Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

Martedì, 20 Gennaio 2015 16:36

LE BENZODIAZEPINE CAUSANO L’ALZHEIMER.

20-01-2015

I farmaci a base di benzodiazepine sono i più diffusi e prescritti nel trattamento dell’ansia e dei problemi di insonnia. Tuttavia, non sono esenti da diversi – e spesso pesanti – effetti collaterali. Uno su tutti, l’assuefazione. Ma i rischi non si limitano a questo, secondo un nuovo studio infatti, l’uso di questo genere di farmaci – specie se prolungato – fa aumentare in modo significativo il rischio di sviluppare una malattia devastante come l’Alzheimer. A dare il chi va là agli utilizzatori di benzodiazepine è un nuovo studio pubblicato sul BMJ, il British Medical Journal, che avverte come l’uso ingiustificato a lungo termine debba essere considerato un problema di salute pubblica. E l’emergenza Alzheimer è reale, con circa 36 milioni di persone che in tutto il mondo ne soffrono – e le cifre sono destinate ad aumentare drammaticamente.
Gli scienziati, alla continua ricerca di una causa e di una cura, hanno preso in esame l’identificato aumento del rischio di demenza associato all’uso di benzodiazepine, dato che la natura di questa associazione, causale o meno, rimane poco chiara. Per questo motivo un team internazionale di ricercatori francesi e canadesi hanno voluto indagare sul rapporto tra il rischio di esposizione alle benzodiazepine e la malattia di Alzheimer, focalizzandosi su una potenziale relazione dose/risposta e sul periodo di tempo di utilizzo. Per far ciò, i ricercatori hanno utilizzato dati provenienti dal Quebec health insurance program database (RAMQ) al fine di rintracciare lo sviluppo della malattia di Alzheimer in un campione di anziani che vivono in Quebec (Canada) a cui erano stati prescritti farmaci a base di benzodiazepine. Durante un periodo di almeno 6 anni, gli autori hanno identificato 1.796 casi di malattia di Alzheimer. Hanno poi confrontato ogni caso con 7.184 persone sane abbinate per età, sesso e durata del follow-up. I risultati hanno mostrato che l’uso in passato di benzodiazepine, per tre mesi o più, è stato associato a un aumento fino al 51% del rischio di Alzheimer. E per più tempo si assumevano questi farmaci, più aumentava l’associazione. Infine, gli ulteriori aggiustamenti per i sintomi che potrebbero indicare l’inizio di demenza, come i disturbi d’ansia, depressione o di sonno, non ha alterato significativamente i risultati.
Secondo gli autori, questo ampio studio caso-controllo, dimostra che l’uso di benzodiazepine è associato a un aumentato rischio di malattia di Alzheimer. Tuttavia, sottolineano che la natura del legame non è ancora definitiva, ma l’associazione più forte osservata con le esposizioni a lungo termine «rafforza il sospetto di una possibile associazione diretta, anche se l’uso di benzodiazepine potrebbe essere un marker precoce di una condizione associata a un aumento del rischio di demenza». Questi risultati, sono di «grande importanza per la salute pubblica, soprattutto considerando la prevalenza e la cronicità dell’uso di benzodiazepine nelle popolazioni anziane e l’elevata e crescente incidenza della demenza nei Paesi sviluppati», concludono gli autori. Meglio dunque non eccedere nell’uso e utilizzare questi farmaci soltanto se strettamente indispensabile.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4159609/

20-01-2015

Le proteine, tanto demonizzate negli ultimi anni a causa del loro potenziale effetto acidificante, sembrano invece essere importanti nella prevenzione dell’ipertensione. A suggerirlo è un nuovo studio condotto dalla Boston University School of Medicine (BUSM). Studio che ha messo in evidenza come le persone che consumano elevate quantità di proteine avevano un rischio notevolmente ridotto di avere la pressione alta. E quando si parla di dieta iperproteica non si tratta di un modo di dire, infatti, stiamo parlando di un consumo di 100 grammi di proteine al giorno. La riduzione del rischio sembrerebbe essere addirittura del 40%.
Lo studio è durato oltre dieci anni, e ha determinato le assunzioni proteiche di alcuni partecipanti sani del Framingham Offspring Study. Tutti i volontari sono stati seguiti al fine di valutare l’andamento della pressione arteriosa. Dai risultati ottenuti si è potuto notare come gli adulti che consumavano grandi quantità di proteine – siano esse animali o vegetali – avevano statisticamente più possibilità di avere una pressione sistolica e diastolica ridotta, dopo quattro anni di follow-up. «Questi risultati non hanno fornito prove che suggeriscono che gli individui preoccupati per lo sviluppo di HBP [pressione sanguigna alta] dovrebbero evitare l’assunzione di proteine nella dieta – spiega Lynn Moore, professore associato di medicina presso la Boston University – ma, piuttosto, che l’assunzione di proteine sembra svolgere un ruolo nella prevenzione a lungo termine dell’HBP». Tutto ciò, secondo gli autori dello studio, non fa altro che confermare la necessità di ulteriori studi in merito al consumo di proteine associato ai disturbi vascolari e ai problemi cardiaci. Lo studio è stato recentemente pubblicato sull’American Journal of Hypertension.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=American+Journal+of+Hypertension++Lynn+Moore

