Angelo Ortisi
RISCHIO DI ICTUS E INFARTO ANCHE CON IL NAPROSSENE.
08-01-2015
Nelle donne in post-menopausa l'utilizzo dell'antidolorifico naprossene è associato a un aumento del rischio di ictus e di infarto. Lo segnala uno studio apparso su Circulation e firmato da ricercatori dell'Università della Florida. Anthony Bavry, uno degli autori, spiega: "era già noto che gli antinfiammatori non steroidei (Fans) inibitori selettivi dell’enzima COX-2 incrementano le probabilità di eventi acuti cardiovascolari, ma dai nostri dati emerge il medesimo rischio anche per i Fans che lo inibiscono in parte". Il naprossene, un inibitore parziale di COX-2, è legato a un aumento del rischio di morte per ictus e infarto del 22 per cento. I Fans agiscono inibendo la ciclossigenasi (COX), un enzima coinvolto nel controllo dell'infiammazione che mostra la presenza di 2 sottotipi: COX-1 e COX-2. "Studi precedenti hanno dimostrato che l'inibizione specifica di COX-2 accresce le probabilità di attacchi di cuore e ictus, tanto che anti COX-2 come rofecoxib (Vioxx) e valdecoxib (Bextra) sono stati ritirati dal mercato per motivi di sicurezza a metà degli anni 2000", spiega Bavry.
I ricercatori hanno studiato il rischio cardiovascolare negli inibitori parziali suddividendoli in due categorie, quelli che generano un'inibizione di COX-2 più di COX-1 e quelli che si comportano in maniera opposta. Utilizzando i dati relativi a oltre 160mila donne in post-menopausa che hanno preso parte alla Women's Health Initiative, una serie di studi iniziati nel 1991 per sperimentare gli effetti della terapia ormonale. Il dott. Bavry sottolinea: "tra i Fans da banco, il naprossene era il più usato della prima categoria, mentre l'ibuprofene era il più utilizzato di quella opposta. Per questo i nostri risultati sono in gran parte riferiti a questi due farmaci. Molti pensano che il naprossene sia sicuro, ma alla luce di questi dati le donne in post-menopausa dovrebbero decidere con il loro medico se il farmaco è giusto per loro", conclude il ricercatore americano.
Un altro studio segnala il nesso fra utilizzo dei Fans in genere e aumento del rischio di fibrillazione atriale. Lo dice una ricerca pubblicata sulla rivista Bmj Open da Bouwe Krijthe e dai suoi colleghi del Dipartimento di Epidemiologia dell'Erasmus Medical Center di Rotterdam. Il meccanismo alla base dell'associazione non è del tutto chiaro, come spiega il ricercatore olandese: “l’obiettivo dello studio era indagare se l’uso di Fans è associato a fibrillazione atriale in uno studio prospettico di coorte, di popolazione, con dati precisi sui casi incidenti di fibrillazione e informazioni complete sull’uso dei farmaci e potenziali fattori confondenti”.
