Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

26-01-2015

Nel dentale la consapevolezza è ipocrisia, nonostante il momento e la grande sofferenza di tantissime patologie dipendenti da nano tecnologie di ionizzazioni di metalli si continua a proseguire come niente fosse, tutto per far soldi alle spalle dell’ignaro consumatore. Un impianto dentale è una possibile soluzione per sostituire i denti mancanti o gravemente malati. E’ composto da una radice artificiale che assomiglia ad una vite ed sostiene nella sommità, una corona dentale. Il trattamento prevede il posizionamento chirurgico dell’impianto nell’osso, dove è permesso di fondere le ossa in un processo chiamato “osteointegrazione”. Una volta guarito, l’impianto agisce come un’ancora per la sostituzione di un dente artificiale, o corona. La corona è fatta in modo da unirsi con gli altri denti ed è fissata in modo permanente all’impianto. Un tipico impianto dentale è in titanio puro e/o una lega di titanio. In realtà, le leghe di titanio sono ampiamente utilizzate in medicina e odontoiatria, per impianti dentali, pacemaker, stent, staffe ortodontiche e protesi ortopediche (ad esempio, per l’anca, la spalla, il ginocchio o il gomito). Al titanio sono riconosciute qualità di robustezza, ma molti lo considerano anche un materiale biocompatibile: si forma uno strato di ossido se esposto all’aria, e questo presumibilmente si traduce in corrosione ridotta e in una migliore osteointegrazione. Allora perché si dovrebbe rifiutare l’impianto metallico standard in titanio? Il titanio non è biologicamente inerte. Impianti in titanio rilasciano ioni metallici in bocca 24 ore al giorno, e questa esposizione cronica può provocare infiammazioni, allergie e malattie autoimmuni in soggetti predisposti. Si tratta di un materiale precursore di vari disturbi. Casi di intolleranza a impianti metallici sono stati segnalati nel corso degli anni, e la rimozione di questo materiale dentale ha portato ad una minore sensibilità ai metalli e un miglioramento a lungo termine sullo stato di salute nella maggior parte dei pazienti.
Il titanio ha il potenziale di indurre ipersensibilità e disfunzioni immunologiche. Uno studio ha esaminato 56 pazienti che hanno sviluppato gravi problemi di salute dopo aver ricevuto gli impianti dentali a base di titanio. Si sono riscontrati casi di problemi muscolari, articolari e dolore neuropatico, sindrome da affaticamento cronico, problemi neurologici, depressione e infiammazione della pelle. Rimozione degli impianti ha determinato un notevole miglioramento dei sintomi nei pazienti, così come una diminuzione in molti pazienti della sensibilità al titanio. Ad esempio, un uomo di 54 anni con un impianto dentale in titanio e quattro viti in titanio nelle vertebre era così malato da essere costretto ad interrompere l’attività lavorativa. Soffriva di sindrome da stanchezza cronica, deficit cognitivo, tremori simili a quelli causati dal Parkinson, e depressione grave. Sei mesi dopo la rimozione degli impianti e delle viti, fu in grado di tornare al lavoro. In un altro caso, una ragazza 14enne ha sviluppato lesioni infiammatorie sul viso sei mesi dopo l’applicazione di staffe ortodontiche in titanio. La ragazza ha anche subito un crollo psicofisico, e la sua reattività al titanio è salita alle stelle. Entro nove mesi dalla sostituzione delle staffe con un materiale metal-free, le sue lesioni al viso era quasi completamente guarite, era sana e attiva, e la sua sensibilità al titanio era tornata ad un livello normale. Gli impianti in titanio possono provocare il cancro. Un’altra complicazione legata all’uso del titanio è la potenziale capacità di indurre la proliferazione abnorme di cellule (neoplasia), che può portare allo sviluppo di tumori maligni e cancro. Raramente, si riscontrano complicazioni a seguito di interventi chirurgici ortopedici che prevedono l’impianto di hardware metallici. Inoltre, i ricercatori hanno recentemente scoperto il primo caso segnalato di un sarcoma associato ad un impianto dentale.