20-01-2015

Il Maalox, indicato per il bruciore di stomaco, in realtà fa male allo stomaco perchè contiene sorbitolo, un dolcificante chimico che causa disturbi gastrici. Ma questo farmaco da banco ha come principio attivo l’alluminio, che ormai sappiamo quanto dannoso sia per l’organismo. Fegato, ossa, polmoni, tiroide e cervello sono i punti in cui l’alluminio si immagazzina nel nostro organismo. La percentuale di alluminio nel capello è in stretta relazione alla percentuale presente nelle ossa. E’ accertato che il morbo di Alzheimer è correlato anche ad alte quantità di alluminio nel tessuto cerebrale. L’alluminio è particolarmente tossico per il sistema nervoso, con una serie di sintomi che possono includere disturbi del sonno, nervosismo, instabilità emotiva, perdita di memoria, mal di testa, e compromissione intellettiva. Esso può fermare la capacità del corpo di digerire e fare uso di calcio, fosforo e fluoro. Questo impedisce la crescita ossea e riduce la densità delle ossa. L’alluminio può anche causare condizioni che effettivamente scacciano il calcio dalle ossa. Ciascuna di queste situazioni può portare a debolezza e a deformazione della struttura ossea, con effetti paralizzanti. L’avvelenamento può anche provocare dolori muscolari, disturbi del linguaggio, anemia, problemi digestivi, diminuzione della funzionalità epatica, coliche renali e compromissione della funzionalità renale.
L’alluminio è spesso aggiunto ai prodotti per l’igiene, come gli antitraspiranti e i bagnoschiuma. Ci sono sei sali di alluminio che sono stati approvati come additivi alimentari negli Stati Uniti. I sali più comunemente usati sono i fosfati di sodio e alluminio. Essi si aggiungono a torte, minestre, pasta surgelata, pancake mix, farine autolievitanti, formaggio fuso, cibi a base di formaggio e birra (in lattine di alluminio). Una singola fetta di formaggio fuso confezionata singolarmente può contenere fino a 50 mg di alluminio. Si pensa che il cheeseburger possa avere uno dei contenuti più alti di alluminio rispetto a qualsiasi alimento. I prodotti da forno hanno circa 5-15 mg per porzione. I cibi che sono stati cotti o conservati in pentole di alluminio e in fogli di alluminio sono un’altra fonte. Le stime dicono che fino a 4 milligrammi di alluminio possono essere trasferiti ad ogni porzione di alimenti acidi come i pomodori o gli agrumi che sono stati riscaldati o conservati con alluminio. Un sottaceto media grandezza contiene da 5 a 10 mg se è stato trattato in una soluzione di allume, come comunemente avviene. L’allume è una forma di solfato di alluminio che viene utilizzato nella soluzione di decapaggio per rassodare i cetrioli. Le scie chimiche e le vaccinazioni pure contengono alluminio…
Ma la tossicità del Maalox è dovuto anche alla presenza di altri elementi:

- Saccarosio (noto come lo zucchero da tavola): Provoca carie dentale: alcuni batteri che popolano il cavo orale, come lo Streptococcus mutans, hanno la capacità di metabolizzare il saccarosio (e gli altri zuccheri) producendo acido lattico. Come tutte le sostanze acide, incluse quelle di origine alimentare, l’acido lattico corrode a poco a poco la superficie dentale, demineralizzando progressivamente il dente. Il saccarosio, oltretutto, favorisce l’adesione di questi batteri alle superfici dentali, ostacolandone la rimozione con la saliva e le comuni pratiche di igiene orale.
L’impatto del saccarosio sui livelli glicemici è molto simile a quello dei vari alimenti ricchi in carboidrati complessi, come la pasta e il riso. Per prevenire obesità e sovrappeso, è quindi importante moderare non solo i quantitativi di zuccheri semplici, ma anche il consumo dei carboidrati più complessi. Può provocare diabete: lo stato infiammatorio cronico e le alterazioni metaboliche indotte dal sovrappeso e dall’obesità, congiuntamente all’indice glicemico medio-alto del saccarosio, contribuiscono in maniera rilevante all’insorgenza di insulino-resistenza e diabete mellito di tipo 2. La comparsa di questa malattia metabolica, pertanto, può essere favorita dall’assunzione cronica di elevati quantitativi di saccarosio, dato che simili abitudini alimentari predispongono al sovrappeso e all’obesità.

