Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

03-01-2015

Una dieta ricca di carboidrati può aumentare il rischio di sviluppare il cancro del colon-retto. Negli ultimi anni sono state raccolte molte informazioni sui meccanismi che portano alla formazione di questo tumore: infiammazioni intestinali croniche, una dieta scorretta e più recentemente il microbiota (quella comunemente nota come “flora intestinale”, cioè i batteri che popolano l’intestino) sono stati individuati come fattori che giocano un ruolo determinante. Ora una ricerca dell’Università di Toronto, condotta su cavie di laboratorio e pubblicata su Cell, ha cercato di fare chiarezza sulle “relazioni pericolose” tra microbiota, infiammazione e alimentazione che possono favorire le mutazioni genetiche che scatenano poi un carcinoma colorettale. I carboidrati rappresentano circa la metà dell’apporto calorico giornaliero nella dieta occidentale: diversi studi avevano già collegato un elevato consumo di carboidrati al cancro del colon-retto. È stato dimostrato che da limitare sulle nostre tavole sono i carboidrati troppo raffinati (per esempio farina “0” o “00”, riso bianco) a favore di quelli integrali e le patate. È poi importante avere familiarità con l’indice glicemico, un numero che indica quanto un cibo alza i livelli di glicemia rispetto a un altro poco dopo aver mangiato: il carico glicemico alto deriva da una dieta con molti cibi che provocano una rapida salita nel tasso di zucchero nel sangue, come appunto quelli ricchi di farina bianca, le patate e i dolci.
Il tumore del colon-retto è anche frequentemente associato con le mutazioni in un gene anticancro chiamato Apc nonché del gene MSH2, che svolge un ruolo fondamentale nella riparazione del danno del Dna. I ricercatori ipotizzano che l’interazione dei microbi intestinali con la dieta possa spiegare queste mutazioni, più comuni in questo tipo di tumore che in altri. Gli scienziati hanno utilizzato cavie che avevano le mutazioni dei geni APC e MSH2, quindi predisposti a sviluppare il cancro del colon-retto. Quando erano trattati con antibiotici o venivano alimentati con una dieta povera di carboidrati la proliferazione delle cellulare “killer”, il numero di tumori nell’intestino tenue e nel colon, subivano una diminuzione. I due trattamenti avevano anche ridotto i livelli di alcuni microbi intestinali che metabolizzano i carboidrati per produrre un acido grasso chiamato butirrico. La controprova del legame tra consumo di carboidrati e aumento di tumore del colon-retto è avvenuta quando gli scienziati hanno aumentato livelli di acido butirrico nei topi trattati con antibiotici: le proliferazione cellulare e i tumori sono tornati a crescere. La conclusione che ne hanno tratto è dunque che i metaboliti prodotti da microbi dell’intestino durante la trasformazione dei carboidrati aumentato una proliferazione cellulare anomala di cellule e lo sviluppo del tumore nei topi geneticamente predisposti al cancro del colon-retto. «Abbiamo stabilito un collegamento diretto - conclude Alberto Martin, autore della ricerca - tra la genetica e la popolazione microbica intestinale, i nostri risultati suggeriscono quindi che una dieta a basso contenuto di carboidrati potrebbe essere utile per i soggetti che sono geneticamente predisposti al cancro del colon-retto.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25036629

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/07/140717124836.htm

http://www.medicaldaily.com/how-carbs-contribute-colon-cancer-intestinal-flora-turns-them-tumors-293644