Come descritto nel numero di agosto del 2008 di JADA (The Journal of American Dental Association), un donna 38enne ha sviluppato un cancro alle ossa undici mesi dopo aver applicato un impianto dentale in titanio. Gli autori raccomandano ulteriori ricerche sui tumori causati potenzialmente da impianti dentali alla luce del crescente utilizzo che se ne fa e la capacità di durare per lunghi periodi di tempo. La presenza di qualsiasi metallo in bocca pone le basi per una “tossicità galvanica”, perché la bocca diventa paragonabile ad una batteria carica quando metalli vengono ad essere immersi nella stessa saliva. Ciò che serve per creare una batteria, d’altronde, è mettere due o più metalli diversi in un mezzo liquido che può condurre l’elettricità (cioè, un elettrolita). Impianti metallici, otturazioni, corone, parziali, e ortodonzia sono formati da metalli diversi, e la saliva in bocca fa da elettrolita. Una corrente elettrica chiamata corrente galvanica viene quindi generata dal trasporto di ioni metallici dalla protesi a base di metalli nella saliva. Questo fenomeno è chiamato “galvanismo orale”, e significa, letteralmente, che la bocca si comporta come una batteria per auto di piccole dimensioni o un generatore elettrico in miniatura. Le correnti possono essere misurate con un amperometro!
Il galvanismo orale crea due preoccupazioni principali. In primo luogo, le correnti elettriche aumentano il tasso di corrosione (o dissoluzione) di restauri dentali a base metallica. Anche le leghe di metalli preziosi in continuo rilascio di ioni metallici in bocca a causa della corrosione, un processo che erode pezzi di metallo dalla superficie. Questi ioni reagiscono con gli altri componenti del corpo, portando a malattie di sensibilità, infiammazioni, e, infine, malattie autoimmuni. L’aumento della velocità della corrosione, di conseguenza, aumenta la probabilità di sviluppare reazioni immunologiche o tossiche per i metalli. In secondo luogo, alcuni individui sono molto sensibili a queste correnti elettriche interne. Metalli diversi in bocca possono causare dolore inspiegabile, scosse nervose, ulcerazioni, e infiammazioni, e molte persone possono anche sperimentare un gusto costante metallico o salato, o una sensazione di bruciore in bocca. Inoltre, vi è l’ipotesi che il galvanismo orale veicoli correnti elettriche nel tessuto cerebrale e possono interferire con la naturale corrente elettrica nel cervello.
Negli ultimi anni, gli impianti ad alta resistenza in ceramica sono diventati un’alternativa interessante per impianti in titanio, e qualche ricerca attuale si è concentrata su materiali come l’ossido di zirconio (il biossido di zirconio, un metallo vicino al titanio nella tavola periodica). Protesi metal-free in zirconia sono utilizzate in Europa e Sud America da anni, e solo recentemente si sono resi disponibili impianti in Zirconia negli Stati Uniti e sono considerati altamente biocompatibili per il corpo umano ed evidenziano un rilascio minimo di ioni rispetto agli impianti metallici. Studi hanno dimostrato che l’osteointegrazione di impianti in titanio e zirconio sono molto simili, e che le protesi in zirconia hanno un tasso di sopravvivenza comparabile, rendendoli un’ottima alternativa alle protesi in metallo. Inoltre, le ceramiche di zirconia sono stati utilizzate con successo nella chirurgia ortopedica per la produzione di teste a sfera per la sostituzione totale dell’anca. Pertanto, considerato che gli impianti dentali in titanio possono indurre sensibilità ai metalli, infiammazioni, reazioni autoimmuni, e tumori maligni, mentre gli impianti in zirconia sono metal-free ma altrettanto resistenti, perché sottoporsi all’esposizione cronica di metalli? Il corpo trarrebbe sicuramente beneficio dalla scelta di materiali biocompatibili, impianti dentali in ceramica rispetto allo standard, impianto titanio. Ma, direi che è meglio una lega nobile resa bioinerte da un protocollo per eliminare la causa di tutte le reazioni che esiste sul mercato già tanto usato: TTSVGEL.
Lo zirconio è un agglomerato di elementi ricavati da un processo chimico a loro volta da elementi ossidati, cosiddetti metalloidi! Quindi, non sono altro che elementi ossidi metallici, contenuti sotto pressione isostatica a 600 atmosfera in un’altro elemento, il neosilicato che di fatto portato ad una certa temperatura fonde e incorpora gli ossidi, quali: ossido di zirconio, ittrio, thorio, tantalio, uranio ecc. Questo materiale è suscettibile ai liquidi organici tra i 30° e i 90° e la loro dissociazione rilascia elementi di una dimensione 0,30 micron. E’ più pericoloso dell’amianto ed è radioattivo. E’ stato dichiarato dalla ECHA Ente internazionale della chimica, un dei 20 materiali più pericolosi al mondo.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/17261997

