Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

Venerdì, 16 Gennaio 2015 13:21

ATTENZIONE ALLA CODEINA: GENERA DIPENDENZA.

16-01-2015

I farmaci che contengono codeina - in particolare gli sciroppi - possono provocare dipendenza in chi li usa e causare, nei casi più gravi, anche alterazioni a livello cerebrale. Un team di ricercatori ha pubblicato sull'American Journal of Neuroradiology un'analisi sugli effetti di questi farmaci, chiedendo a 30 consumatori cronici e a 30 soggetti di controllo di sottoporsi a un esame di imaging cerebrale con un tensore di diffusione, un tipo di risonanza magnetica che consente di ottenere immagini tridimensionali. Dai risultati è emersa nel cervello dei consumatori abituali la presenza di un deficit di sostanza bianca, un fattore che si associa a un comportamento più impulsivo e aggressivo da parte dei soggetti. L'abuso di sciroppi alla codeina ha causato alterazioni in diverse aree del cervello, fra cui il fascicolo fronte-occipitale e il fascicolo inferiore, modificazioni riscontrabili anche nelle dipendenze da alcol, eroina e internet.
La pericolosità della codeina era già nota, tanto che l'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco, ha disposto il divieto di utilizzo di farmaci che contengono la sostanza per i bambini fino a 12 anni. La codeina ha un effetto analgesico che viene sfruttato soprattutto nei casi in cui il bambino ha subito un intervento chirurgico per la rimozione di tonsille o adenoidi. Ma è proprio in questi casi che la sostanza può produrre gravi complicanze che possono portare anche alla morte. I farmaci vietati agli under 12 sono:

- Tachidol "Bambini 125 mg/5 ml + 7,5 mg/5 ml Sciroppo" - flacone da 120 ml;
- Tachidol "Bambini 125 mg/7,5 mg Granulato effervescente" - 10 bustine;
- Lonarid "Bambini 200 mg + 5 mg Supposte" - 6 supposte;
- Paracetamolo + Codeina Angenerico "125 mg + 7,5 mg Granulato effervescente" - 10 bustine;
- Paracetamolo + Codeina Angenerico "2,5 g + 0,150 g Sciroppo" - flacone da 120 ml.

La codeina è un oppiaceo che l'organismo trasforma in morfina, motivo per il quale viene utilizzato per lenire il dolore sia nei bambini che negli adulti. Tuttavia, alcune persone tendono a metabolizzare la sostanza più velocemente e in misura maggiore di altre, il che si traduce in un livello di morfina nell'organismo troppo elevato, con conseguente rischio di problemi respiratori anche gravi. Al di sopra dei 12 anni la sostanza può ancora essere utilizzata, ma per brevi periodi e solo nel caso in cui non possa essere sostituita da altre sostanze, come l'ibuprofene ad esempio. La Fda suggerisce comunque di tenere sotto stretto controllo il bambino che assume la sostanza per cogliere i primi segnali dell'overdose, ad esempio confusione, colorito azzurro delle labbra, sonnolenza e problemi di respirazione. In quel caso, si consiglia ovviamente di sospendere subito la somministrazione del farmaco e di condurre il bambino al pronto soccorso. Ma il divieto di utilizzo della codeina non riguarda solo i bambini. L'Aifa ha esteso anche ad altre categorie l'impossibilità di consumare tali farmaci:

- i ragazzi fra i 12 e i 18 anni che mostrino già problemi di respirazione;
- i ragazzi fra i 12 e i 18 anni che hanno subito un intervento chirurgico per l'asportazione delle tonsille o delle adenoidi;
- chi è già noto per essere un metabolizzatore ultra-rapido;
- le donne che allattano, perché la sostanza può arrivare al neonato attraverso il latte materno.

 

http://www.eurekalert.org/pub_releases/2014-08/ason-isr082014.php

http://www.ajnr.org/content/early/2014/08/07/ajnr.A4070

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/08/140820183944.htm

Venerdì, 16 Gennaio 2015 13:19

LA DOPPIA MASTECTOMIA NON SERVE.