La ricerca ha coinvolto 8.423 partecipanti al Rotterdam Study, di cui fa parte un campione di anziani con età media di 68,5 anni residenti nel quartiere Ommoord. Dopo aver eseguito un ECG a riposo, i partecipanti sono stati seguiti a ogni visita successiva con un nuovo elettrocardiogramma, e nel contempo gli scienziati hanno monitorato l'uso dei Fans attraverso l'ausilio della rete di farmacie. In tal modo hanno diviso i soggetti in diversi gruppi: utilizzatori da meno di 14 giorni, per un periodo tra 15 e 30 giorni e oltre i 30 giorni; ex utilizzatori, che non avevano assunto i farmaci nell'ultimo mese, negli ultimi 6 mesi e oltre i 6 mesi; e infine i non utilizzatori. Nel corso del follow up, durato 12,9 anni, 857 partecipanti hanno sviluppato una forma di fibrillazione atriale. Al momento della diagnosi 261 non avevano mai utilizzato Fans, 554 li avevano usati in passato e 42 li stavano tuttora utilizzando. Dopo aver aggiustato i fattori di rischio cardiovascolare e aver considerato età e sesso, è emerso che l'uso di Fans per un periodo di 15-30 giorni si può associare a un aumento di rischio significativo di insorgenza del disturbo, ancora più evidente nei soggetti che avevano smesso di assumere farmaci il mese precedente. Del resto, i rischi per il cuore connessi con l'utilizzo dei Fans era già emerso in precedenti analisi. Una ricerca pubblicata sulla rivista Lancet da un team dell'Università di Oxford guidato da Colin Baigent in collaborazione con Carlo Patrono della Cattolica di Roma si è concentrata in particolare sui principi attivi diclofenac e ibuprofene, mentre al contrario il naprossene non sembra essere associato allo stesso pericolo. Lo studio prevede 3 infarti in più per ogni 1000 pazienti trattati con Fans, dei quali uno ha esito fatale. I ricercatori hanno analizzato i dati di 639 trial clinici per un campione totale di oltre 300 mila persone, verificando le singole situazioni cliniche dei pazienti, affetti da patologie diverse. La ricerca ha peraltro confermato un'intuizione legata ad analisi precedenti, ovvero il rischio maggiore di infarto legato in particolare ai Fans di nuova generazione, sviluppati per ridurre gli effetti sull'intestino provocati dalla prima generazione di questi medicinali. Questi nuovi farmaci, definiti inibitori selettivi dell'enzima COX-2, come ad esempio celecoxib ed etoricoxib, innalzano il rischio di un qualche evento cardiovascolare per chi li assume in maniera prolungata.
Un altro studio, peraltro, sottolinea il rischio particolare che corrono le persone che hanno già avuto un infarto. In questo caso, se si sopravvive a un attacco cardiaco, fra le altre cose bisognerebbe prestare molta attenzione al consumo degli antinfiammatori, che aumenterebbero il rischio di decesso per un secondo infarto, stando ai risultati di una ricerca pubblicata sulla rivista specializzata Circulation. La ricercatrice Anne-Marie Schjerning Olsen dell'Università di Copenhagen, responsabile dello studio, spiega: “è importante che passi il messaggio ai medici che prendere questi farmaci dopo un infarto è pericoloso anche dopo diversi anni dall'attacco di cuore". Nel corso dell'analisi i ricercatori hanno preso in esame quasi 100 mila casi di soggetti sopra i 30 anni che avevano subito il primo attacco cardiaco fra il 1997 e il 2009. Di questi, quasi la metà, il 44 per cento, aveva assunto poi dei farmaci antinfiammatori. In questo sottocampione, il rischio di morte saliva del 59 per cento dopo un anno e del 63,5 a cinque anni dalla crisi cardiaca. Nello specifico, il rischio di morire per un secondo infarto o comunque per un problema connesso con l'apparato cardiovascolare era più alto del 30 per cento dopo un anno e del 41 dopo cinque anni, eliminati i classici fattori di rischio come il sesso, l'età, la condizione socioeconomica e la presenza di altre patologie.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25006185
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Bmj+Open+Bouwe+Krijthe
PSICOFARMACI: BENZODIAZEPINE AUMENTANO I PROBLEMI RESPIRATORI NEGLI ANZIANI.
07-01-2015
Gli psicofarmaci comunemente prescritti per problemi di insonnia, panico e ansia aumentano i problemi respiratori negli anziani. Secondo un nuovo studio condotto da Nicholas Vozoris, pneumologo del St. Michael’s Hospital in Canada, le benzodiazepine in particolare aumentano il rischio di seri problemi respiratori se assunte da pazienti anziani affetti da broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). I ricercatori hanno reclutato i clienti di 30 farmacie, per un totale di 303 anziani che assumevano benzodiazepine. Lo studio, pubblicato sull’European Respiratory Journal, evidenzia come il rischio di subire un peggioramento dei sintomi respiratori aumenta del 45 per cento, mentre il pericolo di correre d’urgenza al pronto soccorso sale del 92 per cento tra gli anziani in cura con questi psicofarmaci. Inoltre, un altro studio canadese, pubblicato su Jama Internal Medicine, ha indagato la possibilità di ridurre le prescrizioni di questi farmaci negli anziani, concludendo che – se informati correttamente sugli effetti collaterali – molti pazienti sono in grado di smettere di assumere farmaci per dormire anche se li prendono da decenni.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24743966
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/04/140417090830.htm
PARACETAMOLO: NON FUNZIONA PER IL MAL DI SCHIENA.