03-01-2015

Sulla soia si discute ancora molto, al di là del suo essere o meno OGM, questo alimento fa bene, fa male, va consumato con moderazione? Uno studio dell’Università del Connecticut ci fornisce una indicazione in più: la soia sarebbe da evitare in particolare per gli uomini sportivi che utilizzano le proteine di questo legume come integratore in quanto inibirebbe il testosterone. I ricercatori americani hanno analizzato gli effetti delle proteine della soia confrontate con il siero di latte su livelli di testosterone e cortisolo, in seguito ad un allenamento in palestra. Quello che si è visto è che assumere soia riduceva i livelli di testosterone e aumentava invece quelli di cortisolo. Una combinazione pericolosa che può far emergere malattie alla tiroide, disturbi del sonno, diminuzione delle capacità sessuali e problemi riproduttivi oltre che il fenomeno della "femminilizzazione" ovvero la comparsa di caratteristiche femminili come l'aumento del seno.
La ricerca in realtà si è svolta su un campione molto piccolo: 10 volontari di età media 20 anni che si allenavano abitualmente con i pesi. Questi sono stati divisi in tre gruppi: al primo veniva fatto assumere un integratore di proteine del siero di latte isolate, al secondo proteine della soia isolate e al terzo gruppo un placebo. Nessuno poteva assumere altri integratori e sono stati eliminati dall’esperimento vegetariani, vegani o chi seguiva diete iperproteiche. Per due settimane i partecipanti hanno assunto 20 grammi del supplemento loro assegnato ogni mattina alla stessa ora. Dopo ciascuno doveva compiere alcuni esercizi di sollevamento pesi particolarmente impegnativi. Alla fine del periodo di 14 giorni i ricercatori hanno raccolto i dati che riguardavano gli ormoni di tutti i partecipanti e infine fatto un confronto. Si è visto così che chi aveva assunto le proteine della soia dopo due settimane aveva livelli di testosterone sierico più bassi: “Il testosterone potrebbe sembrare solo una cosa da “macho”, ma è un ormone fondamentale per la crescita, la riparazione, la formazione dei globuli rossi, una buon sonno e la funzione immunitaria, oltre alle funzioni sessuale" hanno sottolineato i ricercatori. Questo effetto negativo sul testosterone sarà riscontrabile anche con un consumo moderato di soia alimentare? Attendiamo nuovi studi che chiariscano meglio e più approfonditamente la questione!

 

http://www.naturalnews.com/046039_soy_protein_testosterone_depletion_feminization.html

http://www.sciencedaily.com/releases/2013/10/131010091557.htm

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed?term=the%20effects%20of%20soy%20and%20whey%20protein%20supplementation%20on%20acute%20hormonal%20responses%20to%20resistance%20exercise%20in%20men&cmd=correctspelling

03-01-2015

L’esposizione solare potrebbe creare una vera e propria dipendenza. I raggi solari avrebbero le stesse capacità degli oppiacei nell’attivare la produzione di oppioidi, cosa che avviene nell’organismo umano, che sotto i raggi del sole viene stimolato alla produzione di endorfine. L’esposizione regolare ai raggi UV quindi, farebbe aumentare la produzione di beta-endorfine, la cui interruzione brusca provocherebbe vere e proprie crisi d’astinenza. Lo dimostrerebbero i risultati di un recente studio, condotto dai ricercatori del Massachusetts General Hospital su cavie da laboratorio, esposte ogni giorno per sei settimane all’equivalente di circa 30 minuti di sole della Florida a mezzogiorno.
La produzione di endorfine è stata costante durante tutto il periodo dell’esperimento e poi è diminuita gradualmente. Ad alcuni topi però, è stata somministrata una speciale sostanza capace di bloccare bruscamente la produzione di endorfine e in quel caso i roditori hanno manifestato i sintomi di vere e proprie crisi d’astinenza. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Cell, potrebbero spiegare perché, nonostante tutti i moniti e gli avvertimenti, i “malati” della tintarella perseverano nell’abitudine di esporsi selvaggiamente al sole, incuranti dei pericoli per la propria salute.

