in corso, quindi i valori infiammatori sono sollevati in quanto essa è l’unico modo che conosce l’organismo per guarire. Tuttavia, la medicina ufficiale ha deciso di considerare tutto ciò in modo opposto. Vedendo molta infiammazione hanno decretato che l’infiammazione sia la causa della CVD – piuttosto che il contrario. Come abbiamo visto prima, le possibili concause sono numerose. L’ipotesi del colesterolo LDL non ha senso, è sbagliata e non si adatta con altri fattori noti per causare CVD. La teoria trombogenica, d’altra parte, si adatta a quasi tutto ciò che è noto sulla CVD. Afferma che ci sono tre processi interconnessi che aumentano il rischio di CVD:

• Aumento del tasso di danni allo strato endoteliale dei vasi.

• Formazione di un coagulo di sangue più grande o più difficile da rimuovere in quel punto.

• Riparazione alterata/rimozione del coagulo di sangue residuo.

Qualsiasi fattore che provoca una di queste tre cose può aumentare il rischio di CVD e quindi ciò significa che, nella maggior parte dei casi, la CVD non ha una singola causa specifica. Dovrebbe, invece, essere vista come un processo in cui il danno supera la riparazione, causando lo sviluppo di placche e la crescita, con un coagulo di sangue finale, fatale, che causa l’evento terminale.

MAGGIOR EVIDENZA CHE IL COLESTEROLO NON E’ IL NEMICO

Il Minnesota Coronary Experiment è stato uno studio condotto tra il 1968 e il 1973 che ha esaminato la relazione tra dieta e salute cardiaca. I ricercatori hanno utilizzato uno studio randomizzato in doppio cieco per valutare l’effetto dell’olio vegetale (ad alto contenuto di acido linoleico omega-6) rispetto ai grassi saturi, nella malattia coronarica e morte. I risultati sono stati lasciati inediti fino al 2016, quando sono apparsi nel BMJ. Un’analisi dei dati raccolti ha rivelato che abbassare i livelli di colesterolo attraverso l’intervento dietetico non riduce il rischio di morte per malattia coronarica. Secondo i ricercatori le prove disponibili da studi randomizzati controllati, mostrano che la sostituzione del grasso saturo nella dieta con acido linoleico abbassa efficacemente il colesterolo nel siero, ma non supporta l’ipotesi che questo si traduca in un minor rischio di morte per malattia coronarica o per tutte le cause. I risultati del Minnesota Coronary Experiment aggiungono alla crescente evidenza che la pubblicazione incompleta ha contribuito a sovrastimare i benefici della sostituzione del grasso saturo con oli vegetali ricchi di acido linoleico. I ricercatori hanno scoperto che per ogni calo di 30 punti nel colesterolo totale, c’era un aumento del 22% nel rischio di morte per malattia cardiaca. All’autopsia, il gruppo che mangiava olio vegetale e il gruppo che mangiava grassi saturi aveva la stessa quantità di placche aterosclerotiche nelle arterie, ma il gruppo che mangiava grassi saturi ha sperimentato quasi la metà del numero di attacchi cardiaci rispetto al gruppo che mangiava olio vegetale. Allo stesso modo, un’analisi scientifica di tre grandi revisioni pubblicate dai sostenitori delle statine (che tentavano di convalidare l’attuale convinzione che il trattamento con statine prevenga le malattie cardiovascolari) concluse che i tre studi in questione non soddisfacevano i criteri di causalità e traevano conclusioni errate. Nello specifico, gli autori hanno trovato:

• Nessuna associazione tra il colesterolo totale e il grado di gravità dell’aterosclerosi.

• I livelli di colesterolo totale non sono generalmente predittivi del rischio di malattie cardiache e possono essere assenti o inversi in molti studi.

• In molti studi l’LDL non era associato all’aterosclerosi e in un ampio studio negli Stati Uniti su circa 140.000 pazienti che hanno sofferto di un infarto miocardico acuto, i livelli di LDL al momento del ricovero erano inferiori al normale.

• Gli adulti di età superiore ai 60 anni con livelli di LDL più alti generalmente vivono più a lungo.

• Pochi adulti che soffrono di ipercolesterolemia familiare muoiono prematuramente.

I ricercatori hanno concluso che i livelli elevati di colesterolo non possono essere la causa principale delle malattie cardiache, dal momento che le persone con bassi livelli hanno quasi lo stesso grado di sclerosi di quelli con alti livelli e il rischio di avere un infarto è lo stesso o maggiore quando i livelli di colesterolo sono bassi. Ritengono che l’ipotesi sia stata mantenuta in vita dai revisori utilizzando statistiche fuorvianti ed escludendo i risultati da prove infruttuose ignorando numerose osservazioni contraddittorie.

PERCHE’ LE STATINE NON SONO CONSIGLIABILI PER LA MAGGIOR PARTE?