16-01-2015

Asportare entrambe le mammelle riduce il rischio di un tumore al seno? Un nuovo studio riapre il dibattito sull'argomento dopo il clamore suscitato dalla scelta di alcuni personaggi famosi come Angelina Jolie e la cantante Anastacia, le quali hanno deciso di sottoporsi a duplice mastectomia per eliminare alla radice il problema e aumentare la propria aspettativa di vita. Una ricerca della Stanford University ha preso in esame i casi di 189mila donne californiane che nel corso degli anni sono state inserite nel Registro Tumori della California, un vasto archivio al quale i medici devono obbligatoriamente far riferimento e che serve appunto per studi di questo tipo. Nel 55 per cento dei casi, le donne sono state sottoposte a quadrantectomia e radioterapia, nel 40 per cento dei casi hanno fatto ricorso alla mastectomia del seno malato e il restante 5 per cento ha scelto la duplice mastectomia. Tuttavia, la percentuale è la media scaturita dall'analisi di un lasso di tempo molto ampio. Infatti, se fino al 1998 la duplice mastectomia era scelta solo dal 3,6 per cento delle donne sotto i 40 anni, nel 2011 questa percentuale è arrivata al 33%. I dati sulla sopravvivenza però danno torto a queste donne, dal momento che a dieci anni dall'intervento il 18,8 per cento delle pazienti è deceduto, mentre fra le donne che avevano scelto la quadrantectomia la percentuale si è fermata al 16,8.
La dott.ssa Allisona Kurian, che ha curato la metanalisi pubblicata su Jama, spiega: "adesso sappiamo, dati alla mano che le pazienti con cancro al seno, sottoposte a duplice mastectomia, non hanno una sopravvivenza migliore rispetto a chi sceglie la chirurgia conservativa". L'intervento, peraltro, non è esente da rischi, in quanto prevede tempi di recupero più lunghi e tassi di complicanze più elevati. Oltretutto, l'operazione può avere risvolti psicologici anche devastanti ed è anche molto costosa. Molto meno invasiva è la quadrantectomia. Ma allora perché le donne scelgono con sempre maggiore convinzione questo tipo di intervento? Una delle ragioni è legata alla scoperta di possedere una predisposizione genetica, ovvero sono positive all'alterazione dei geni Brca1 e Brca2, oppure perché hanno una storia familiare di malattia. Inoltre, c'è una ragione di tipo estetico, nel senso che le tecniche ricostruttive garantiscono una maggiore simmetria fra le due mammelle in caso di duplice mastectomia. Commentando la ricerca, la dott.ssa Lisa Newman dell'University of Michigan ad Ann Arbor sottolinea: "è comprensibile che una donna cui viene diagnosticato un tumore sia scossa emotivamente e non abbia la lucidità per recepire tutte le informazioni. Ecco perché il medico dovrebbe dare alla donna un pò di tempo per riflettere perché non compia scelte sull’onda dell’impulsività". Contrari alla tecnica anche alcuni colleghi della Newman che lavorano nello stesso ateneo. Lo studio, coordinato dalla dott.ssa Sarah Hawley, afferma che per il 70 per cento delle donne affette da carcinoma mammario la doppia mastectomia profilattica non avrebbe senso, dal momento che il rischio di recidiva è piuttosto basso.
La dott.ssa Hawley e i suoi colleghi hanno analizzato 1.447 donne trattate per cancro al seno e senza recidive per i successivi quattro anni. Fra queste, l'8 per cento aveva subito una duplice mastectomia, mentre un altro 18 per cento ne aveva considerato la possibilità. "I chirurghi stanno per la maggior parte cercando di scoraggiare le pazienti a sottoporsi a questa procedura, ma sono le pazienti a richiederla – spiega la dott.ssa Hawley –. Ho trovato chirurghi che mi hanno riferito che le pazienti hanno detto loro che si sarebbero rivolte a un altro chirurgo, se non l’avessero operate". Anche uno studio dell'Università del Minnesota concorda con le conclusioni della ricerca firmata da Hawley. I ricercatori del Dipartimento di Oncologia dell'ateneo statunitense ritengono infatti che l'opzione chirurgica in questo caso non sia auspicabile. Gli scienziati hanno condotto uno studio su donne prive della mutazione del gene Brca. Sono stati confrontati i dati relativi alle donne che avevano subito la mastectomia profilattica controlaterale (CPM) con quelli di altri soggetti che avevano avuto il cancro al seno in stadio precoce in una mammella senza intervento di profilassi per rimuovere l'altro seno. In totale, i casi analizzati ammontavano a più di 100mila. Grazie a un'analisi metodica dei dati anche in relazione all'età e ad altri fattori, i ricercatori sono giunti alla conclusione che le donne che si sottopongono a mastectomia profilattica controlaterale possono sperare al massimo di guadagnare 6 mesi di vita grazie a questa drastica scelta. Prima di scegliere di subire un intervento del genere, quindi, sarebbe bene considerare il piccolo beneficio che si avrebbe a fronte dei costi, soprattutto a livello psicologico, che lo stesso comporta per le donne.