 

http://www.niams.nih.gov/News_and_Events/Spotlight_on_Research/2014/tanning.asp

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/06/140619125202.htm

http://www.eurekalert.org/pub_releases/2014-06/cp-fhc061214.php

03-01-2015

Quando facciamo la spesa siamo soliti accumulare sul ripiano del lavandino tutti gli alimenti che debbono essere lavati, in modo da averli a portata di mano appena le altre incombenze ci permetteranno di poterli poi lavare e conservare in frigorifero. Può capitare che in questa situazione prepariamo il pranzo, magari a base di pollo, e che siano coscette o petti di pollo la prima cosa che tutti facciamo è quella di lavare la carne prima di metterla a cuocere in padella o in un tegame. Errore gravissimo! Una pubblicazione della Food Standards Agency sconsiglia vivamente di procedere a questa operazione ma suggerisce di porre direttamente il pollo a cuocere nel suo recipiente senza lavaggio preventivo.
I motivi addotti sono molto validi, scopriamoli: oltre il 50% della carne di pollo posta in commercio contiene batteri, che siano quelli della salmonella, più rari, o del campylobacter, molto più comune, niente che una buona cottura non riesca ad eliminare con facilità. Se però laviamo il pollo, è inevitabile che l'acqua che lo colpisce schizzi in giro sul lavello o sui ripiani, facilitando in questo modo la diffusione dei batteri presenti nel pollo, e non dimentichiamo la verdura e la frutta che abbiamo messo sul lavello e che attende di essere lavata! L'acqua fredda non è assolutamente in grado di rimuovere i batteri presenti e tantomeno di eliminarli, ma in questo caso costituisce soltanto un comodo "mezzo di trasporto" per i batteri, che potrebbero così infettare altri alimenti che non vengono cotti prima del consumo, come succede appunto per la frutta e per l'insalata, e non dimentichiamo le mani! Tra gli effetti del campylobacter, contenuto nell'intestino del pollo, e facile a diffondersi anche nella carne grazie al procedimento della macellazione del pollo, ci sono sintomi simili alla gastroenterite, malessere generale, crampi allo stomaco, diarrea e febbre, decisamente spiacevole! Sarà difficile rinunciare ad un'abitudine seguita anche dalle nostre nonne, ma certamente una cottura senza lavaggio, anche se a prima vista potrebbe sembrare molto meno igienica, è invece, nel caso del pollo, certamente la più appropriata.

 

http://www.telegraph.co.uk/health/healthnews/7906943/Washing-chicken-increases-food-poisoning-risk.html

http://food.ndtv.com/food-drinks/dont-wash-chicken-before-cooking-it-warns-food-standards-agency-695445