Mentre le linee guida dietetiche per gli americani non si concentrano più sulla riduzione del colesterolo alimentare per proteggere il cuore, smettendo di usare il colesterolo totale come misura del rischio di malattie cardiache, e preferendo il colesterolo LDL elevato, siamo ancora lontani dal come prevenire al meglio le malattie cardiache. Lo zucchero raffinato e il fruttosio trasformato sono infatti i principali fattori scatenanti delle malattie cardiache, quindi è qui che ci si dovrebbe concentrare e non tamponare il colesterolo con l’aiuto di farmaci come le statine (e/o evitare grassi sani saturi nella dieta). L’unico sottogruppo che potrebbe beneficiare di una statina sono quelli nati con un difetto genetico chiamato ipercolesterolemia familiare, in quanto ciò li rende resistenti alle misure tradizionali di normalizzazione del colesterolo. Ci sono molte ragioni importanti per cui non si dovrebbero assumere le statine. Le principali sono:

1. Non funzionano come pubblicizzato: Un rapporto del 2015 pubblicato nella Expert Review of Clinical Pharmacology ha concluso che i sostenitori delle statine utilizzavano uno strumento statistico chiamato riduzione del rischio relativo per amplificare gli effetti benefici banali delle statine. Se si considera il rischio assoluto, le statine beneficiano solo l’1 percento della popolazione. Ciò significa che su 100 persone trattate con i farmaci, una persona avrà un infarto in meno. Un’altra revisione sistematica pubblicata nello stesso anno ha concluso che negli studi in cui la morte era l’evento finale primario di prevenzione, le statine assunte per un periodo fino a sei anni posticipavano la morte da 5 a 19 giorni. Negli studi di prevenzione secondaria, la morte è stata posticipata di 10-27 giorni. Il rinvio medio della morte per la prevenzione primaria e secondaria era rispettivamente di tre o quattro giorni. Quando si considerano i molti pericoli per la salute associati a questi farmaci, questo beneficio minuscolo giustifica difficilmente il trattamento con statine.

2. Esauriscono il corpo di CoQ10: Le statine bloccano il coenzima HMG-A reduttasi nel fegato, che è il modo in cui riducono il colesterolo. Questo enzima produce anche il CoQ10, un nutriente mitocondriale essenziale che facilita la produzione di ATP. Come osservato in uno studio del 2010, “Il coenzima Q10 è un fattore importante nella respirazione mitocondriale” e “Le carenze primarie e secondarie del coenzima Q10 determinano un certo numero di sindromi neurologiche e miopatiche”. Dal momento che compromettono la funzione mitocondriale, potrebbero potenzialmente influire su qualsiasi problema di salute, poiché senza mitocondri ben funzionanti, il rischio di malattia cronica aumenta in modo significativo.

3. Inibiscono la sintesi della vitamina K2, una vitamina che protegge le arterie dalla calcificazione.

4. Riducono la produzione di chetoni: Sempre lo stesso enzima (coenzima HMG-A reduttasi) inibisce anche la capacità del fegato di produrre chetoni, grassi idrosolubili che sono essenziali per mantenere il corpo metabolicamente flessibile. I chetoni sono anche importanti molecole di segnalazione molecolare. Quindi, le statine rendono praticamente impossibile raggiungere la chetosi nutrizionale.

5. Le statine aumentano il rischio di altre gravi malattie, tra cui:

- Insufficienza cardiaca: Principalmente a causa di carenza di CoQ10 indotta da statine.

- Cancro: La ricerca ha dimostrato che l’uso di statine a lungo termine (10 anni o più) nelle donne ha più che raddoppiato il rischio di due tipi principali di carcinoma mammario: carcinoma duttale invasivo e carcinoma lobulare invasivo.

- Diabete: È stato dimostrato che le statine aumentano il rischio di diabete attraverso una serie di meccanismi diversi, due dei quali comprendono l’aumento della resistenza all’insulina e l’aumento del livello di zucchero nel sangue.

- Malattie neurodegenerative.

- Disturbi muscoloscheletrici e danni ai nervi motori: La ricerca ha dimostrato che il trattamento con statine che dura più di due anni provoca “danni definiti ai nervi periferici”.

- Cataratta.

- Problemi epatici.

SUPPLEMENTI NUTRIZIONALI CRUCIALI E CONSIGLIATI SE SI PRENDE UNA STATINA

In caso decideste di prendere una statina, bisogna assumere anche CoQ10 o Ubichinolo (la forma ridotta). Uno studio ha valutato i benefici del CoQ10 e della supplementazione di selenio per i pazienti con miopatia associata alle statine. Rispetto a quelli trattati con un placebo, il gruppo supplementato ha sperimentato meno dolore, diminuzione della debolezza muscolare e crampi nonché meno affaticamento. Un supplemento di vitamina K1 è anche altamente raccomandato. MK-7 è la forma ideale ed è estratto dal prodotto giapponese chiamato natto (estratto dalla soia fermentata).