- Sorbitolo: Il sorbitolo viene infatti assorbito in modo parziale ed incompleto dall’intestino, e non stimola la secrezione di insulina; la prima caratteristica, unitamente alla capacità di richiamare acqua nell’intestino, ne spiega anche il marcato effetto lassativo quando assunto ad alte dosi. In soggetti predisposti, il sorbitolo può quindi aggravare i sintomi della sindrome dell’intestino irritabile, con comparsa di gonfiori e crampi addominali. In caso di iperglicemia, tipica dei pazienti diabetici, il sorbitolo ha la tendenza ad accumularsi all’interno delle cellule e ad uscirne con difficoltà; tutto ciò, considerata la sua capacità di trattenere acqua, può causare problemi di cataratte, retinopatia e neuropatie periferiche.

- E415 - Gomma di Xanthan: La gomma di xantano è un polisaccaride utilizzato come additivo alimentare. Viene ottenuto mediante un processo che implica la fermentazione di glucosio o di saccarosio da parte del batterio Xanthomonas campestris. Si ottiene a partire dalla fermentazione dell’amido di mais con un batterio presente nei cavoli ed il prodotto che ne deriva è una gomma di grande potere addensante. Notevole anche il suo potenziale come sospensore, che significa che è capace di mantenere elementi in sospensione in un liquido, senza che precipitino oltre ad essere capace di trattenere i gas. Alle dosi normalmente utilizzate, non si conoscono effetti collaterali negativi; si è però riscontrato che il lungo utilizzo di gomma xantano a dosi elevate può provocare flatulenza e gonfiore in tutti i soggetti, e in quelli maggiormente sensibili anche crisi d’asma, reazioni cutanee e allergie respiratorie.

- E412 - Gomma di guar: Trova largo e svariato impiego nell’industria alimentare. Viene utilizzata soprattutto come addensante in salse, condimenti, gelati, alimenti per animali, carni conservate, prodotti dietetici e bevande. Nel luglio 2007 è stata segnalata dalla commissione europea per la sicurezza alimentare una contaminazione da diossina, clorofenoli e furani nella gomma di guar distribuita in Europa dalla società svizzera Unipektin, che la importava dalla società indiana Indian Glycols. La contaminazione è stata scoperta in uno stabilimento rumeno della Danone. Dai controlli effettuati dalla società svizzera pare che la contaminazione fosse sistematica e si suppone che le tracce di diossina fossero presenti da vari anni. Sembra che la contaminazione fosse dovuta ad un trattamento massiccio delle culture di guar con anticrittogamici a base di policlorofenoli, ma che la gomma di guar sia stata addizionata nei prodotti finiti ad un dosaggio talmente basso che analiticamente avrebbe dato come risultato finale sia per la diossina che per i pentaclorofenoli un valore praticamente non rilevabile.

20-01-2015

Le aziende che producono cereali per la prima colazione hanno iniziato ad aggiungere vitamine, ferro e acido folico a fini commerciali, per dare l’idea di un alimento sano. Ma pare che abbiano avuto una pessima idea, almeno stando a un’analisi dell’Environmental Working Group (EWG). L’associazione americana ha analizzato oltre 1.500 tra i cereali più venduti e oltre mille snack, mostrando che contenevano livelli troppo elevati di vitamina A, niacina e zinco. Livelli considerati pericolosi dall’Institute of Medicine. Il problema si fa quindi duplice: non solo le vitamine e i minerali assunti non sono derivati da alimenti freschi (per i quali praticamente non esiste un limite massimo di sicurezza) ma sono anche in quantità eccessive.
Tra i cereali, 114 contenevano vitamina A, niacina e zinco in concentrazioni del 30% oltre i limiti considerati sicuri. In 27 tipi di snack la percentuale saliva al 50%. La cosa preoccupa soprattutto per i bambini, più piccoli e dunque con bisogni nutrizionali ridotti. Inoltre, latte e cereali sono un piatto particolarmente amato dai bimbi, che spesso assumono anche integratori alimentari. Diversi studi hanno mostrato che dosi eccessive di vitamina A possono danneggiare il fegato; mentre un eccesso di zinco può interferire con il sistema immunitario, e la niacina, se assunta in dosi troppo elevate, può portare vomito e problemi cutanei. Vitamine e minerali a parte, c’è anche un’altra buona ragione per scegliere con cura i cereali per la colazione. Gli stessi ricercatori hanno quantificato lo zucchero che si assume mangiandoli: in un anno, consumandone una tazza al giorno, buttiamo giù 4,5 kg di zucchero. I cereali di alcune marche infatti – come è emerso dall’indagine – devono la metà del loro peso unicamente al dolce,e sempre più controverso, ingrediente.