01-01-2015

Suadente, elegante, gentile. Sempre pronto a soddisfare qualsiasi richiesta epidemiologica. È l’informatore medico-scientifico, che è prodigo di consigli e statistiche per il medico (ospedaliero o di famiglia) che gli presta attenzione. Un’attività lecita, spesso interessante per conoscere i risultati della ricerca farmacologica. Un'attività dalla quale però il medico difficilmente riesce a liberarsi: congressi in lussuose residenze, pranzi e lusinghe. Tutto lecito ma il rischio di prescrivere il farmaco di una marca rispetto ad altro (a parità di efficacia) c’è. E così un medico irlandese ha provato a divorziare dal mondo farmaceutico raccontando la sua esperienza a un giornale scientifico senza evitare di descrivere l’amarezza riscontrata per una scelta difficile e coraggiosa.
Cosa succede quando si slega il guinzaglio che lega i medici alle case farmaceutiche? L’esperimento è stato raccontato sul British Medical Journal dal dottor Shane O’Hanlon, specialista in medicina geriatrica, presso il Mercy University Hospital di Cork in Irlanda. L’uomo ha deciso di tenersi lontano per un anno dai rappresentanti, dal materiale promozionale e dagli eventi sponsorizzati dalle case farmaceutiche. L’esperimento è stato duro (racconta il medico), difficilissimo sfuggire alle malie dei rappresentanti e dei “doni”, in viaggi e gadget, offerti dalle aziende, ma è riuscito, tanto che alla fine il medico ha deciso di continuare così nel suo divorzio dalle case farmaceutiche: «Non ho rimpianti - racconta O’Hanlon - adesso faccio le mie scelte prescrittive in base a mie ricerche personali, e ho maturato un sano scetticismo nei confronti dei suggerimenti prescrittivi dei miei colleghi. Ho capito che è impossibile evitare del tutto le promozioni farmaceutiche ma se ne può minimizzare l’influenza».
Visite in studio dei rappresentanti con campioni omaggio e altre proposte, materiale promozionale ovunque, pubblicità sui giornali medici e poi i convegni con sessioni ad hoc organizzate dalle aziende per pubblicizzare un nuovo farmaco, il tutto addolcito da mega-pranzi offerti ai medici, hotel sontuosi dove soggiornare durante il convegno, sempre a spese delle aziende, corsi di aggiornamento gratis. Anche se ridimensionate negli anni, queste pratiche sono ancora in uso. Ma quanto pesano sull’etica del medico? O’Hanlon ha deciso di capirlo sulla sua pelle, stando un anno lontano dalle case farmaceutiche: «Fu passare al caffè decaffeinato - racconta O’Hanlon - che iniziò tutto, in un flash di lucidità realizzai quanto sia eticamente discutibile la corte che i rappresentanti delle aziende fanno ai medici. Mi resi conto che orientavo le prescrizioni in base ai consigli di colleghi quasi sempre influenzati dai rappresentanti. Decisi allora di prendermi una vacanza per svincolarmi da questo dilemma morale». Fu dura, continua: per molto tempo i rappresentati continuarono a bussare al suo studio anche se lui li rimandava indietro. A vari convegni cui partecipò, O’Hanlon decise di portarsi un panino e sfuggire al lauto pranzo offerto da questa o quell’altra azienda.
Alla fine i rappresentanti presero a evitarlo: giravano i tacchi appena ne leggevano il nome sul badge. «Un anno dopo l’esperimento dovevo decidere se rimanere pulito o tornare alla normalità - conclude. Ricordavo i privilegi (alberghi pagati, cene, viaggi) offerti dalle aziende e anche di aver rinunciato a meeting ed eventi conviviali notturni nei giorni di congresso. Ma il mio comportamento mi faceva sentire più indipendente. Ora credo che in futuro gli odierni rapporti con le aziende saranno visti ingiustificabili».

 

http://pharmagossip.blogspot.it/2013/03/my-year-without-drug-reps.html

01-01-2015

“Le prove scientifiche sono inconfutabili e le conclusioni del gruppo di lavoro sono state all’unanimità: le emissioni dei motori diesel causano il tumore del polmone”. Sono queste le conclusioni di Christopher Portier, del Centro Internazionale di ricerca sul Cancro, al termine di una settimana di lavoro degli esperti dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che si è conclusa a Lione ancora nel periodo di giugno. Portier ha sottolineato inoltre la necessità che “l’esposizione a questa miscela di prodotti chimici sia ridotta in tutto il mondo”. Dopo averlo sospettato per lungo tempo, sembra che gli esperti abbiano rilevato prove sufficienti per stabilire una stretta correlazione fra i motori alimentati a gasolio ed il cancro: “le emissioni allo scarico dei motori diesel sono cancerogeni certi per gli esseri umani e l’esposizione a tali gas è associata ad un rischio accresciuto di tumore al polmone ed anche ad un maggior rischio di cancro alla vescica”. Questo è il verdetto del gruppo di lavoro che ha portato i motori alimentati a gasolio ad essere ora classificati nel “gruppo 1”, quello appunto delle sostanze cancerogene certe, mentre in precedenza le emissioni dei diesel erano annoverate nel “gruppo 2” delle sostanze probabilmente cancerogene per l’uomo.
Di tutt’altro tenore i commenti dell’Associazione Europea dei Costruttori di Auto (ACEA), la quale evidenzia che le nuove tecnologie dei motori incriminati sono state sviluppate proprio per rispondere a queste preoccupazioni, è indubbio che occorre fare un’attenta riflessione sulla futura consistenza del mercato dell’auto in Italia e nel mondo. Ciò non solo per assecondare la domanda di economia d’esercizio da parte degli utenti, ma anche per il complessivo bilancio sanitario ed ecologico generale. “In attesa che realmente si rendano disponibili e utilizzabili dalla grande utenza le tecnologie necessarie per una mobilità elettrica generalizzata – ha affermato Alessandro Tramontano, Presidente del Consorzio Ecogas – è indubbio che l’utilizzo dei carburanti gassosi per autotrazione, oggi, rispondono ancora di più e pienamente alla necessità di coniugare economia ed ecologia. Con l’aggiunta di una sostanziale riduzione dei costi sociali e sanitari che, viceversa, sarebbero maggiori e non quantificabili a causa dell’incremento dei tumori causati dall’uso dei motori diesel che questi studi hanno evidenziato”.