http://link.springer.com/article/10.1023/A:1016131310025?LI=true#page-1

http://pubs.acs.org/doi/abs/10.1021/es204168d

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18584125?itool=EntrezSystem2.PEntrez.Pubmed.Pubmed_ResultsPanel.Pubmed_RVDocSum&ordinalpos=11

http://www.examiner.com/article/dental-implants-can-harm-your-health

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19336868?itool=EntrezSystem2.PEntrez.Pubmed.Pubmed_ResultsPanel.Pubmed_RVDocSum&ordinalpos=1

http://humansarefree.com/2014/02/shocking-connection-97-of-all-terminal.html?m=0

Lunedì, 26 Gennaio 2015 11:24

LAVORARE TROPPO FA VENIRE IL DIABETE.

26-01-2015

“Il lavoro fa male, lo dicono tutti…”, cantava qualche anno fa Irene Grandi. E che in parte sia vero, lo suggerisce anche un nuovo studio pubblicato in The Lancet Diabetes and Endocrinology. Secondo i ricercatori dell’University College di Londra (UCL), infatti, chi lavora per più di 55 ore a settimana ha più probabilità di sviluppare il diabete di tipo 2, rispetto a chi lavora da 35 a 40 ore. La revisione sistematica, e meta-analisi, ha preso in esame una serie di studi pubblicati e non pubblicati a livello individuale fino al 30 aprile il 2014, che hanno vagliato gli effetti di molte ore di lavoro sul diabete di tipo 2.
Lo studio ha rivelato che gli individui che eseguivano lavori a basso status socioeconomico, e che hanno lavorato 55 ore o più alla settimana, avevano un aumento di circa il 30% del rischio di sviluppare il diabete rispetto ai loro colleghi che hanno lavorato tra le 35 e le 40 ore a settimana. I risultati restavano tali anche dopo aver tenuto conto dello stile di vita e dei comportamenti riguardo la salute come il vizio del fumo e l’attività fisica, insieme ad altri fattori di rischio quali l’età, il sesso e l’obesità. In più, l’associazione negativa è rimasta significativa anche escludendo il lavoro a turni, che in diversi studi ha dimostrato aumentare il rischio di obesità e di sviluppare proprio il diabete di tipo 2.
Il lavoro di revisione condotto dal dott. Mika Kivimaki e colleghi ha permesso di approfondire e valutare l’associazione tra le ore di lavoro e il rischio di diabete con maggiore precisione rispetto al passato. Questo è stato possibile mettendo in comune di tutti gli studi disponibili su questo argomento. Secondo Kivimaki, anche se lunghe ore di lavoro è improbabile possano far aumentare il rischio di diabete in tutte le persone, gli operatori sanitari devono essere consapevoli che vi è una significativa associazione, in particolare nelle persone che fanno lavori a basso status socioeconomico. Insomma, in alcuni casi è proprio vero che il lavoro fa male. In verità poi, la Grandi proseguiva cantando che “è meglio fare l’amore. Anche tutte le sere, sì che fa bene…”, ma questa è un’altra storia.

 

http://www.thelancet.com/journals/landia/article/PIIS2213-8587%2814%2970178-0/abstract

26-01-2015

I ricercatori dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano hanno dimostrato che il consumo eccessivo di carboidrati ad alto indice glicemico come pane e zucchero, aumenta il rischio di ictus. Il lavoro ed è stato pubblicato sulla rivista PLOS ONE. La ricerca, guidata dal prof. Vittorio Krogh, fa parte del progetto EPICOR, uno studio che ha come obiettivo l’associazione tra dieta e incidenza delle malattie cardiovascolari in Italia. I ricercatori hanno dimostrato che una dieta ad alto carico glicemico non solo aumenta il rischio di cancro, ma anche quello di altre malattie cronico degenerative. La ricerca, svolta in Italia su oltre 47.000 volontari a cui l’istituto ha partecipato insieme ad altri 22 centri in 10 paesi Europei, è parte del grande studio oncologico EPIC (European Investigation into Cancer and Nutrition) in cui lo stesso gruppo di ricercatori aveva dimostrato che esiste un’associazione tra una dieta ad alto carico glicemico ed un maggior rischio di tumore alla mammella. L’articolo era stato pubblicato su Nutrition Metabolism and Cardiovascular Disease, nel 2012.
Secondo i risultati della nuova ricerca, chi consuma in grande quantità carboidrati ad alto indice glicemico, come zucchero, marmellata, pane bianco, miele, riso e pizza, ha un rischio più elevato dell’87% di essere colpito da ictus. Privilegiare il consumo di cibi a basso carico glicemico è importante per la prevenzione delle malattie cronico-degenerative. L’indice glicemico di un alimento indica la velocità con cui il cibo aumenta i livelli di glucosio nel sangue. La “risposta glicemica” a ciascun pasto è influenzata non solo dall’indice glicemico dei singoli alimenti, ma anche dal “carico glicemico” cioè dalla quantità di carboidrati in esso contenuto. Cibi ad alto contenuto di carboidrati ad alto indice glicemico sono, ad esempio, il pane, lo zucchero, la pizza ed il riso; mentre hanno un alto contenuto di carboidrati a basso indice glicemico gli alimenti integrali, i legumi e la frutta che vengono digeriti lentamente e provocano un limitato picco di glicemia e una bassa risposta insulinica. I risultati della ricerca suggeriscono che esiste un’associazione tra il consumo di carboidrati ad alto indice glicemico ed il rischio di ictus e supporta l’ipotesi che un’elevata glicemia dopo il pranzo, può essere il meccanismo sottostante l’aumento del rischio di ictus.