 

http://www.independent.co.uk/life-style/health-and-families/health-news/double-mastectomies-may-not-reduce-cancer-survival-rates-study-shows-9707089.html

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/09/140902171150.htm

http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1900512

http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1900491

http://www.mcancer.org/news/archive/most-women-who-have-double-mastectomy-dont-need-it

http://media.jamanetwork.com/news-item/study-examines-prophylactic-double-mastectomy-following-breast-cancer-diagnosis/

http://www.medicaldaily.com/preventive-double-mastectomy-after-cancer-diagnosis-doesnt-always-reduce-risk-breast-cancer-283812

16-01-2015

Ho trattato più volte l'argomento del morbo di Parkinson, patologia neurodegenerativa caratterizzata da forti tremori al braccio, rigidità muscolare e calo delle capacità cognitive. Tale malattia è sicuramente oggetto delle più avanzate ricerche che mirino a trovare una terapia che possa arrestarne il decorso: molti scienziati vorrebbero mettere la parola fine a questo terribile morbo, che tra gli altri ha colpito anche personaggi famosi quali Papa Giovanni Paolo II, Muhammad Ali e Michael J. Fox. Quest'ultimo, in particolare, ha iniziato ad accusare i primi sintomi all'età di 23 anni, ed è oggigiorno in prima linea per raccogliere fondi destinati alla ricerca di nuove terapie.
Gli attuali medicinali, sebbene non possono arrestarla, vengono assunti in maniera precipua per cercare di rallentare il decorso della malattia e migliorare di conseguenza la qualità della vita del paziente. Il più famoso, chiamato Levodopa, mira a fornire le quantità necessarie di dopamina, neurotrasmettitore carente nel malato di Parkinson, al cervello, introducendo L-Dopa, principio attivo precursore della dopamina, nell'organismo. Tra i possibili effetti collaterali della levodopa va ricordata la comparsa di ipotensione e discinesia. Un altro farmaco ampiamente utilizzato in caso di Parkinson è la Rasagilina: agisce bloccando l'enzima monoaminoossidasi-B, responsabile della degradazione della dopamina, sia quella naturale che quella introdotta grazie alla Levodopa, a livello cerebrale. La sua particolare funzione consente di contrastare la rigidità e la lentezza dei movimenti: ma ovviamente anch'esso presenta effetti collaterali possibili, tra cui comparsa di allucinazioni, cefalea, vertigini e... insorgenza di orgasmi multipli.
Quest'ultima tragicomica caratteristica non era ancora conosciuta fino a qualche giorno fa, quando una paziente di 42 anni è stata ricoverata in ospedale dopo aver accusato un netto aumento della libido. In particolare, la donna ha affermato di aver avuto dai 3 ai 5 orgasmi al giorno, di una durata media di 20 secondi, per un'intera settimana. Il suo caso è stato seguito dalla Necmettin Erbakan University di Konya, in Turchia, ed è finito sulla rivista specializzata Parkinsonism and Related Disorders. Non vi è sicurezza circa la ragione della comparsa di un tanto peculiare effetto collaterale, ma si è portati a credere che sia proprio l'aumento della dopamina indotto dalla terapia a questa patologia ad aver scatenato l'ipereccitazione nella donna: questo neurotrasmettitore è infatti coinvolto negli stimoli che creano motivazione e ricompensa, quali buon cibo, utilizzo di sostanze stupefacenti e, naturalmente, sesso di qualità.

