Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

19-08-2016

La sindrome di Gilbert è una delle poche malattie conosciute a essere specificatamente dovuta a un'anomalia del sistema di detossificazione epatica, e in particolare al malfunzionamento della via di glucuronicazione di fase II, che determina un innalzamento cronico del livello di bilirubina nel siero e la comparsa di una lieve colorazione gialla nell'occhio in assenza di epatite. Un tempo considerata rara, questa malattia colpisce dal 5 al 7% della popolazione generale. La maggior parte dei soggetti restano asintomatici, ma alcuni presentano anoressia, malessere (debolezza) e stanchezza, tutti segni tipici della disfunzione epatica. Particolarmente significativo è il fatto che i portatori di questa sindrome sono più predisposti alle reazioni tossiche degli xenobiotici e ai farmaci, come per esempio il comunissimo paracetamolo, soprattutto se assunto in dosi superiori a quelle consigliate. La tossicità si manifesta perchè, se il paracetamolo non viene trasformato abbastanza velocemente dai sistemi di fase II, viene in parte degradato dagli enzimi della fase I, che lo convertono in una forma ancora più attiva e più tossica. Questa forma bioattiva si lega a molecole all'interno della cellula, provocando danni e addirittura la morte cellulare. Generalmente i pazienti affetti dalla sindrome di Gilbert hanno una velocità di glucuronicazione del paracetamolo del 31% più bassa rispetto ai soggetti sani.
Altri comuni farmaci il cui metabolismo risulta alterato nella sindrome di Gilbert sono mentolo, clofibrato e tolbutamide. Il digiuno, durante il quale il glutatione disponibile viene consumato molto rapidamente, è sconsigliato a questi malati, che infatti dopo un digiuno prolungato diventano itterici. Esistono vari rimedi per questa disfunzione epatica. Il primo passo consiste nel proteggere da ulteriori danni l'enzima indebolito, evitando l'acqua fluorurata e altre fonti di fluoruro. Essendo un inibitore enzimatico, il fluoruro riduce ulteriormente l'attività dell'enzima glucoronil-transferasi. Da uno studio al riguardo è emerso che il lieve ittero dei malati di sindrome di Gilbert scompariva quando smettevano di bere acqua fluorurata e ricompariva non appena ricominciavano. La metionina somministrata sotto forma di S-adenosil metionina (SAM) è particolarmente utile per trattare la sindrome di Gilbert perchè attiva varie vie della fase II. L'integrazione con 500 mg di questa sostanza due volte al giorno determina un notevole abbassamento della bilirubina nel siero dei pazienti affetti da sindrome di Gilbert.

Domenica, 08 Aprile 2018 05:55

MERLUZZO AL POSTO DEGLI PSICOFARMACI.

27-02-2016

Quando si parla di olio di fegato di merluzzo, rimedio terapeutico d’altri tempi, a molti che da bambini lo hanno loro malgrado conosciuto, ma anche a quelli che non ne hanno mai fatto uso, viene in mente qualcosa di sgradevole. Questo rimedio infatti veniva dato ai bambini ritenuti troppo gracili che lo ingoiavano decisamente controvoglia e che, in tempi moderni è stato sostituito da una vasta gamma di integratori dietetici ritenuti più gradevoli ed efficaci, sembrava destinato ad un non triste declino e invece è stato recentemente riscoperto da alcuni pediatri che, sulla base dei risultati di nuove ricerche scientifiche, hanno scoperto altri benefici derivati dall’uso di questo olio. L’olio di fegato di merluzzo, che si ricava dal fegato fresco di alcune specie di gadus ed altre specie simili presenti nei mari del nord, è un olio ricco di vitamine A e D, importanti soprattutto per la vista e per fissare il calcio nelle ossa, ma vi troviamo anche i benefici acidi grassi omega-3 tanto utili per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. L’olio di fegato di merluzzo è utilizzato soprattutto come ricostituente e nei casi di rachitismo, ma recentemente nuovi studi effettuati dalla famosa Università di Oxford ritengono che l’antico prodotto naturale possa addirittura sostituire alcuni psicofarmaci.
La ricerca ha interessato più di un centinaio di bambini che presentavano sintomi della cosiddetta ADHD (Attention Deficit and Hyperactivity Disorder) un tipo di disturbo psichiatrico che negli ultimi tempi qualcuno dichiara allarmante, mentre altri ne mettono addirittura in dubbio l’esistenza. I bambini con questa sindrome vengono descritti come troppo vivaci o iperattivi e non sono in grado di concentrarsi su di una cosa alla volta e quindi ne risulta compromessa la capacità di apprendimento. Spesso questa presunta sindrome viene curata con psicofarmaci il cui uso è poco raccomandabile soprattutto se si tratta di bambini. Tornando al nostro vecchio olio di fegato di merluzzo, alcuni dei bambini che presentavano sintomi di ADHD sono stati trattati con integratori a base di olio di pesce ed altri con rimedi ad effetto placebo. Quelli che hanno ricevuto gli integratori sono notevolmente migliorati e questi miglioramenti sono stati più o meno uguali a quelli ottenuti con i farmaci senza, però, gli sgraditi effetti collaterali. Buoni effetti si sono avuti anche per quanto riguarda la terapia della “disprassìa” sindrome che compromette la coordinazione motoria. Secondo i ricercatori gli effetti benefici che si sono avuti con l’olio di fegato di merluzzo si devono alla presenza, in questo integratore, degli acidi grassi, in particolare gli ormai famosi omega-3, essenziali allo sviluppo e al buon funzionamento del cervello. I disturbi, che riguardano sempre di più i bambini, deriverebbero da una carenza nella dieta di questi preziosi grassi della cui presenza sono particolarmente ricche alcune specie di pesce.