 

http://www.ewg.org/research/childrens-cereals

19-01-2015

Prima della scoperta della penicillina, molte sagge popolazioni utilizzavano il miele grezzo come rimedio contro le infezioni. Probabilmente non avevano il consenso di evidenze scientifiche, ma poco importava perché il metodo funzionava comunque – e probabilmente era questa la cosa più importante. Ora, però, a conferma che i nostri antenati agivano bene arriva un nuovo studio dell’Università di Lund (Svezia) i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista International Wound Journal. I ricercatori guidati dal dott. Tobias Olofsson hanno scoperto che nel miele fresco vi sono 13 batteri lattici, che formano un unico gruppo, che producono una miriade di composti antimicrobici attivi. Dopo averli identificati, gli scienziati hanno testato l’efficacia antibatterica dei composti sui più noti agenti patogeni che causano gravi infezioni nell’uomo, come per esempio lo Staphylococcus aureus meticillino-resistente (MRSA), lo Pseudomonas aeruginosa e l’Enterococcus vancomicina-resistente (VRE) e altri ancora.
A sorpresa – giacché si tratta di un prodotto naturale, e per questo spesso ritenuto da molti poco efficace – una volta applicati i batteri lattici sugli agenti patogeni in laboratorio, questi li hanno neutralizzati tutti. Una bella scoperta, se teniamo conto che le infezioni resistenti agli antibiotici sono oggetto di un’inarrestabile diffusione che sta mietendo sempre più vittime in tutto il mondo. Anche se per ora i test su ceppi di batteri che infettano gli esseri umani sono stati condotti soltanto in laboratorio, i risultati sono stati più che promettenti. Ma una serie di esperimenti sul campo hanno mostrato che i batteri lattici del miele sono attivi anche sugli animali. Qui, i ricercatori hanno testato i LAB (Lactic Acid Bacteria) su un gruppo di dieci cavalli che erano affetti da ferite cutanee che non si riuscivano a curare con i tradizionali antibiotici. Hanno applicato sulle ferite una miscela di LAB e miele, per poi scoprire che tutti i cavalli sono guariti.
Il motivo per cui il miele è stato così efficace, secondo gli scienziati, è perché in questo vi è coinvolta una vasta gamma di principi attivi. «Gli antibiotici sono per lo più una sostanza attiva, efficace contro solo un ristretto spettro di batteri – sottolinea il dott. Olofsson – Quando usato vivo [il miele], questi 13 batteri lattici producono a seconda della minaccia il giusto tipo di composti antimicrobici necessari. Sembra che abbia funzionato bene per milioni di anni nella tutela della salute delle api e del miele contro altri microrganismi nocivi». «Tuttavia – aggiunge il ricercatore – il miele comprato al supermercato non contiene i batteri lattici viventi, e molte delle sue proprietà uniche sono andate perdute negli ultimi tempi». L’ideale è dunque utilizzare un miele fresco e vivo, acquistandolo da un apicoltore di fiducia che non utilizzi mezzi moderni di produzione intensiva come per esempio il riscaldamento o la pastorizzazione per mantenerlo liquido. Il passo successivo dei ricercatori sarà ora quello di indagare l’uso clinico più ampio contro le attuali infezioni umane e degli animali. I risultati, se rimarranno così promettenti, avranno ripercussioni positive nei Paesi in via di sviluppo, dove le infezioni possono avere esiti peggiori, ma dove, per contro, il miele fresco è più facilmente disponibile. Tuttavia ne potranno beneficiare anche i Paesi occidentali dove la resistenza agli antibiotici è sempre più diffusa e preoccupante.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25196349

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25195876

Lunedì, 19 Gennaio 2015 10:12

IL CIBO SPAZZATURA MODIFICA IL CERVELLO.