 

http://www.livescience.com/47208-spontaneous-orgasms-parkinsons-drug-rasagiline.html

http://www.medicaldaily.com/parkinsons-drug-rasagiline-linked-spontaneous-and-unwanted-orgasms-42-year-old-patient-297546

http://www.dailymail.co.uk/health/article-2717794/Woman-suffers-FIVE-spontaneous-orgasms-day-taking-Parkinsons-drug.html

16-01-2015

Un largo studio pubblicato sull’European Heart Journal (la rivista dell’European Society of Cardiology) mostra che i tassi d’incidenza delle morti per malattie cardiovascolari e ictus in Europa sono in calo, tuttavia i dati rivelano che vi sono vistose differenze da nazione a nazione, con i Paesi dell’Est come la Russia e l’Ucraina che hanno un tasso mortalità di molto maggiore che non, per esempio, quello della Francia. Allo stesso modo, se da un lato calano i decessi per le malattie cardiovascolari, aumentano quelli per cancro in diverse nazioni. E’ l’aggiornamento per il 2014 dei dati relativi all’impatto sui tassi d’incidenza dei decessi per le malattie cardiovascolari (CVD) in Europa, a dimostrare come questi variano enormemente da Paese a Paese. Per esempio, in alcuni dell’Europa orientale, tra cui Russia e Ucraina, il tasso di mortalità coronariche e malattie cardiache tra le persone di età compresa tra i 55 e i 60 anni è maggiore del tasso equivalente in Francia per le persone vent’anni anni più vecchie. Nella fattispecie, comprendendo le rettifiche per i tassi di mortalità per CVD negli uomini e nelle donne di tutte le età, questi sono stati 6 volte superiori in Russia rispetto alla Francia. Questi due Paesi, se vogliamo, rappresentano rispettivamente i primi in classifica in negativo e positivo. Nel 2010 in Russia, per ogni 100mila persone, sono morti 915 uomini e 517 donne, mentre i tassi equivalenti in Francia erano rispettivamente di 150 e 87 ogni 100mila. Nel Regno Unito, invece, i tassi di mortalità per CVD nel 2010 erano di 205 uomini e 129 donne ogni 100mila persone.
Nel complesso, le CVD rimangono la singola, più grande causa di morte tra gli europei rispetto a qualsiasi altra malattia, e in alcuni Paesi provoca il doppio dei morti rispetto al cancro. Ma ci sono delle eccezioni: è il caso di Belgio, Danimarca, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia, Spagna e San Marino dove il cancro è causa di un numero maggiore di morti tra gli uomini rispetto alle CVD. Infine, per la prima volta, in Danimarca il cancro ha ucciso un numero maggiore di donne, che non le malattie cardiovascolari. «La ragione per cui il cancro ha superato le malattie cardiovascolari come causa principale di morte in questi Paesi è dovuta al fatto che un minor numero di persone sviluppano malattie cardiovascolari e, tra quelli che lo fanno, sono in meno a morire – spiega il dott. Nick Townsend, ricercatore senior presso il BHF Centre on Population Approaches for Non-Communicable Disease Prevention e coautore dello studio – Ciò è probabilmente dovuto al miglioramento dei fattori comportamentali di rischio associati con le CVD, come per esempio la diminuzione del numero di persone con il vizio del fumo, insieme a trattamenti migliori, tra cui le azioni preventive come il crescente uso di statine. Tuttavia, gli aumenti di alcuni fattori di rischio, quali l’incremento dei livelli di obesità, suggeriscono che queste tendenze decrescenti possono essere in pericolo di inversione».
Il team di ricercatori, guidati dalla dott.ssa Melanie Nichols – Research Associate al British Heart Foundation Centre on Population Approaches for Non-Communicable Disease Prevention dell’Università di Oxford (UK) – ha esaminato le tendenze della mortalità da CVD per un periodo di dieci anni, partendo dall’anno più recente disponibile, che era il 2010 o il 2012 per la maggior parte dei Paesi. Dei 53 Paesi europei, ne sono stati analizzati 52, poiché mancava Andorra. Di questi, i ricercatori hanno rilevato il numero totale di decessi per tutte le età, e anche a quelli che potrebbero essere classificati come “prematuri”, ossia quelli avvenuti prima dei 65 anni e quelli prima dei 75. I dati relativi al più recente anno disponibile hanno dimostrato che ci sono stati poco più di quattro milioni di morti (1,9 milioni di uomini e 2,2 milioni di donne) causati dalle CVD, arrivando a toccare la metà di tutti i decessi in Europa. Più in dettaglio, 1,8 milioni di queste morti erano attribuibili a malattia coronarica, 1 milione a malattia cerebrovascolare (ictus) e 1,2 milioni ad altre malattie cardiovascolari. Poco meno di 1 milione di uomini sono morti prima dei 75 anni e mezzo milione prima dei 65 anni. Sono invece mezzo milione le donne che sono morte prima dei 75 anni d’età e poco più di 200mila prima dei 65 anni. Tre su dieci decessi di cittadini europei di età inferiore ai 65 sono stati causati da CVD, così come lo erano il 37% di tutti i decessi che si verificano prima dei 75 anni d’età. «La percentuale di donne che muoiono per malattie cardiovascolari è molto maggiore rispetto agli uomini: il 51% delle donne è morto rispetto al 42% degli uomini– sottolinea il dottor Townsend – Questa differenza è guidata principalmente da un più alto tasso di ictus e altre malattie cardiovascolari tra le donne. C’era invece poca differenza nei tassi di malattia coronarica tra uomini e donne: rispettivamente il 20% contro il 21%». «In tutto il mondo, ci sono stati alcuni momenti nella storia in cui le NCD [malattie non trasmissibili] hanno goduto di un posto di rilievo nell’attenzione mondiale, con le malattie cardiovascolari in prima linea. Nonostante ciò, c’è stato poco impegno a livello nazionale o regionale in un maggiore monitoraggio e nella comunicazione dei fattori di rischio e gli esiti per le malattie cardiovascolari. E’ chiaro che in molti Paesi d’Europa, la mortalità da CVD ha continuato a diminuire notevolmente negli ultimi anni, e darà un grande contributo al raggiungimento di questo obiettivo. In questi Paesi (soprattutto quelli ad alto reddito), si sta arrivando rapidamente a un punto di svolta, laddove i decessi per cancro saranno più numerosi dei decessi per malattie cardiovascolari, in particolare tra gli uomini. In molti altri Paesi, tuttavia, il peso delle CVD sminuisce quello del cancro, e una gran parte della popolazione perderà la vita prematuramente per malattie cardiache e ictus», concludono gli autori.