 

http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0062625

26-01-2015

Rifare il letto al mattino fa male alla salute. È questa la notizie di queste ultime ore, rilasciata in seguito ai risultati di alcuni studi. Rifare il letto è un’azione quotidiana che ognuno di noi, soprattutto le mamme, devono fare ogni giorno. Soprattutto le più pigre e le più disordinate saranno contente di sapere che questa attività quotidiana rischia di essere molto dannosa per l’organismo. A dichiararlo è uno studio condotto dall’università britannica di Kingston ed il particolare dal ricercatore Stephen Pretlove. Ciò che ha condotto a questa conclusione sono gli acari. Secondo questo studio, infatti, lasciare il letto disfatto aiuta a contrastare la formazione degli acari, che soprattutto per i soggetti allergici è una cosa di fondamentale importanza. Secondo questo studio lasciare il letto disfatto significa andare a creare un ambiente poco favorevole alla formazione degli acari, che invece si diffondo benissimo nel letto caldo ed umido, come quelle che lasciamo quando ci svegliamo. Sistemando subito le lenzuola, quindi, non andiamo a fare altro che mantenere questo ambiente caldo favorevole per gli acari.
“Gli acari, possono sopravvivere solo ricavando l’acqua di cui hanno bisogno dall’ambiente. Lasciare il letto sfatto durante il giorno è sufficiente a eliminare l’umidità da lenzuola, cuscini e materassi. Così gli acari si disidratano e poi alla fine muoiono” ha dichiarato il professor Pretlove, che ha condotto questo studio. La lotta contro gli acari, quindi, stando a questi risultati, comincerebbe proprio da un gesto quotidiano, che ognuno di noi compie al mattina quando si sveglia. Rifare prontamente il letto, quindi, sarebbe dannoso per la propria salute soprattutto nei casi di soggetti già allergici agli acari che devono, quindi, tenere lontani questi esseri il più possibile per la propria salute. Si tratta di una scoperta molto importante. La correzione di un gesto quotidiano che potrebbe fare per molti la differenza.

 

http://www.kingston.ac.uk/news/archive/2005/january/17-messy-bedroom-could-spell-end-for-creepy-crawlies/

24-01-2015

In Italia e in genere nel mondo occidentale la conosciamo per essere un ingrediente di quella miscela di spezie che chiamiamo Curry. E’ la curcuma, una spezia di colore giallo/arancio che dona ai cibi un sapore muschiato – un po’ simile allo zenzero, ma meno piccante. Questa contiene, a sua volta, una sostanza detta curcumina. E sarebbe proprio questa che, insieme ai peptidi che inibiscono il cancro, farebbe aumentare i livelli di un inibitore della proteina conosciuta per combattere la progressione del mesotelioma, un tumore del rivestimento del polmone. Tutto questo secondo uno studio condotto dagli scienziati della Case Western Reserve University e della Georg-Speyer-Haus a Francoforte (Germania), che hanno scoperto come la curcumina e i peptidi PIAS3 siano in grado, a loro volta, di sollevare i livelli PIAS3. Questo processo ha poi ridotto l’attività STAT3 e causato la morte delle cellule di mesotelioma. Lo studio del dott. Afshin Dowlati e colleghi è servito come prova di principio circa l’efficacia di questi due composti nel trattamento del mesotelioma maligno. I risultati si pongono come un primo passo per lo spostamento del trattamento verso gli studi clinici. Inoltre, i risultati hanno dimostrato che PIAS3 potrebbe servire come marcatore predittivo per la gestione del mesotelioma. Questo perché i tumori non sempre progrediscono in maniera prevedibile coerente, anche quando gli stadi tumorali, le qualifiche e le presentazioni cliniche appaiono simili.
Il dott. Dowlati ha dichiarato che il mesotelioma è ancora una malattia che ha un peso significativo in tutto il mondo. Per questo motivo, tutte le opzioni di trattamento che si dimostrano ottimali come quella appena valutata, favoriscono la comprensione dei meccanismi che guidano la proliferazione cellulare e la crescita nel mesotelioma maligno.Secondo i ricercatori i risultati suggeriscono che l’espressione di PIAS3 influenza positivamente la sopravvivenza in pazienti affetti da mesotelioma e che l’attivazione PIAS3 potrebbe diventare una strategia terapeutica. Il loro interesse per il futuro è dunque trovare modi migliori e più semplici per aumentare i livelli intracellulari di PIAS3 per il mesotelioma maligno. Tutto questo è possibile proprio attraverso l’uso di analoghi sintetici di peptidi PIAS3 o curcumina.