19-01-2015

I tempi sono cambiati. Poco più di mezzo secolo fa le persone lottavano contro la fame. Le famiglie povere erano costrette a dividersi mezzo tozzo di pane a testa, magari insaporito con un pesce affumicato appeso al soffitto di casa per tutta la stagione invernale. Oggi – crisi a parte – il problema della fame è in parte risolto. Ma, nonostante ciò, aumentano i problemi di salute associati all’alimentazione. Paradossalmente, oggi ce ne sono di più di ieri. E il motivo non sarebbe legato alla scarsità di cibo, ma alla qualità di ciò che introduciamo nel nostro organismo. Il supermercati abbondano di alimenti ben confezionati, con sapori eccellenti che sbandierano ingredienti allettanti. Peccato, però, che molti di questi siano considerati cibo spazzatura. Si tratta, cioè, di alimenti eccessivamente raffinati arricchiti con ogni sorta di insaporitori. Il risultato? Cibi sì gustosi – spesso troppo – con però tante calorie e zero nutrienti essenziali. Questo tipo di dieta – se così la vogliamo chiamare – è stata testata sui ratti da un gruppo di ricercatori australiani. Tra i vari aspetti indesiderati, come per esempio l’aumento di peso, gli scienziati hanno anche notato che il cibo spazzatura modificava profondamente il loro comportamento. Lo studio, pubblicato recentemente su Frontiers in Psychology, è stato anche in grado di dimostrare come il consumo eccessivo di cibo spazzatura riduca quasi del tutto l’autocontrollo e porti a mangiare troppo.
Il team di ricerca, guidato dalla professoressa Margaret Morris della Scuola di Scienze Mediche dell’University of New South Wales (UNSW), è riuscito a insegnare ai ratti di sesso maschile l’associazione tra due differenti segnali audio e una bevanda a base di acqua e zucchero dal sapore di ciliegia o uva. I ratti sani, allevati con una dieta altrettanto sana, hanno smesso di rispondere agli stimoli legati a un sapore che li aveva recentemente soddisfatti. Questo è un meccanismo particolarmente diffuso tra gli animali che li protegge dall’eccesso di cibo, promuovendo al tempo stesso una dieta equilibrata. Tuttavia, dopo aver mangiato per due settimane degli alimenti tipici delle mense, tra cui torte, gnocchi e biscotti, che contenevano oltre il 150% delle calorie, è aumentato il peso dei ratti e si è modificato il comportamento in maniera drammatica. Inoltre sono diventati totalmente indifferenti nelle loro scelte alimentari, indicando la loro perdita nella preferenza naturale alle novità. Il cambiamento durò ancora parecchio tempo dopo l’eliminazione del cibo spazzatura. Da tutto ciò, i ricercatori ne deducono che tali alimenti provochino modificazioni durature nelle parti del circuito cerebrale di ricompensa. Tra queste potrebbe essere interessata la corteccia orbitofrontale, una zona responsabile del processo decisionale. Considerando che il circuito per la ricompensa è uguale in tutti i mammiferi, questo fenomeno potrebbe avere implicazioni negative nella capacità delle persone di limitare l’assunzione di alcuni tipi di alimenti.
«La nota interessante di questa scoperta è che se la stessa cosa accade negli esseri umani – spiega la professoressa Morris dell’UNSW – mangiare cibo spazzatura può cambiare le nostre risposte ai segnali associati con ricompense alimentari». Secondo Morris, l’aver appena mangiato un cibo spazzatura non ci mette al riparo dal volerne mangiare altro non appena lo vediamo o ne sentiamo l’odore. Bisogna anche tenere presente che i dati in merito all’aumento di peso derivati da questo genere di alimenti è allarmante: si parla di quasi 3 milioni di persone che muoiono ogni anno in tutto il mondo a causa di sovrappeso e obesità. «Poiché l’epidemia mondiale di obesità si sta intensificando, le pubblicità possono avere un effetto maggiore sulle persone che sono in sovrappeso e diventa più difficile resistere dal fare spuntini come le barrette di cioccolato», conclude il dottor Amy Reichelt, autore principale dello studio.