 

http://www.treehugger.com/cars/world-health-organisation-diesel-engine-exhaust-causes-lung-cancer.html

http://www.bbc.com/news/health-18415532

http://www.theglobeandmail.com/life/health-and-fitness/health/diesel-exhaust-found-to-cause-lung-cancer/article4253849/

01-01-2015

Le mani possono dirci molto sul nostro futuro. Non stiamo parlando di predirlo attraverso la lettura della mano, ma di una caratteristica ben precisa: la lunghezza del dito anulare. Quest’ultima indica le malattie a cui si è predisposti. Bisogna tenere presente che le caratteristiche delle dita delle mani dipendono dalla quantità di ormoni, che possono essere femminili o maschili, che il feto assorbe nel corso della gravidanza. La lunghezza del dito anulare, se maggiore di quella dell’indice, porterebbe indicare una maggiore probabilità di avere in futuro un tumore alla prostata per quel che concerne gli uomini. Per le persone di sesso femminile, invece, vi sarebbe una percentuale più elevata di sviluppo di un carcinoma al seno. Per le donne aumentano anche le possibilità di soffrire di disturbi alimentari.
Alcuni studi scientifici hanno evidenziato che, osservando la lunghezza del dito anulare e confrontandola con quella dell’indice, si possono avere molte informazioni per quel che concerne anche il carattere delle persone, le loro materie di studio preferite e le attitudini personali. Una di queste ricerche è stata svolta presso l’Università della Florida. E’ così emerso che, tendenzialmente, il dito anulare ha una lunghezza maggiore rispetto all’indice per quel che concerne gli uomini. In caso contrario, la persona in questione sarà più dolce rispetto alla norma. Se invece l’anulare è più lungo dell’indice, la personalità risulta più forte, rude. A quanto pare quest’ultima caratteristica rende gli uomini più piacenti agli occhi delle donne. Quando la lunghezza dell’anulare è maggiore, inoltre si ha più successo sia nel lavoro che nello sport, soprattutto per quel che concerne l’ambito finanziario. Gli uomini con l’anulare più corto, invece, sarebbero maggiormente portati per ambiti umanistici.

 

http://www.dailymail.co.uk/health/article-2034164/Passionate-Check-ring-finger-linked-libido.html

http://www.sciencenewsline.com/articles/2011090523270010.html

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=PNAS++Martin+Cohn%2C+Zhengui+Zheng

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3182741/

Giovedì, 01 Gennaio 2015 17:32

LA MORTE ARRIVA CON L'ANTIDOLORIFICO.