 

http://clincancerres.aacrjournals.org/content/20/19/5124

24-01-2015

Avete pensato di sostituire lo zucchero con qualche dolcificante sintetico per perder un po' di peso? State sbagliando tutto. Una ricerca appena pubblicata sulla versione online di Nature segnala l'effetto negativo prodotto da dolcificanti a base di aspartame, saccarina e sucralosio sul metabolismo. Secondo lo studio guidato dal dott. Jotham Suez del Dipartimento di Immunologia del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele, i dolcificanti causerebbero alterazioni metaboliche tali da indurre un aumento dei livelli di glicemia. I dolcificanti sono ormai diffusissimi perché consentono di non rinunciare al sapore dolce risparmiando tuttavia decine di calorie. Un cucchiaino di zucchero equivale più o meno a 20 calorie mentre una pasticca di dolcificante che ne fa le veci si ferma a 2/3. Il team israeliano si schiera dalla parte dei detrattori sottolineando la capacità di queste sostanze di alterare il metabolismo producendo una condizione di intolleranza glucidica che apre le porte al diabete.
I ricercatori hanno analizzato su modello animale il microbiota intestinale, individuando anche in quella sede una modifica sostanziale della flora batterica intestinale rispetto ai topi del gruppo di controllo. Dopo il trapianto del microbiota dai topi con glicemia alta a quelli sani, i ricercatori hanno registrato un innalzamento dei livelli anche in questi ultimi. A conferma delle loro intuizioni, i ricercatori hanno poi studiato il microbiota intestinale di oltre 400 persone scoprendo che la flora batterica di chi consumava i dolcificanti era notevolmente diversa da quella di chi invece consumava zucchero. 7 volontari che non consumavano dolcificanti sono stati arruolati per una sperimentazione su piccola scala. I soggetti hanno consumato i prodotti dolcificanti per una settimana. Dopo soltanto 4 giorni, la metà di loro mostrava livelli elevati di glicemia e una composizione alterata della popolazione batterica intestinale, esattamente ciò che succedeva nei topi.
Antonio Gasbarrini, gastroenterologo del Gemelli di Roma e studioso del microbiota intestinale, ha commentato intervistato da Repubblica: “la forza di questo studio è che ha dimostrato che i dolcificanti hanno modificato il microbiota intestinale e che questa modifica ha provocato un aumento della glicemia. I dolcificanti, quindi, possono modulare il microbiota, come del resto gli alimenti. È ormai provato che il microbiota, un vero e proprio organo, scambia informazioni con il cervello, il fegato e il tessuto adiposo. È un nuovo attore, possiede tre milioni di geni, oltre mille specie di batteri diversi e ha una potentissima attività metabolica e immunologica. La maggior parte di questi batteri si trova nel colon e nell'intestino tenue ed è nutrita soltanto dalle fibre indigeribili che arrivano nel colon. La novità è che da qualche anno abbiamo la tecnologia adatta per individuare il microbiota mentre prima ne ignoravamo l'esistenza e stiamo a poco a poco scoprendo quanto sia coinvolto in molte patologie".
Anche una ricerca della Purdue University pubblicata sulla rivista Trends in Endocrinology & Metabolism si pone sullo stesso binario di quella israeliana. In questo caso, gli scienziati hanno analizzato l'apporto dei dolcificanti in sede di dieta ipocalorica. Ebbene, secondo lo studio i dolcificanti non darebbero alcun aiuto al soggetto in cerca di dimagrimento, ma aumenterebbero anzi le probabilità di insorgenza di alcune gravi malattie come la sindrome metabolica, il diabete e le patologie cardiovascolari. La principale autrice della ricerca, Susan Swithers, spiega: “dati recenti sia su esseri umani che su animali hanno in realtà fornito scarso supporto, per esempio, all'idea comune che le bibite dolcificate artificialmente promuovano la perdita di peso e prevengano le conseguenze negative sulla salute tipiche delle bibite zuccherate (sindrome metabolica, diabete, obesità, malattie cardiovascolari). Anzi un certo numero di studi suggerisce il contrario e cioè che le persone che consumano regolarmente bibite dolcificate artificialmente hanno un rischio più elevato rispetto a chi non le consuma, un rischio dello stesso ordine di grandezza di quello associato al consumo di bibite normalmente zuccherate".