 

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/08/140827151744.htm

http://www.eurekalert.org/pub_releases/2014-08/f-jfm082514.php

http://journal.frontiersin.org/Journal/10.3389/fpsyg.2014.00852/abstract

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4146395/

16-01-2015

Sono sempre più diffusi i bicchieri e i piatti in polistirene (o polistirolo) utilizzati per mantenere caldi, o freddi, i cibi e le bevande. Sono utilizzati in particolare per i piatti d’asporto, ma anche da molti fast-food, bar, ristoranti self-service e così via. Sono considerati pratici e comodi ma, a fronte di questo vantaggio pratico, potrebbero esserci dei seri rischi per la salute: un avvertimento che arriva dal Consiglio Nazionale delle Ricerche Usa che, lo scorso lunedì, ha ribadito che lo stirene può provocare il cancro nelle persone. Lo stirene, per chi non lo sapesse, è l’elemento chimico chiave nella produzione di tazze, bicchieri e piatti di questo genere. Pur avendo preso atto della possibile evidenza che questa sostanza sia potenzialmente cancerogena, gli esperti del CNR mettono le mani avanti, sostenendo che nonostante si possa «ragionevolmente prevedere che sia cancerogeno per l’essere umano», sono necessari ulteriori approfondimenti. «Penso che sia importante tenere a mente che questa è una valutazione del pericolo – sottolinea la dott.ssa Jane Henney, che ha presieduto il comitato di esperti del Consiglio di ricerca – Il nostro rapporto dice che questa sostanza chimica potrebbe essere un problema, ma una completa valutazione del rischio in base alla dose, all’esposizione, alla quantificazione e l’ulteriore caratterizzazione del rischio, dovrebbe essere fatta prima di pensare a una regolamentazione in questo settore».
Se dunque vi è una spiegazione scientifica che suggerisce la potenziale cancerogenicità dello stirene, per contro, gli esperti ritengono vi possano anche essere «spiegazioni alternative, come la casualità, distorsioni o fattori confondenti». Gli esperti, quindi, non si sbilanciano più di troppo: ammettono che questa sostanza possa essere potenzialmente cancerogena, ma che non si è sicuri di ciò. Forse, come spesso accade, si aspetta che scoppi un altro caso “amianto”, prima di decidersi a fare qualcosa. Secondo altri esperti invece – specie oncologi – lo stirene è un perturbatore endocrino, ossia un elemento che interferisce con il sistema ormonale, imita gli estrogeni e promuove la crescita dei tumori. In definitiva, gli esperti non negano che lo stirene possa essere cancerogeno, ma nemmeno affermano che sia così.

 

http://www.dailymail.co.uk/health/article-2709577/Do-foam-cups-contain-cancer-causing-chemicals-Leading-panel-says-styrene-human-carcinogen.html

Venerdì, 16 Gennaio 2015 13:30

PRESSIONE ALTA: IL SALE NON C'ENTRA NULLA.

16-01-2015

Il sale fa salire la pressione? Può essere causa di ipertensione? Se provate a porre questa domanda, chiunque risponderà di sì. Questo perché ci è sempre stato detto che è così, e numerosi studi lo hanno suggerito. Ma come ormai dovremmo sapere, il bello della ricerca è che ogni tanto uno studio smentisce quello precedente e le sue conclusioni – o almeno in parte. Una nuova ricerca pubblicata sull’American Journal of Hypertension suggerisce dunque che il sodio ha un’influenza meno profonda sulla salute, rispetto a quanto ritenuto fino a oggi. Ad avere infatti una maggiore influenza sulla pressione arteriosa sistolica sarebbero l’aumento dell’indice di massa corporea (BMI), l’età e fattori dietetici non legati al sodio. In questo studio di coorte sono stati misurati gli effetti dell’assunzione di sodio, dell’indice di massa corporea, dell’attività fisica, del consumo di alcol e fattori dietetici non legati al sodio, sulla pressione sanguigna di 8.670 adulti francesi. I risultati hanno portato i ricercatori a concludere che l’indice di massa corporea, l’età e l’assunzione di alcol erano tutti fortemente legati agli aumenti di pressione sanguigna. L’assunzione di sodio, tuttavia, è risultata essere statisticamente insignificante sulla pressione sanguigna rispetto ai risultati. Per contro, un maggior consumo di frutta e verdura ha dimostrato di avere un impatto significativamente salutare sulla pressione, mantenendola più bassa, mentre una maggiore attività fisica non ha mostrato alcun effetto evidente. Nessuno dei partecipanti sottoposti ad analisi e misurazione della pressione ha ricevuto un trattamento farmacologico per l’ipertensione durante lo studio.
Secondo il dott. Jacques Blacher e colleghi, i risultati di questo studio dovrebbero indurre chi si occupa di sanità pubblica a prendere in considerazione che vi possano essere diverse misure di impatto sulla pressione arteriosa da parte di altrettanti diversi fattori – e che il sale probabilmente non è il principale imputato. «L’ipertensione è la malattia cronica più diffusa al mondo – sottolinea Blacher, che è il principale autore dello studio –. Colpisce oltre il 30% degli adulti di età compresa tra i 25 anni e oltre, ed è causa di 9,4 milioni di morti ogni anno. Data la sua crescente prevalenza e la difficoltà che abbiamo come comunità sanitaria globale nella sua gestione, dovrebbe essere fatto di più per identificare le relazioni comportamentali causali e gli effetti sulla pressione sanguigna, che possono portare a strategie migliori per prevenire l’ipertensione». «Lo studio osservazionale di Lelong et al., sottolinea l’associazione della pressione sistolica con il BMI – ha aggiunto il dottor Theodore Kotchen, Editore Associato dell’American Journal of Hypertension –. Inoltre, lo studio affronta l’importanza relativa del BMI con componenti specifici della dieta come possibili contributori all’ipertensione». In definitiva, il sale non è il principale colpevole e dunque non basta eliminarlo o ridurlo per mettersi al riparo dal rischio ipertensione.