 

http://eurheartj.oxfordjournals.org/content/35/42/2950

14-01-2015

I ricercatori della Lund University hanno pubblicato nuovi risultati della ricerca sul ruolo della barriera intestinale nella sclerosi multipla (MS). La scienza medica non ha ancora accertato come la sclerosi multipla si sviluppa o perché il sistema immunitario attacca le cellule del sistema nervoso centrale. L’infiammazione che ostacola il trasporto di impulsi neurali, si sviluppa per un motivo ancora sconosciuto. Questo può produrre i vari sintomi fisici e mentali, tra cui una perdita di sensibilità, difficoltà motorie, visione offuscata, vertigini e stanchezza. Il presente studio indaga se la funzione dell’intestino è compromessa nella MS. I risultati, ottenuti da un modello della malattia, mostra precoce sviluppo di infiammazione e cambiamenti nella funzione della barriera dell’intestino, nel corso della malattia. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica PLoS One.
“Sappiamo che la permeabilità dell’intestino alle sostanze nocive è presente in malattie infiammatorie croniche intestinali come il morbo di Crohn e la colite ulcerosa, così come in alcune altre malattie autoimmuni come il diabete di tipo 1. La condizione si chiama ‘sindrome della permeabilità intestinale". I nostri studi indicano un aumento della permeabilità intestinale e infiammazione della mucosa intestinale e tessuto linfoide correlati, prima che i sintomi clinici della sclerosi multipla siano riconoscibili. Sembra anche che l’infiammazione aumenta, man mano che si sviluppa la malattia“, ha spiegato Shahram Lavasani, uno degli autori dello studio.
Il Dr Lavasani ed i suoi colleghi dell’Università di Lund hanno già dimostrato che i batteri probiotici potrebbero dare un certo grado di protezione contro la SM. Essi si sono quindi chiesti se la barriera intestinale è influenzata dalla malattia ed hanno deciso di indagare le cellule infiammatorie ed i processi a livello intestinale. L’ipotesi è stata testata in un progetto di ricerca in collaborazione con il professor Björn Westrom della Mehrnaz Nouri. “Con nostra sorpresa, abbiamo osservato cambiamenti strutturali nella mucosa del piccolo intestino e un aumento delle cellule T infiammatorie, in particolare Th1 e Th17. Allo stesso tempo, abbiamo visto una riduzione delle cellule immunosoppressive, note come T-cellule regolatorie. Questi cambiamenti sono spesso legati a malattie infiammatorie croniche intestinali e molecole biologicamente attive prodotte da Th1 e Th17, e si ritiene siano alla base del danno dell’intestino”. Processi neuroinfiammatori nella sclerosi multipla, portano a danni e perdite nella barriera emato-encefalica che protegge il sistema nervoso centrale e regola il trasporto di cellule. I ricercatori hanno osservato danni simili nella barriera intestinale, in particolare nelle “giunzioni strette” che legano insieme le cellule della mucosa intestinale. Essi hanno dimostrato che questi danni sono collegati alle cellule T specifiche della malattia.
“Nella maggior parte dei casi, non sappiamo che cosa innesca le malattie autoimmuni, ma sappiamo che le cellule patogene spesso disturbano l’intestino. Un intestino permeabile permette ai batteri nocivi e sostanze tossiche nel corpo, di entrare nell’intestino e creare ancora più infiammazione. I nostri risultati forniscono il supporto all’idea che una barriera intestinale danneggiata può impedire al corpo di terminare una reazione autoimmune nel modo normale, portando ad una malattia cronica come la SM “, ha detto il dottor Lavasani. Shahram Lavasani ed i suoi colleghi ritengono che i farmaci in futuro, per curare questo tipo di malattia, dovrebbero forse non solo concentrarsi sul sistema nervoso centrale, ma anche sull’intestino da riparare, per restaurare la barriera intestinale. “Nel lungo periodo, ci auguriamo che i nostri risultati possano portare ad una migliore comprensione di ciò che realmente accade nello sviluppo della sclerosi multipla. Guardando ancora di più al futuro, speriamo nello sviluppo di un trattamento migliore che mira alla barriera intestinale come nuovo target terapeutico”.