07-01-2015
Il paracetamolo viene spesso usato come antidolorifico. Un nuovo studio scientifico mostra però come questo principio attivo sia inefficace contro il mal di schiena. I risultati contraddicono quindi le raccomandazioni dei medici in questo senso e anche i consigli di utilizzo che si trovano sui foglietti illustrativi dei prodotti a base di paracetamolo. Lo studio, pubblicato su The Lancet, è stato effettuato su un campione di 1.652 persone affette da lombalgia acuta. Ad occuparsi di loro sono stati i ricercatori dall’Università di Sydney che hanno voluto fare un’indagine su larga scala confrontando gli effetti del paracetamolo e di un placebo sul mal di schiena. I volontari sono stati divisi in 3 gruppi: ogni volta che sentiva dolore il primo gruppo prendeva un placebo, il secondo del paracetamolo mentre al terzo gruppo veniva somministrato paracetamolo per 3 volte al giorno indipendentemente dal dolore e complessivamente ne assumeva di più. Si riteneva infatti che questo principio attivo potesse non fare effetto in quanto non veniva dato in dosi adeguate. I ricercatori si aspettavano di notare un miglioramento nel terzo gruppo che invece non c’è stato: “Siamo rimasti sorpresi nel vedere che non importa quanto paracetamolo hai preso, non faceva nessuna differenza” hanno dichiarato. Gli scienziati sono dunque convinti che, nonostante sia uno dei rimedi più spesso raccomandati, il paracetamolo non aiuta a recuperare più rapidamente, a ridurre i livelli di dolore o migliorare il loro sonno e la qualità della vita di chi soffre di mal di schiena. Potrebbe essere più utile invece consigliare ai pazienti di riposare di più, migliorare la propria postura e fornire altri tipi di rassicurazioni sulla situazione.
http://www.eurekalert.org/pub_releases/2014-07/tl-tlp072214.php
http://www.alphagalileo.org/ViewItem.aspx?ItemId=143928&CultureCode=en
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/07/140724094025.htm
ALCUNI OLI VEGETALI LEGATI AD INFIAMMAZIONE POLMONARE.
07-01-2015
La ricerca avanza la nostra comprensione di due delle quattro forme di vitamina E – gamma-tocoferolo e alfa-tocoferolo – ed i loro vantaggi e svantaggi per la salute. La vitamina E è considerata un antiossidante che protegge il corpo dai radicali liberi che possono danneggiare le cellule, tessuti e organi. Essa mantiene il sistema immunitario e scoraggia virus e batteri. È anche significativa nella formazione dei globuli rossi e aiuta l’organismo ad utilizzare la vitamina K. Secondo il National Institutes of Health, il modo migliore per raggiungere la razione giornaliera di vitamina E raccomandata, è consumare alimenti ricchi di vitamina E, come gli oli vegetali, noci, semi e verdure a foglia verde. Il gamma-tocoferolo è la forma più comune di vitamina E trovata nella dieta americana, a causa di un elevato consumo di olio di colza, soia e olio di mais. Oli ricchi di vitamina E, tra cui colza, soia e mais, potrebbero contribuire alla crescente incidenza di cancro al polmone e infiammazione, secondo il nuovo studio. L'olio di oliva, di mandorle e di girasole sono tutte fonti di alfa-tocoferolo che hanno un apporto dietetico superiore nei paesi europei e scandinavi. Il livello medio nel plasma sanguigno di gamma-tocoferolo è quattro o più volte maggiore negli USA che in quei paesi che consumano olio di oliva e olio di girasole. Questo studio è stato il primo a collegare il gamma-tocoferolo con una funzione polmonare ridotta e pone l’interrogativo: “quali sono gli oli vegetali sani per la nostra salute"?