 

http://ajh.oxfordjournals.org/content/early/2014/09/03/ajh.hpu164

http://www.eurekalert.org/pub_releases/2014-09/oupu-sio090814.php

16-01-2015

Tè o caffè? Nel nostro Paese vince senza ombra di dubbio la tazzina fumante di caffè. Eppure, secondo un nuovo studio presentato al recente Congresso ESC (European Society of Cardiology), sarebbe il tè ad apportare maggiori benefici in termini di salute. Lo studio, guidato dal professor Nicolas Danchin, è stato condotto su 131.000 persone ed è stato in grado di dimostrare come il tè sia in grado di ridurre la mortalità non cardiovascolare del 24%. «Se dovete scegliere tra tè o caffè è probabilmente meglio bere il tè. Caffè e tè sono componenti importanti del nostro modo di vita e i loro effetti sulla salute cardiovascolare (CV) sono stati studiati in passato con risultati talvolta divergenti. Abbiamo studiato gli effetti del caffè e del tè sulla mortalità CV e la mortalità non CV in un’ampia popolazione francese a basso rischio di malattie cardiovascolari», spiega il professor Danchin.
Per arrivare a tali conclusioni i ricercatori hanno reclutato persone di età compresa fra i 18 e i 95 anni che eseguivano controlli sanitari presso il centro di Medicina preventiva di Parigi (IPS) dal gennaio 2001 al dicembre 2008. Il follow-up è durato tre anni e mezzo, periodo in cui sono morte 95 persone per problemi cardiovascolari e 632 per altre motivazioni. Il consumo di tè o caffè è stato valutato attraverso la compilazione di un questionario cui bisognava indicare una delle seguenti classi di consumo: più di quattro tazzine al giorno, da una a quattro tazzine al giorno, nessuna tazzina al giorno. Dai risultati è emerso che i bevitori di caffè avevano un profilo di rischio cardiovascolare più elevato rispetto ai non bevitori, soprattutto a causa del fumo. Inoltre, le persone che non bevevano caffè erano più attive fisicamente e la percentuale si attestava intorno al 45% rispetto ai bevitori di caffè che era di circa il 41%. «Questo è molto significativo nella nostra grande popolazione», continua Danchin. Le persone che bevevano molto caffè erano di norma più anziane rispetto ai non bevitori, con un età media di 44 anni.
Minime, invece, le differenze di pressione sanguigna: i consumatori di caffè avevano la pressione sistolica (SBP) leggermente più bassa, ma più elevata la diastolica (DBP) rispetto a chi non assumeva caffè. Al contrario, chi amava il tè mostrava di avere un profilo di rischio cardiovascolare migliore. Tuttavia quasi un terzo (il 34%) dei non bevitori di tè fumava, rispetto a un 24% di fumatori tra chi beveva da una a quattro tazze al giorno. Inoltre, più bevevano tè più era alto il livello di attività fisica. Le foglie di tè sembravano avere anche effetti più marcati sulla pressione sanguigna rispetto al caffè: la diminuzione era di circa 5 mmHg nella pressione sistolica e 3 mmHg nella diastolica. «Nel complesso si tende ad avere un profilo di rischio più elevato per i bevitori di caffè e un profilo di rischio più basso per bevitori di tè. Abbiamo anche trovato grandi differenze di genere. Gli uomini tendono a bere il caffè molto di più rispetto alle donne, mentre le donne tendono a bere più tè rispetto agli uomini», dichiara Danchin. In sintesi, si può dire che la mortalità cardiovascolare è lievemente più alta nei consumatori di caffè, ma non statisticamente significativa. Il tasso di mortalità è invece aumentato a livello non cardiovascolare, ma diminuiva vistosamente se veniva eliminato il fumo. «Il trend di mortalità più elevato nei bevitori di caffè – sottolinea Danchin – è probabilmente in gran parte spiegato dal fatto che ci sono più fumatori nel gruppo che beve molto caffè». Il tè sembra ridurre la mortalità cardiovascolare, ma l’effetto a conti fatti non era così significativo se si aggiustavano i parametri per età, sesso e vizio del fumo. Quello che invece appariva evidente è che il tè era in grado di ridurre vistosamente il rischio di morte non cardiovascolare. «Bere il tè abbassa il rischio di morte non-CV del 24% e la tendenza alla riduzione della mortalità CV era quasi significativa – fa notare Danchin –. Quando abbiamo esteso la nostra analisi al 2011 abbiamo scoperto che il tè ha continuato a ridurre la mortalità generale durante il periodo di 6 anni. Interessante notare che la maggior parte degli effetti del tè sulla mortalità non-CV è stata trovata in attuali fumatori o ex-fumatori, mentre il tè ha avuto un effetto neutrale nei non fumatori. Il tè possiede antiossidanti che possono fornire benefici di sopravvivenza nei bevitori che hanno anche stili di vita più sani. Chi beve il tè riflette un profilo particolare di persona o è il tè, di per sé, che migliora i risultati? In attesa di risposta a questa domanda, penso che si potrebbe raccomandare abbastanza onestamente di bere il tè al posto del caffè».