Il rischio sta anche nell'effetto boomerang. Il consumo di prodotti dolcificati in maniera artificiale attenua la risposta dell'organismo sia a livello metabolico che cerebrale dal momento che non si riesce a soddisfare la voglia di dolce e non si stimola la produzione di insulina come avviene invece con lo zucchero. L'esame della risonanza magnetica funzionale ha evidenziato che i dolcificanti stimolano i centri cerebrali del gusto molto di più del comune zucchero (glucosio e saccarosio) e in maniera assai diversa. Assumendo edulcoranti al corpo non pervengono quelle calorie che richiede e, pertanto, le persone sono indotte a ingerire altri cibi dolci, superando così il giusto apporto calorico giornaliero. Esami condotti su animali hanno riscontrato in maniera evidente che quelli tra essi a cui venivano somministrati dolcificanti tendevano a mangiare e a ingrassare molto più e molto più velocemente delle bestioline che ingerivano lo zucchero normale. Tra le due categorie di cavie era diverso anche l'innalzamento della temperatura corporea, essendo più basso del dovuto nei soggetti che assumevano gli zuccheri sintetici.
I ricercatori hanno rilevato che rispetto ai ratti che mangiavano yogurt addolcito con glucosio (uno zucchero semplice con 15 calorie per ogni cucchiaino da tè), quelli che lo mangiavano con saccarina (zero calorie) finivano per consumare più calorie nel corso della giornata, mettendo su più peso e massa grassa. Il corpo non riusciva più a regolare correttamente l'apporto calorico, perché si interrompeva la connessione tra sensazione di dolcezza e cibi ricchi di calorie. "I dati indicano chiaramente che mangiare cibo addolcito con un dolcificante artificiale privo di calorie può portare a un maggior acquisto di peso corporeo e adiposità, rispetto a quello che accade consumando lo stesso alimento, abbinato però a uno zucchero più ricco di calorie", scrivono gli autori. Gli esperti di tutto il mondo hanno riscontrato risultati simili con varie molecole (aspartame, saccarina, sucralosio e altri), anche in numerosi test in vitro. Tutti comunque concordano sulla necessità di proseguire gli studi sull'uomo in maniera più approfondita e per un lungo periodo di tempo. Alcune statistiche di consumo dei dolcificanti, rapportate a dati epidemiologici, non mancano di suscitare preoccupazioni: nel 1987 poco meno di 70 milioni di americani consumavano dolcificanti, ma nel 2000 il loro numero era salito a 160 milioni. Nello stesso lasso di tempo le persone obese negli States erano passate dal 15 al 30 per cento della popolazione totale.
Dunque, mentre si attendono nuovi risultati scientifici dalla ricerca e dalle sperimentazioni, è consigliabile consumare questi prodotti dolcificanti con molta cautela, considerando che il danno potrebbe non limitarsi alla linea, ma coinvolgere anche lo stato di salute. Infatti, chi intende perdere chili consumando prodotti “light” o surrogati di zucchero ingerisce sicuramente meno calorie, ma deve poi combattere contro un aumento di appetito, probabilmente al più tardi contro gli effetti di una persistente iperinsulinemia (rischio di diabete II), oppure contro gli effetti scomodi di una ipoglicemia reattiva. Bisogna inoltre ricordare che gli edulcoranti sono usati anche per addolcire medicinali, colluttori e gomme da masticare e che ipotesi al vaglio degli scienziati imputano ad alcuni dolcificanti capacità di cancerogenesi.

 

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/09/140917131634.htm

http://www.purdue.edu/newsroom/releases/2013/Q3/prof-diet-drinks-are-not-the-sweet-solution-to-fight-obesity,-health-problems.html

Giovedì, 22 Gennaio 2015 13:50

ECCO PERCHE’ LE BIBITE FANNO INGRASSARE.