01-01-2015

Il tristo mietitore arriva recando in mano una pillola di antidolorifico, suggerisce una larga revisione sistematica, condotta negli Usa e in Canada, che mostra come l’assunzione di questo genere di farmaci sia causa di un alto numero di decessi, che supera quelli per overdose da droghe come eroina e cocaina messi insieme. Secondo i ricercatori della McGill University, questo studio, primo nel suo genere, mette in luce un grave problema di salute pubblica: il drammatico aumento dei decessi a causa della prescrizione e assunzione di antidolorifici. Questo fattore, nel 2010, ha determinato soltanto negli Usa oltre 16 mila decessi.
«Le overdose da prescrizione di antidolorifici hanno ricevuto molta attenzione negli editoriali e sulla stampa popolare, ma volevamo scoprire se vi fossero reali e solide prove di questo», sottolinea il dott. Nicholas King del Biomedical Ethics Unit presso la Facoltà di Medicina della McGill. Per questo motivo, in uno sforzo per identificare e riassumere le prove disponibili, King e colleghi hanno condotto una revisione sistematica della letteratura esistente, comprensiva di un’indagine della letteratura scientifica, includendo solo report con prove quantitative. I risultati dello studio sono poi stati pubblicati sulla rivista scientifica Journal of Public Health. «Abbiamo anche voluto scoprire perché ogni anno migliaia di persone negli Stati Uniti e in Canada stanno morendo per gli antidolorifici, e perché questi tassi sono saliti costantemente nel corso degli ultimi due decenni – spiega il dott. King –. Abbiamo trovato la prova per almeno 17 diversi determinanti della mortalità crescente legati agli oppioidi. In particolare, abbiamo scoperto che è notevolmente aumentata la prescrizione e la vendita di oppioidi; un maggiore uso di oppioidi potenti e a lunga azione, come Oxycodone e metadone; l’uso combinato di oppiacei e altri farmaci (lecito e illecito), droghe e alcol; e altri fattori sociali e demografici».
Quanto alla complicità di siti Internet che possano vendere questo genere di prodotti ed eventuali errori medici o dei pazienti, che secondo gli autori sono fattori comunemente citati dai media, il dott. King specifica che sono state trovate poche prove che questi fattori abbiano giocato un ruolo significativo. I risultati indicano infatti che vi è un complicato sistema da epidemia in cui medici, utenti, sistema sanitario e l’ambiente sociale giocano tutti un ruolo. «Il nostro lavoro fornisce una sintesi attendibile delle possibili cause dell’epidemia di overdose da oppiacei, che dovrebbe essere utile per i medici e responsabili politici in Nord America nel capire quale tipo di ulteriore ricerca deve essere fatta e quali strategie potrebbero o non potrebbero essere utili nel ridurre la mortalità in futuro. E come per gli sforzi fatti per aumentare l’accesso alla prescrizione di oppiacei al di fuori del Nord America, i nostri risultati potrebbero essere utili nel prevenire che altri Paesi seguano lo stessa strada di Stati Uniti e Canada».

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24922138

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4103240/

01-01-2015

Da diversi anni ormai impera la moda dello Zero, ossia l’idea spesso fuorviante che alimenti e bevande edulcorati con dolcificanti artificiali siano meglio di quelli contenenti zucchero. Posto che tutti gli alimenti e bevande contenenti in gran parte zucchero sarebbero da assumere con cautela – e spesso da evitare del tutto – il fatto che siano invece dolcificati con queste sostanze alternative non è sinonimo di sicurezza per la salute; anzi, come evidenziato da uno studio, i problemi possono essere diversi. In un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Toxicology and Environmental Health, i ricercatori del Duke University Medical Center riportano i risultati di uno studio in cui si evidenziano gli effetti collaterali di uno dei principi attivi contenuti in un popolare dolcificante: il sucralosio (o E955). Secondo quanto scoperto dalla dott.ssa Susan Schiffman e colleghi, il sucralosio può limitare gli effetti dei farmaci, alterare la flora batterica intestinale benefica e alterare la secrezione ormonale.
Lo studio, condotto su modello animale, ha inteso osservare e confrontare gli effetti del sucralosio (1,1%), il glucosio e le maltodestrine. Ai topi utilizzati per la ricerca è stato somministrato il dolcificante artificiale per un periodo di 12 settimane. Dopo di che sono state eseguite delle analisi che comprendevano l’analisi batterica dei campioni fecali e la misura del pH fecale. I risultati hanno evidenziato che il dolcificante artificiale aveva causato vari effetti avversi nei ratti, tra cui una riduzione della microflora fecale benefica, un aumento del pH fecale e un aumento dei livelli di espressione di P-gp, CYP3A4 e CYP2D1, che sono noti per limitare la biodisponibilità dei farmaci somministrati per via orale.
«Alle concentrazioni tipicamente utilizzate in alimenti e bevande, il sucralosio elimina i batteri benefici nel tratto gastrointestinale, con un minore effetto sui batteri patogeni – scrive la dott.ssa Schiffman – La maggior parte dei consumatori non sono a conoscenza di questi effetti, perché non vi è nessuna etichetta di avvertimento sui prodotti contenenti sucralosio». Gli scienziati hanno anche dichiarato che la modifica nell’equilibrio dei batteri gastrointestinali è stata associata a un aumento di peso e obesità. A livelli elevati, poi, sucralosio causa anche danni al DNA. E, sempre secondo i ricercatori, questi effetti biologici si verificano con l’assunzione del sucralosio ai livelli attualmente approvati dalle agenzie di regolamentazione per l’uso nella catena alimentare. E se detti problemi si verificano già quando si sta nei limiti consigliati, cosa accade se si superano questi livelli, come quando non ci si limita nell’assumere un prodotto edulcorato artificialmente? La risposta è facilmente prevedibile, e forse sarebbe il caso che si iniziasse a cercare delle alternative dolcificanti che siano più sicure e più dolci per la salute.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24219506