I NUOVI FARMACI ANTICOLESTEROLO NON SONO PIU’ SICURI

Per fortuna non ancora presenti in Italia (ma ci manca poco!) bisognerà fare molta attenzione a una nuova classe di inibitori dell’assorbimento del colesterolo chiamati inibitori PCSK9. Il PCSK9 è una proteina che funziona sui recettori LDL che regolano l’LDL nel fegato e rilasciano il colesterolo LDL nel sangue. Gli inibitori bloccano la proteina, abbassando così la quantità di LDL che circola nel sangue; negli studi clinici, questi farmaci hanno abbassato le LDL di circa il 60%. Tuttavia, come discusso in precedenza, l’LDL non ha alcun rapporto diretto con il rischio CVD. Mentre questi farmaci vengono reclamizzati come la risposta per coloro che non possono tollerare alcuni degli effetti collaterali degli altri farmaci, come il dolore muscolare grave, gli studi hanno già scoperto che gli inibitori PCSK9 possono produrre “effetti neurocognitivi”, come confusione mentale e deficit di attenzione. Ci sono prove che suggeriscono che questi farmaci potrebbero essere addirittura più pericolosi delle statine.

COME EVITARE LE MALATTIE CARDIACHE

In conclusione, ricordate che il colesterolo totale elevato e anche l’LDL sono insignificanti quando si cerca di determinare il rischio di malattie cardiache, e colesterolo e grassi saturi nella dieta non sono fattori che contribuiscono. Probabilmente il miglior predittore per CVD è la sensibilità all’insulina. Considerando il modo in cui la resistenza all’insulina favorisce le malattie croniche in generale, non solo le malattie cardiache, consiglio vivamente di misurare l’insulina a digiuno su base regolare e di intraprendere un’azione immediata in caso di resistenza all’insulina. Per quanto riguarda la prevenzione o l’inversione della resistenza all’insulina, le seguenti linee guida generali vi metteranno sulla strada giusta:

1. Ridurre drasticamente i carboidrati netti ed eliminare il fruttosio trasformato, poiché è lui che mette in moto questa disfunzione metabolica. Sostituire le calorie perse con una maggiore quantità di grassi sani, non di proteine.

2. Normalizzare il rapporto omega-3/omega-6. Gli omega-3 sono sempre troppo scarsi. Si trovano nei pesci grassi come il salmone selvaggio dell’Alaska, le sardine, le acciughe, l’olio di pesce e l’olio di krill. Gli omega-6 invece sono troppi, poiché abbondanti negli oli vegetali lavorati e quindi negli alimenti lavorati e fritti.

3. Ottimizzare il livello di vitamina D ottenendo un’esposizione solare regolare e sensibile. Altre sostanze nutritive importanti includono magnesio, vitamine K1 e C.

4. Cercare di ottenere otto ore di sonno ogni notte per normalizzare il sistema ormonale. La ricerca ha dimostrato che la privazione del sonno può avere un impatto significativo sulla sensibilità all’insulina.

5. Allenarsi fisicamente regolarmente, poiché è un modo efficace per normalizzare la sensibilità all’insulina.

 

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05-02-2019

La vitamina D in gravidanza riduce il rischio di autismo nei bambini. Un nuovo studio australiano sottolinea l’importanza della vitamina D in gravidanza e ha individuato un legame tra carenza di vitamina D e autismo. Secondo i ricercatori un livello basso di vitamina D durante la gravidanza aumenta il rischio di mettere al mondo bambini che presenteranno tratti di autismo verso l’età di 6 anni. Il riferimento è ad un livello basso di vitamina D a 20 settimane di gravidanza. Lo studio in questione è stato condotto dal Brain Institute dell'University of Queensland in collaborazione con l’Erasmus Medical Center in Olanda. I ricercatori hanno analizzato 4.200 campioni di sangue prelevati da donne in gravidanza e dai loro bambini. Sono stati segnalati come carenti i campioni con un livello di vitamina D inferiore a 25 nmol/L. Secondo il neurologo John McGrath si possono associare bassi livelli di vitamina D e problemi nello sviluppo neurologico. La raccomandazione degli esperti per le donne in gravidanza è di tenere sotto controllo i livelli di vitamina D e di assumere degli integratori per scongiurare le carenze. Ora i medici consigliano sempre alle donne in gravidanza di assumere acido folico per ridurre il rischio di spina bifida e nello stesso modo assumere vitamina D per ridurre il rischio di autismo e di disturbi neurologici nel nascituro. Uno dei modi più semplici per permettere al nostro organismo di fare scorta di vitamina D è l’esposizione al sole ma non sempre essa avviene in modo sufficiente, dunque è sempre bene farsi consigliare da un esperto una dieta adatta da seguire e assumere un integratore in caso di carenze. La carenza di vitamina D potrebbe avere delle conseguenze da non sottovalutare sia negli adulti che nei bambini, ad esempio l’insorgenza dell’ansia e della depressione. Come sempre una vita sana e una giusta alimentazione sono le chiavi per il benessere e per la prevenzione, ancora di più se pensiamo alle nuove vite che nasceranno.

 

https://www.uq.edu.au/news/article/2016/12/uq-confirms-vitamin-d-link-autism-traits

http://www.nature.com/mp/journal/vaop/ncurrent/full/mp2016213a.html

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