I ricercatori hanno analizzato il set di dati dal Coronary Artery Risk Development in Young Adults Study (CARDIA). CARDIA è uno studio osservazionale basato sulla popolazione, con 4.526 partecipanti di età compresa tra 18-30, reclutati tra il 1985 e il 1986. I risultati consentono una maggiore comprensione dello sviluppo di malattie cardiache negli adulti di diverse etnie. Sono stati selezionati lo stesso numero di persone in sottogruppi di razza, sesso, istruzione ed età, con esami di follow-up durante gli anni 2, 3, 7, 10, 15 e 20 dopo l’esame iniziale. L’ autore dello studio Joan Cook-Mills ha analizzato i dati spirometrici per misurare la funzione polmonare negli anni 0, 2, 5, 10 e 20, e i livelli presenti nel sangue dei partecipanti, di tocoferolo, negli anni 0, 7 e 15. “Il plasma sanguigno ha mostrato”, dice Cook-Mills, ”quanta vitamina E i partecipanti hanno assunto dalla dieta o integratori”. Cook-Mills ha scoperto che concentrazioni più elevate di gamma-tocoferolo nel plasma sanguigno, hanno indicato una riduzione del 10-17% della funzione polmonare. Egli ha anche notato che i paesi con i tassi più bassi di asma hanno diete ricche di oli di oliva e di girasole – oli ricchi di una sotto forma di vitamina E chiamata alfa-tocoferolo. Cook-Mills, professore associato di immunologia presso la Northwestern University Feinberg School of Medicine, afferma: “Considerando la percentuale di persone colpite che abbiamo trovato in questo studio, ci potrebbero essere 4,5 milioni di persone negli Stati Uniti con funzione polmonare ridotta a causa del loro elevato consumo di gamma-tocoferolo”.
DALLA CANNELLA UNA SOLUZIONE PER COMBATTERE IL PARKINSON.
05-01-2015
Chi l’avrebbe mai detto che la cannella, una delle spezie più utilizzate in cucina, soprattutto per aromatizzare dolci, bevande e biscotti, fosse così importante per la salute umana. Un’ulteriore conferma viene da un recente studio condotto da un gruppo di scienziati di neurologia del Rush University Medical Center. Abbiamo già visto come la cannella possa essere utile per combattere il diabete. Ora, sappiamo che potrebbe costituire un enorme passo in avanti nella cura dei soggetti affetti da Parkinson. Il morbo di Parkinson è una malattia che progredisce lentamente e che colpisce una piccola area di cellule all’interno del cervello conosciuta come Substantia Nigra. La degenerazione progressiva di queste cellule causa la riduzione di un neurotrasmettitore vitale, la dopamina. Questo porta alla comparsa dei più comuni sintomi che caratterizzano la malattia, come:
- tremore su una parte del corpo a riposo;
- lentezza generalizzata nei movimenti;
- rigidità degli arti;
- problemi di equilibrio.
La causa della malattia è sconosciuta, ma sappiamo che in Europa colpisce oltre un milione di persone, di cui duecentomila soltanto in Italia. Grazie a una serie di esperimenti, gli scienziati hanno scoperto che l’uso della cannella è in grado di annullare le modifiche biomeccaniche, cellulari e anatomiche che si verificano nei pazienti affetti dalla malattia. La corteccia di cannella polverizzata, se ingerita, viene metabolizzata in una sostanza denominata benzoato di sodio, in grado di penetrare a livello cerebrale e di bloccare la perdita delle proteine Parkin e DJ-1 tipiche di questo genere di patologia. Non solo, questa stessa sostanza sarebbe in grado anche di proteggere i neuroni, normalizzare i livelli dei neurotrasmettitori e migliorare le funzioni motorie. Naturalmente, per adesso si tratta solo di risultati ottenuti in laboratorio. Se ulteriori ricerche dovessero però confermare questi dati, la cannella, come affermato dal dottor Floyd A. Davis, professore di neurologia presso il Rush University Medical Center di Chicago, potrebbe diventare uno dei metodi più sicuri per fermare la progressione della malattia nei pazienti affetti da Parkinson.