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3856475/

Giovedì, 01 Gennaio 2015 17:27

PERCHE' SI INGRASSA SMETTENDO DI FUMARE?

01-01-2015

Che si prenda qualche chilo dopo aver smesso di fumare non è certo una novità. Ma qual è il motivo? L’idea che per sostituire le sigarette si mangi di più, come si potrebbe pensare, a quanto pare non c’entra: le ragioni hanno a che fare con la composizione della nostra flora batterica intestinale, che con l’addio alle bionde si modifica sensibilmente, favorendo l’aumento di peso. A spiegarlo è uno studio promosso dalla Swiss National Science Foundation (Snsf) e pubblicato su Plos One. L’80% degli ex fumatori ingrassa in media di 7 kg dopo aver detto addio alle sigarette, e questo avviene anche senza che vi siano modifiche nell’alimentazione o nella quantità di calorie assunte. Anzi, il trend si mantiene addirittura anche quando le calorie assunte diminuiscono. Per cercare di capire qualcosa di più su quanto osservato, i ricercatori guidati da Gerhard Rogler dell'UniversitätsSpital di Zurigo, hanno studiato i batteri intestinali presenti nei campioni fecali di venti persone nell’arco di nove settimane. Tra i partecipanti al test c’erano cinque fumatori, cinque non fumatori, e dieci persone che avevano smesso circa una settimana prima dell’inizio dello studio. I risultati hanno mostrato che i ceppi batterici prevalenti nella flora intestinale di un ex fumatore sono gli stessi che prendono il sopravvento nelle persone obese, mentre tra fumatori e non fumatori il cambiamento è minimo. La modifica più evidente che i ricercatori hanno riscontrato riguarda le frazioni di Protobatteri e Batteroidi, che aumentavano sensibilmente negli ex fumatori, a discapito di Firmicutes e Attinobatteri. Allo stesso tempo, gli ex fumatori erano anche ingrassati di circa 2,2 kg sebbene non avessero modificato in alcun modo le proprie abitudini alimentari, e l’unico cambiamento, seppur minimo, fosse un leggero aumento nel consumo di alcol verso la fine dello studio.
Come confermano i ricercatori, questi nuovi risultati hanno integrato quelli già ottenuti con ricerche condotte sui topi. In precedenti studi, infatti, le feci di topi obesi erano state trasferite nell’intestino di topi normo-peso, e nella flora intestinale di questi ultimi si erano verificate le stesse modifiche riscontrate nell’intestino umano, parallelamente a un aumento di peso. La nuova composizione batterica, infatti, sfrutta le energie derivanti dal cibo in maniera più efficiente. Un’efficienza che si manifesta anche negli esseri umani, portando all’aumento di peso.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23516617

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3597605/

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