22-01-2015

Le bibite light causano obesità? Molto probabile. Sta di fatto che negli ultimi decenni, le bevande dolcificate artificialmente sono diventate un'alternativa sempre più popolare alle bibite zuccherate e, allo stesso tempo, il tasso di obesità in America è schizzato alle stelle. Pura coincidenza? Se lo sono chiesti alcuni studiosi della Texas Christian University secondo cui bere queste bevande light, o "diet-drinks", favorirebbe processi psicologici che nel tempo possono portare anche a un aumento dell'apporto calorico.
In una serie di esperimenti, la psicologa autrice dello studio Sarah Hill e i suoi colleghi hanno scoperto che le bevande dolcificate artificialmente influenzano le nostre reazioni successive nei riguardi di un cibo dolce: in pratica, secondo lo studio, le bibite light possono attivare un desiderio senza soddisfarlo, aumentando così la nostra vulnerabilità verso un pasto eccessivamente calorico. In uno degli esperimenti, 115 studenti universitari a digiuno da almeno otto ore hanno bevuto una tra tre bevande (servita in un bicchiere anonimo): Sprite (dolcificata con zucchero), Sprite Zero (con edulcoranti) oppure acqua minerale frizzante e aromatizzata (non zuccherata). Da una serie di test successivi, è emerso che chi aveva bevuto una bevanda light era più attento a cibi non sani dopo ed era più propensi a scegliere uno snack ipercalorico.
"Sembra che – dice la Hill – bere una bevanda definita non calorica possa innescare la scelta di prodotti poco sani. Tali alimenti sono nella vostra mente". Si è dunque pensato che i dolcificanti artificiali non soddisfino la voglia di dolcezza e che ciò porti le persone a mangiare più cibi dolci per compensare. Insomma, un altro tassello che si aggiunge alla tesi secondo cui i dolcificanti artificiali possono fare più male che bene. Già un altro studio aveva evidenziato come un consumo anche minimo, ma regolare, di queste bibite prive di zucchero, ricche di anidride carbonica e varie sostanze aggiunte, danneggerebbe i reni, i denti e creerebbe danni al metabolismo. Certo, le bevande light potrebbero aiutarci a evitare le calorie nel breve periodo. Ma alla fine ne paghiamo comunque le spese in termini di peso e di salute. Un motivo in più per evitare proprio di consumare bibite gassate a prescindere da come siano dolcificate.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2892765/

http://www.sciencedaily.com/releases/2011/06/110627183944.htm

22-01-2015

La soia è ritenuta imitare gli ormoni estrogeni femminili, grazie al suo contenuto di fitormoni. Per questo motivo molte donne assumono questo legume per proteggersi dal possibile rischio di cancro al seno – una pratica supportata da diversi studi epidemiologici che suggeriscono che un aumento dell’assunzione di soia ha fatto diminuire l’incidenza dei tumori al seno. Ma cosa accade quando a una donna è stato diagnosticato un carcinoma mammario? Deve continuare ad assumere integratori alimentari a base di soia? Secondo i ricercatori del Memorial Sloane Kettering Cancer Center di New York, no. Questo perché la soia potrebbe favorire l’espressione di geni tumorali associati con un aumento della proliferazione delle cellule cancerogene. Il dott. Moshe Shike e colleghi hanno coinvolto 140 donne, suddivise in due gruppi, che assumevano o proteine della soia o integratori di proteine del latte ogni giorno, sotto forma di due pacchetti di 25,8 grammi mescolati in acqua o succo di frutta. I ricercatori hanno poi studiato i cambiamenti nella struttura molecolare delle cellule del cancro al seno in fase iniziale, ottenuti da biopsie effettuate al momento della diagnosi e qualche settimana più tardi, quando il tumore è stato rimosso. Poiché la maggior parte dei tumori al seno sono estrogeno-recettori positivi, ossia possono rispondere ai segnali provenienti dagli estrogeni nel corpo, alle donne con diagnosi di carcinoma della mammella viene detto di evitare l’assunzione di ormoni e, al contempo, vengono prescritti loro farmaci anti-estrogenici.
I risultati dell’analisi, pubblicati sul Journal of National Cancer Institute, hanno mostrato che nel gruppo che assumeva gli integratori di proteine della soia vi era una sovraespressione dei geni associati alla proliferazione cellulare nei tumori, a differenza del gruppo che assumeva le proteine del latte. Lo studio, sottolineano i ricercatori, non ha dimostrato una relazione causa/effetto, per cui non è chiaro il perché le donne rispondevano in questo modo alle proteine della soia. Tuttavia, è emerso che le proteine della soia hanno favorito la sovraespressione, a livello genetico, dei geni associati alla proliferazione delle cellule tumorali. Per questo motivo, i ricercatori consigliano alle donne con diagnosi di cancro al seno di moderare l’assunzione di proteine della soia.