Questa spezia è stata ampiamente utilizzata in tutto il mondo per secoli, come conservante alimentare, grazie al suo effetto microbicida, come stimolante in caso di anemia o dissenteria, come astringente e fungicida. Ora, questa scoperta potrebbe rendere questa spezia tra le più preziose e importanti per la salute umana, utile a curare una malattia che incide enormemente sulla qualità della vita delle persone che ne sono affette.
http://rushnews.rush.edu/2014/07/11/cinnamon-may-help-halt-parkinsons-progression/
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/07/140709095257.htm
“FARMACO PER LA CURA DELL'ACNE CAUSA DEPRESSIONE E ISTIGA AL SUICIDIO": LA ROCHE NELLA BUFERA.
05-01-2015
Il Roaccutan, noto farmaco usato per curare l’acne, è finito nell’occhio del ciclone in Gran Bretagna. Motivo: tra gli effetti collaterali anche forme acute di depressione che, secondo le accuse, avrebbe spinto al suicidio chi ne ha fatto suo. In merito si sta muovendo la Commission on Human Medicines, che indaga sui disturbi causati dall’uso di Roaccutan, promuovendo una commissione di esperti che dovranno esprimere un parere netto a riguardo. Il bubbone è scoppiato quando i genitori di Jamie Sillcock, 26enne suicidatosi nel 2012 dopo aver assunto per anni il farmaco e aver manifestato problemi psichiatrici, hanno organizzato una protesta – molto partecipata – il 25 aprile davanti alla sede della Roche, multinazionale produttrice del farmaco, nell’Hertfordshire.
Secondo quanto scritto dal Daily Mail, il padre di Jamie vuole che vengano a galla “gli effetti collaterali del farmaco che affliggono una certa percentuale di pazienti che lo assumono e in che modo vengono causati i danni. E’ come una roulette russa, nessuno sa quali possano essere i danni per ognuna delle persone che lo assumono. La compagnia farmaceutica ha fatturato milioni con il Roaccutan, ma ha devastato migliaia di famiglie. Siamo felici che ora il governo britannico abbia deciso di fare chiarezza. Se tante famiglie come noi non avessero fatto pressione oggi non sarebbe accaduto e per noi è una piccola vittoria“.
Per tutta risposta, un portavoce della Roche ha replicato, rispedendo al mittente le accuse: “il Roaccutan ha migliorato la vita di molte persone che soffrono di acne, ma come ogni farmaco può avere degli effetti collaterali. Ad oggi non sono state definite relazioni di causa-effetto per sbalzi di umore e depressione legate all’assunzione del farmaco nei pazienti con acne, a parte in rari casi documentati. In via precauzionale raccomandiamo a chiunque abbia manifestato questo o altri possibili effetti collaterali del farmaco di rivolgersi immediatamente al proprio medico”. Quanti avranno ancora il coraggio di assumere il Roaccutan per curare l’acne?
ZUCCHERO: AUMENTA LA DENSITA' DEL SENO E IL RISCHIO DI CANCRO.
05-01-2015
Un team di ricercatori del centro di ricerca sul cancro dell’Università di Laval in Canada, ha scoperto un altro buon motivo per ridurre al minimo il consumo di zucchero. Sembra infatti che un'assunzione regolare di questa sostanza aumenti la densità del seno, fattore di rischio per il cancro alla mammella. Lo studio, condotto su 1555 donne, ha stimato il consumo di zucchero nella dieta delle persone prese a campione a cui è stato chiesto di indicare la frequenza con cui avevano consumato prodotti a base di zucchero, in particolare bevande, durante l’anno precedente. In questo modo si è riusciti a rivelare una correlazione tra il consumo di alimenti e bevande addizionate con lo zucchero e l’aumento di densità del seno. Come ha spiegato Caroline Diorio, una delle autrici della ricerca: “la densità del seno è stata determinata da una mammografia per ogni partecipante. Questa variabile non corrisponde direttamente alla fermezza del seno ma si tratta di una misura relativa all’abbondanza di ghiandole e condotti nel tessuto mammario”. Seni densi, infatti, hanno meno tessuto adiposo e più tessuto ghiandolare e in questo modo aumenta il numero di cellule che potrebbero potenzialmente diventare cancerose.