 

http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0106335

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/09/140904084603.htm

 

14-01-2015

Avete problemi con il sonno? La soluzione potrebbe essere semplicemente quella di mangiare un piatto di riso a cena. A dirlo una nuova ricerca giapponese, secondo cui questo alimento sarebbe più indicato di altri se si vuole godere di un buon sonno ristoratore. Ad arrivare a questa conclusione è stato uno studio condotto presso la Kanazawa Medical University e pubblicato su Plos One. I ricercatori hanno analizzato un campione di oltre 1800 persone di entrambi i sessi tra i 20 e i 60 anni considerando il regime alimentare che seguivano e la qualità del loro sonno. In particolare i partecipanti dovevano segnalare tutte le volte in cui mangiavano pane, riso o altri carboidrati, mentre per quanto riguarda la qualità del loro sonno avevano a disposizione una scala di riferimento su standard internazionale (Pittsburgh Sleep Quality) che viene comunemente utilizzata in questo tipo di ricerche. Alla fine dell’esperimento si è potuto notare che le persone che mangiavano più spesso riso (soprattutto a cena) rispetto ad altri tipi di carboidrati erano anche quelle che dormivano meglio. Perché? La risposta data dagli scienziati è molto semplice: il riso ha un indice glicemico alto e più velocemente, rispetto agli altri carboidrati, aumenta i livelli di triptofano precursore della serotonina, “ormone del buon umore” che tra le sue varie funzioni ha anche quella di aiutare il riposo notturno. Ovviamente se si soffre di disturbi del sonno è consigliabile, secondo la ricerca, consumare riso a cena. In questo modo, infatti, il triptofano può agire direttamente al momento giusto, fin da qualche ora prima di andare a dormire.

 

http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0105198

Mercoledì, 14 Gennaio 2015 12:54

IL DNA SI PROTEGGE RESTANDO IN PIEDI.