 

http://jnci.oxfordjournals.org/content/106/9/dju189

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/09/140904183725.htm

http://www.eurekalert.org/pub_releases/2014-09/oupu-ssa082814.php

http://consumer.healthday.com/cancer-information-5/breast-cancer-news-94/soy-a-friend-or-foe-of-breast-cancer-691425.html

http://www.cancernetwork.com/podcasts/soy-breast-cancer-connection

http://www.medicaldaily.com/soy-protein-might-exacerbate-breast-cancer-women-who-already-have-disease-301648

22-01-2015

Le donne in special modo, per preservare il proprio udito, dovrebbero mangiare pesce o comunque assumere più acidi grassi essenziali omega-3. Queste le conclusioni cui è giunto un nuovo studio appena pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition (AJCN). Secondo i ricercatori del Brigham and Women’s Hospital di Boston (negli Usa), il consumo di due o più porzioni di pesce alla settimana è associato a un minor rischio di perdita dell’udito. E a ricavarne il maggior vantaggio sarebbero le donne. Le conclusioni sono state tratte dopo aver analizzato i dati relativi al Nurses’ Health Study II (NHS II), uno studio prospettico di coorte che ha coinvolto 65.215 donne. Le partecipanti sono state seguite dal 1991 al 2009, periodo in cui sono stati segnalati 11.606 casi di perdita dell’udito.
Confrontando i dati acquisiti, i ricercatori hanno trovato che le donne che assumevano due o più porzioni di pesce alla settimana avevano un rischio del 20% più basso di perdita dell’udito, rispetto a coloro che consumavano pesce raramente. Quando esaminato singolarmente, poi, un maggiore consumo di ogni specifico tipi di pesce è stato inversamente associato al rischio. Il rischio di ipoacusia acquisita è reale, ricordano gli scienziati. Si tratta di una patologia cronica molto diffusa e spesso invalidante, anche se un calo dell’udito è spesso considerato un aspetto inevitabile dell’invecchiamento. Tuttavia, l’identificazione dei diversi fattori di rischio potenzialmente modificabili ha fornito nuove conoscenze nella possibilità di prevenzione o ritardo della perdita uditiva acquisita. Gli acidi grassi essenziali sarebbero dunque un toccasana anche per le funzioni uditive.

 

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/09/140910132526.htm

http://www.brighamandwomens.org/About_BWH/publicaffairs/news/PressReleases/PressRelease.aspx?sub=0&PageID=1868

http://ajcn.nutrition.org/content/100/5/1371

22-01-2015

Alcuni studi realizzati dalla Food Standards Agency e da altre associazioni dei consumatori in Inghilterra hanno stabilito che il Kebab che viene venduto nel paese non contiene sempre e solo agnello, ma anche carne di origine sconosciuta. I piatti che venivano serviti come agnello erano in realtà composti anche di maiale, manzo, pollo, tacchino o carni che non sono state identificate, senza che sia stato possibile capire se vi era la presenza dell’agnello o di altro. L’indagine realizzata, ha mostrato che su 60 Kebab che vengono spacciati per agnello, 17 erano stati realizzati mischiando anche altri tipi di carne mentre 5 presentavano una materia prima non identificabile. Un altro studio, che ha analizzato 145 campioni di Kebab, ha determinato che 43 di questi non erano stati cucinati esclusivamente con agnello.
Diffusa la notizia, è stato interpellato il vice ministro britannico Nick Clegg, a cui è stato chiesto in onda sulla radio LBC se esiste la possibilità che al posto dell’agnello siano state usate carni meno costose, come quelle di cani, gatti o topi, come riportano diversi quotidiani internazionali, tra cui il The Telegraph. “Certo che mi preoccupo se stanno vendendo spiedini di ratto. Penso che le autorità sanitarie dovrebbero iniziare a lavorare su questo”, ha detto Clegg, mentre il governo ha una procedura ufficiale di analisi per approfondire la vicenda. Oltre alla qualità discutibile delle carni utilizzate, gli autori dello studio avvertono che il kebab è generalmente un prodotto poco sano, a causa del suo alto contenuto di sale e grassi saturi.

 

http://www.telegraph.co.uk/news/politics/nick-clegg/10784970/Nick-Clegg-I-fear-rat-meat-is-in-kebabs.html

http://www.independent.co.uk/news/uk/nick-clegg-im-concerned-about-rat-meat-in-kebabs-9283544.html

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