L’aumento della densità del seno dovuto al consumo di zucchero è stato stimato in soli 3 punti percentuali in più ma questa piccola differenza è sufficiente per aumentare il rischio di cancro, sostengono i ricercatori. Tra l’altro le donne non consumavano bevande zuccherate ogni giorno, la maggior parte di esse si serviva di questi soft drink circa 3 volte a settimana, il problema però è che in queste bevande sono solitamente presenti circa 10 cucchiaini di zucchero, mentre secondo le ultime raccomandazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità le donne non dovrebbero superare i 6 cucchiaini al giorno. La buona notizia è che non fa parte di questo discorso lo zucchero contenuto naturalmente negli alimenti. Lasciate quindi da parte le bevande zuccherate e fatevi invece un bel succo fresco o una centrifuga di frutta.
http://www.prevention.com/health/health-concerns/sugar-may-increase-breast-density
DAL RICCIO DI MARE UNA SOSTANZA ANTITUMORALE.
05-01-2015
Li usiamo di solito con gli spaghetti o le linguine, ma a quanto pare il loro punto forte non è solo il profumo di mare. Una ricerca condotta da Anna Palumbo, dirigente di Ricerca alla Stazione Zoologica Anton Dohrn, Immacolata Castellano della stessa stazione zoologica, Gian Luigi Russo e Maria Russo del CNR di Avellino e Alessandra Napolitano della Federico II, ha individuato una nuova funzione dell'ovotiolo, un amminoacido modificato presente nelle uova del riccio di mare. In passato la stessa dottoressa Palumbo aveva scoperto, con i colleghi Giuseppe Prota e Marco d’Ischia dell’Università degli studi di Napoli Federico II, che l'ovotiolo svolge la funzione di antiossidante per la protezione dell'embrione. L'ovotiolo, come spiegato dalla rivista internazionale Marine Drugs, svolge anche un’azione antitumorale su cellule di carcinoma epatico, portando alla morte del tumore per autofagia.
ORIGANO IN CASO DI MALATTIE GASTROINTESTINALI.
03-01-2015
Ciò che dona alla pianta dell'origano il suo odore tipico si rivela anche utile nella lotta alle patologie gastrointestinali provocate dal norovirus. La sostanza in questione è il carvacrolo, che mostra importanti proprietà antivirali, secondo uno studio pubblicato sul Journal of Applied Microbiology da ricercatori della University of Arizona. La ricerca si è basata sull'analisi della forma murina del norovirus, la variante più simile a quella umana per verificare la resistenza agli antimicrobici e ai disinfettanti. Il carvacrolo sembra agire direttamente sulle proteine del capside, provocando la rottura dello strato protettivo che avvolge il virus. In tal modo, gli antimicrobici riescono a combattere con più facilità l'infezione, eliminando il virus dall'organismo. Inoltre, l'effetto sembra al riparo da possibili fenomeni di resistenza. Il carvacrolo, peraltro, non produce alcun effetto collaterale e non genera sottoprodotti dannosi per l'organismo.
La prima autrice della ricerca Kelly Bright commenta: “il carvacrolo potrebbe essere utilizzato come disinfettante alimentare e, forse, anche delle superfici, soprattutto insieme ad altri antimicrobici”. La sua applicazione potrebbe riguardare ambienti nei quali l'utilizzo di sostanze aggressive è particolarmente delicato e sconsigliabile, come le scuole, gli ospedali o gli asili nido. L'origano mostra una serie di proprietà terapeutiche interessanti. Oltre alle sue qualità antivirali, ha al suo attivo anche effetti analgesici, coadiuvanti del processo digestivo, calmanti in caso di tosse e dolori intestinali. Una recente ricerca ha stabilito inoltre la capacità dell'origano di ridurre le infiammazioni grazie al beta-cariofillene, un'altra sostanza contenuta al suo interno. In tal senso, alcuni ne hanno proposto l'utilizzo anche per contrastare la cellulite. Da evitare il suo utilizzo in caso di gastrite, ulcera peptica, dermatiti o ipersensibilità accertata verso uno o più componenti.
http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/jam.12453/abstract
UNO STUDIO AMERICANO DIMOSTRA CHE LE BIBITE DIETETICHE SONO MEGLIO DELL’ACQUA. PECCATO CHE SIA FINANZIATO DALL’ASSOCIAZIONE PRODUTTORI BEVANDE.