14-01-2015

Non volete invecchiare? Allora state in piedi. Secondo uno studio pubblicato sul British Journal of Sports Medicine da un team del Karolinska Institutet di Stoccolma la posizione eretta aiuterebbe a proteggere il DNA dal processo di invecchiamento. A beneficiarne sarebbero in particolare i telomeri, gli ormai celebri "cappucci" situati nella parte finale dei cromosomi. I telomeri corti sono associati all'invecchiamento precoce, all'insorgenza di varie patologie e alla morte prematura. Il ricercatore che ha coordinato lo studio, Mai-Lis Hellenius , spiega: "noi ipotizziamo per le persone anziane a rischio che una riduzione del tempo trascorso seduti è di maggior importanza rispetto all'aumento del tempo trascorso a fare esercizio fisico".
Gli scienziati hanno analizzato 49 adulti in sovrappeso e sedentari dai 60 anni in poi, verificando la lunghezza dei loro telomeri nelle cellule del sangue. La metà del campione si è sottoposta a un programma di esercizi fisici della durata di 6 mesi, e il livello di attività è stato misurato attraverso un diario e un contapassi. Il tempo trascorso seduti, invece, è stato calcolato sulla base di un questionario. I risultati hanno evidenziato condizioni di salute migliori per chi aveva fatto maggiore attività fisica, ma il fattore di gran lunga più importante era il tempo trascorso seduti. C'è un rapporto inversamente proporzionale fra il tempo passato seduti e la lunghezza dei telomeri. Di conseguenza, più tempo passiamo in piedi meglio è per i nostri telomeri. Del resto, il fatto che la posizione eretta sia una conquista relativamente recente per l'uomo può contribuire a spiegare, almeno in parte, il progressivo allungamento della vita media che ha caratterizzato l'evoluzione umana nel corso dei secoli.

 

http://www.telegraph.co.uk/news/science/science-news/11073662/How-standing-might-be-the-best-anti-ageing-technique.html

http://www.medicaldaily.com/stand-your-health-sitting-less-and-moving-more-protects-dna-aging-301222

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25185586

14-01-2015

È sempre merito del nostro caro, vecchio, licopene – un antiossidante presente in dosi elevate nel pomodoro – se il cancro alla prostata si verifica con minor incidenza nei soggetti che consumano buone quantità di tale alimento. Lo studio che attesta ancora una volta le qualità del licopene è stato pubblicato su Cancer Epidemiology, Biomarkers and Prevention, ed è il primo del suo genere ad aver sviluppato una sorta di indice dietetico contro il cancro alla prostata. Tra i cibi più importanti ci sono quelli ricchi di selenio, calcio e, ovviamente, licopene. Quando questi nutrienti venivano introdotti con maggior misura nell’organismo il rischio di cancro alla prostata diminuiva. In pole position alla lista ci sono pomodori e derivati, e i fagioli, che hanno dimostrato di essere importanti per indurre una riduzione di quasi il 18% di sviluppare il cancro alla prostata. Ricordiamo che tale tipo di malattia è il secondo tumore più comune negli uomini di tutto il mondo. Il rischio viene tuttavia ridotto consumando almeno dieci porzioni di pomodoro a settimana.
Secondo la ricercatrice Vanessa Er dell’Università di Bristol, i risultati dello studio suggeriscono che i pomodori siano particolarmente importanti nella prevenzione del cancro alla prostata, tuttavia, precisa, dovranno essere condotti ulteriori studi a conferma di tali risultati, soprattutto per quanto riguarda la sperimentazione sugli esseri umani. Il suo consiglio – destinato agli uomini di tutto il mondo – è quello di mangiare una grande varietà di frutta e verdura, mantenendo un peso adeguato, magari aiutandosi con della sana attività fisica. Poiché si tratta di un tumore mortale – ribadisce Er – vi è l’urgente necessità di sviluppare ulteriori raccomandazioni dietetiche. Ecco dunque un altro buon motivo per portare in tavola il pomodoro che già diversi studi hanno indicato essere benefico per la salute: è il caso dei componenti di questo frutto che combattono le malattie cardiovascolari, oppure delle proprietà utili per sviluppare i muscoli o, ancora, della possibilità di ridurre il rischio di cancro al seno e, infine, bere succo di pomodoro per un pieno d’energia o combattere la depressione. Insomma, con i pomodori in tavola vai tranquillo: ti assicuri gusto e salute. Lo studio è stato condotto in collaborazione con i ricercatori delle Università di Oxford e Cambridge.

 