 

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/08/140831125253.htm

http://www.eurekalert.org/pub_releases/2014-08/esoc-dtr082614.php

16-01-2015

Mangiare banane aiuta le donne in post-menopausa a ridurre il rischio di insorgenza dell'ictus. Alla conclusione sono arrivati alcuni ricercatori dell'Albert Einstein College of Medicine di New York, che hanno pubblicato sulla rivista dell'American Heart Association uno studio su questo alimento tanto ricco di potassio, che abbatterebbe di un quarto le possibilità di un ictus. Il campione analizzato dagli scienziati era composto da oltre 90 mila donne in post-menopausa con un'età compresa fra i 50 e i 79 anni, seguite per un periodo di 11 anni. I ricercatori hanno verificato in particolare il consumo di potassio attraverso l'alimentazione e i casi di ictus. È emerso che le donne che hanno assunto una maggiore percentuale di potassio mostravano un rischio inferiore del 12 per cento di subire un ictus in genere e del 16 per cento di essere colpite da un ictus ischemico in particolare.
Ma il rischio si riduceva ancor di più nelle donne che non soffrivano di pressione alta, con percentuali rispettivamente del 21 e del 27 per cento. Nelle donne affette da ipertensione, invece, nonostante l'assunzione di potassio garantisse un rischio inferiore di morte, il pericolo di ictus rimaneva lo stesso. La dott.ssa Sarah Wassertheil-Smoller, coordinatrice dello studio, spiega: "i nostri risultati suggeriscono che le donne hanno bisogno di mangiare più cibi ricchi di potassio. Non troverete elevati livelli di potassio nel cibo spazzatura. Alcuni cibi ricchi di potassio sono le patate bianche e dolci, le banane e i fagioli bianchi". Anche un'assunzione esagerata di potassio, tuttavia, mette a rischio l'organismo. Una percentuale troppo elevata della sostanza è pericolosa per il cuore.

 

http://blog.heart.org/potassium-rich-foods-cut-stroke-death-risks-among-older-women-american/

http://www.washingtonpost.com/national/health-science/older-women-can-reduce-stroke-risk-with-potassium-rich-diets-study-shows/2014/09/04/2e322928-346b-11e4-9e92-0899b306bbea_story.html

http://uk.reuters.com/article/2014/09/09/us-potassium-stroke-women-idUKKBN0H42BI20140909

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/09/140904183729.htm

http://newsroom.heart.org/news/potassium-rich-foods-cut-stroke-death-risks-among-older-women?preview=3354

http://stroke.ahajournals.org/content/45/10/2874

 

 

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