03-01-2015
Le bevande dolcificate, diet, farebbero perdere peso più della stessa acqua. Questo il risultato sorprendente di uno studio pubblicato su Obesity, la rivista dell’Obesity Society americana: ed è già polemica. Nella sperimentazione, durata 12 settimane, oltre 300 persone in sovrappeso sono state assegnate, dai ricercatori delle Università del Colorado e di Filadelfia, a due schemi: uno che prevedeva di poter bere soltanto acqua, e un altro che ammetteva le bevande dietetiche (bibite gassate, tè, acqua aromatizzate e così via); questa l’unica differenza, essendo tutti e 300 assegnati a un programma di attività fisica e terapia comportamentale. Alla fine del periodo di dieta, i partecipanti che avevano bevuto le bibite dolci avevano perso più peso: in media quasi sei chili, contro i 4 del gruppo di controllo, cioè il 44% in più. In più, oltre la metà dei primi (il 64%) aveva perso almeno il 5% del proprio peso iniziale, parametro considerato indicativo di una reale diminuzione di peso e associato a un decremento del rischio di diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari, contro il 43% dei controlli. Sempre i primi inoltre, riferivano di sentirsi molto meno affamati dei secondi, e mostravano livelli di colesterolo cattivo (LDL) e trigliceridi totali migliori dei primi.
Lo studio ricalca i risultati di altri due trial molto simili condotti nel 2012 e nel 2013 dai ricercatori dell’Università del North Carolina, e pubblicati sull’American Journal of Clinical Nutrition, dai quali emergeva che dopo sei mesi di dieta, coloro che avevano potuto bere bevande dolcificate avevano avuto maggiori chance di dimagrire, cioè di perdere appunto almeno il 5% del peso iniziale. Anche in quel caso, poi, i partecipanti che potevano soddisfare la propria necessità di dolce con i drink diet avevano resistito meglio alle tentazioni rappresentate da torte, biscotti e altri dolci. Secondo gli autori dello studio, questi risultati non devono stupire: il ruolo dei meccanismi di compensazione in chi cerca di perdere peso è noto da tempo, e poter soddisfare il desiderio di dolce con una bevanda che ha pochissime calorie aiuta a non cercare altrove, in alimenti più calorici, lo stesso appagamento (e ricompensa). Le bevande diet sarebbero inoltre oggetto di una sorta di guerra di religione, aprioristica, portata avanti soprattutto in rete, che non avrebbe alcun fondamento e che tenderebbe a perpetrare l’idea infondata che esse siano corresponsabili del dilagare dell’obesità. Ma la situazione non è così semplice. Lo studio, infatti, è stato finanziato anche dalla potentissima e aggressiva American Beverage Association, che da anni cerca in ogni modo di difendere i propri associati da una parte negando le responsabilità delle bevande dolci nel dilagare dell’obesità, e dall’altra sostenendo le virtù di quelle dolcificate. Susan Swithers, docente di neuroscienze comportamentali della Purdue University, così ha commentato, in un’intervista rilasciata alla CNN, l’esito dello studio: “L’indagine è durata soltanto 12 settimane, un periodo troppo breve per avere un effetto duraturo: non si può trarre alcuna conclusione da una sperimentazione così breve sul rischio nel lungo termine. E viceversa: se guardiamo i dati già oggi disponibili e relativi a periodi prolungati, è veramente arduo trovare argomenti a favore del consumo di bevande anche a calorie zero. Inoltre la maggior parte dei nutrizionisti ritiene che le bibite dolcificate in realtà facciano aumentare il desiderio di dolce, e non il contrario”.
http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/oby.20737/abstract