http://www.bristol.ac.uk/news/2014/august/tomatoes-prostate-cancer.html

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/08/140827100218.htm

14-01-2015

Secondo uno studio di coorte, pubblicato su British Medical Journal, l’impiego di claritromicina, unica tra tutti i macrolidi, sarebbe associato ad un aumento del 76% della mortalità cardiaca. E’ un allarme di non poco rilievo, considerato che sono quantificabili in milioni le prescrizioni annuali di questo antibiotico in tutto il mondo. Gli autori dello studio invitano loro stessi ad utilizzare con prudenza i risultati del loro studio, nel guidare le decisioni cliniche, in attesa di ulteriori conferme, ma intanto lanciano l’allarme. Il rischio di mortalità cardiaca sempre associato al fatto che alcuni antibiotici della classe dei macrolidi interferiscono con i canali rettificanti del potassio ritardati; questo provoca un accumulo di ioni potassio all’interno dei cardiomiociti, che a sua volta induce un ritardo della ripolarizzazione cardiaca. Il risultato di tutto ciò sull’ECG, è il prolungamento dell’intervallo QT, una condizione che espone al rischio di aritmie fatali, quali la torsade de pointes (torsione di punta).
Partendo da queste considerazioni, gli autori dello studio sono andati a valutare il rischio di mortalità cardiaca associato alla somministrazione di due macrolidi, claritromicina e roxitromicina, paragonandolo a quello della penicillina V. Utilizzando dei database danesi, sono stati individuati oltre 5 milioni di trattamenti somministrati ad una popolazione di pazienti adulti tra il 1997 e il 2011 (160.297 trattamenti a base di claritromicina, 588.988 con la roxitromicina e 4.355.309 con la penicillina V). Da quest’analisi sono state escluse le persone in condizioni già molto compromesse di base. Nel periodo preso in esame si sono verificati 285 decessi per cause cardiache; 18 casi in pazienti in trattamento con claritromicina, 32 casi in soggetti trattati con la roxitromicina. Dopo aver effettuato gli opportuni aggiustamenti statistici, il rischio di mortalità cardiovascolare per la claritromicina è risultato superiore del 76%rispetto alla penicillina. Tale rischio risultava inoltre presente solo in corso di trattamento e non dopo la sua sospensione. In termini assoluti, il rischio di mortalità è stato quantificato dagli autori come 37 decessi per cause cardiache ogni milione di trattamenti con la claritromicina; un rischio certamente non di enorme entità che va tuttavia rapportato – ammoniscono gli autori – al diffuso impiego che si fa di questo antibiotico. In questa prospettiva, dunque il numero di morti evitabili potrebbe non essere trascurabile. E per questo, gli autori auspicano una pronta conferma di questo dato, attraverso ulteriori analisi condotte su altre popolazioni.

 

http://www.bmj.com/content/349/bmj.g4930

http://www.telegraph.co.uk/health/healthnews/11043045/Common-antibiotic-linked-to-sudden-heart-deaths.html

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/08/140819200059.htm

http://www.eurekalert.org/pub_releases/2014-08/bmj-cal081514.php

Lunedì, 12 Gennaio 2015 13:21

NEGLI SPINACI IL SEGRETO PER DIMAGRIRE.

12-01-2015

Un composto contenuto all'interno degli spinaci mostra la capacità di ridurre l'appetito. Si chiama Tilacoide ed è stato scoperto dai ricercatori dell'Università di Lund guidati dalla prof.ssa Charlotte Erlanson-Albertsson. Il composto rallenta la digestione degli alimenti producendo un senso di sazietà più prolungato nel tempo. L'ipotesi della scienziata è che la sostanza a livello intestinale metta in moto un meccanismo con lo scopo di ridurre il senso di fame. L'aspetto curioso della faccenda è che non è sufficiente mangiare gli spinaci così come sono, ma bisogna schiacciarli, filtrarli e centrifugarli affinché liberino il composto contenuto nelle cellule della pianta. I Tilacoidi rallentano la digestione dei grassi. Una volta introdotti nell'intestino crasso, gli ormoni della sazietà vengono rilasciati e inviati al cervello. Quest'ultimo, quindi, ci avverte che non è necessario mangiare ancora, un meccanismo che non si attiva con gli alimenti elaborati che utilizzano soprattutto l'intestino superiore.
La ricercatrice ha testato il composto su un gruppo di 15 volontari che hanno assunto l'estratto ogni mattina. Durante il giorno, i soggetti riferivano di avvertire meno fame e un minor desiderio di cibo. Rispetto a un gruppo di controllo, inoltre, i 15 volontari mostravano nel sangue livelli molto più alti di ormoni della sazietà e valori più stabili di glucosio ematico. Secondo la ricercatrice svedese l'effetto dei Tilacoidi è comunque riconducibile a diversi principi attivi: “esso contiene centinaia di sostanze: galattolipidi, proteine, vitamina A, E, K, antiossidanti, beta-carotene, luteina, e così via”, spiega la prof.ssa Erlanson-Albertsson.

 

http://www.med.lu.se/english/news_archive/140311_spinach_extract_curbs_apetite

 

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