 

http://www.dailymail.co.uk/health/article-206813/Fish-oil-helps-hyperactive-kids.html

Giovedì, 29 Marzo 2018 08:42

VITAMINA D CONTRO I DOLORI DEL PARTO.

30-03-2018

La vitamina D può aiutare a combattere i dolori del parto. E’ questa la scoperta fatta dagli scienziati del Cedars-Sinai Medical Center in Los Angeles che in questo modo sottolineano come si possa avere meno bisogno dell’epidurale nel corso del travaglio. La vitamina D è un nutriente da tempo associato a benefici dell’organismo, ma finora non si era pensato ad una sua azione antidolorifica. Essa è basilare per la salute delle ossa, è stato scoperto possa avere un effetto protettivo nei confronti di demenza ed Alzheimer, ma fino ad ora non si era valutato un suo uso contro questo specifico dolore. La lampadina si è accesa negli scienziati quando hanno notato che le donne con livelli più bassi di vitamina D avevano una maggiore propensione a richiedere l’epidurale nel corso del travaglio. Per confermare la loro ipotesi, i ricercatori guidati dal dott. Andrew Geller hanno preso un campione di 93 donne le quali avevano richiesto tutte quante l’epidurale per il proprio parto. A tutte è stato fatto un prelievo per verificare i livelli di vitamina D nel sangue e contestualmente è stata misurata la quantità di antidolorifici richiesta da ognuna delle gestanti. Coloro che mostravano una maggiore quantità di questo nutriente nell’organismo, hanno effettivamente richiesto meno anestesia per affrontare il travaglio. Spesso nel corso della gravidanza i livelli di questa vitamina scendono fisiologicamente: una dieta adeguata può sopperire a questo problema. Commenta il dott. Geller: "Abbiamo scoperto che le pazienti con bassi livelli di vitamina D vivono un dolore molto più forte durante il travaglio e che cresce particolarmente durante il parto". E’ la prima volta che la vitamina D viene associata al dolore del parto: fino ad ora i suoi bassi livelli erano stati collegati alla depressione. Per ovviare a questo problema ed avvicinarsi al momento della nascita del bambino con pochi problemi, è consigliato aggiungere alla propria dieta alimenti che contengono vitamina D come uova e olio di pesce.

 

http://consumer.healthday.com/bone-and-joint-information-4/pain-health-news-520/could-vitamin-d-make-labor-less-painful-692443.html

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/10/141014170634.htm

31-03-2018

La pelle dei nostri bambini è molto delicata. Per questo, è necessario prestare molta attenzione ed evitare prodotti che possano alterarne il normale pH o creare fastidiose irritazioni. Esistono però alcuni luoghi comuni, falsi miti sulla cura dei nostri bambini che vanno assolutamente sfatati. Ne ha parlato ad AdnKronos Pucci Romano, presidente dell’Associazione di Ecodermatologia Skineco. Romano affronta infatti il tema della skincare, mettendo in discussione alcune abitudini molto diffuse tra le mamme. Secondo l’esperta, infatti, “la pelle del bambino sta bene come sta. Meno roba gli si mette addosso meglio è. E, poi, anche i prodotti cosiddetti per bambini non è che diano tutte queste garanzie in termini di qualità“. Ma vediamo quali sono i suoi consigli.
Il primo interessante mito da sfatare secondo Romano è il bagnetto tutti i giorni. Il bagno quotidiano, infatti, stresserebbe la pelle dei bambini che nei primi mesi è molto meno strutturata di quella degli adulti e deve compiere molti passi importanti, come ad esempio l’assestamento immunologico. I problemi peggiorano quando utilizziamo prodotti aggressivi per la detersione. Ancora peggio quando si decide di lavare i bambini più volte al giorno al momento del cambio del pannolino. Secondo l’esperta, sono sufficienti in inverno 1-2 docce a settimana, con la detersione quotidiana solo di alcune parti del corpo: viso, mani, piedi e zone intime. Per la detersione, meglio prodotti naturali, a base di olio o bevande vegetali e soprattutto, privi di sostanze petrolchimiche.
No alle creme idratanti o a pasta o creme da pannolino, a meno che non ci sia un’infiammazione (in questo caso, potete provare anche con qualche rimedio naturale). Ancora, no al talco. Potete sostituirlo con qualche polvere più naturale, a base di amido o crusca, ma non sempre. Romano spiega infatti: “Potrebbe essere indicato quando fa molto caldo per la sudamina. Ma poiché i bambini hanno difficoltà nella termoregolazione, e quindi sudano di più, una sostanza occlusiva è da sconsigliare“. Da evitare anche i profumi per bambini che possono creare irritazioni o allergie. Stessa cosa per le salviette. Come spiega l’esperta, “la salvietta è un trionfo di petrolchimica. Capisco l’esigenza, ma basterebbe portarsi dietro dei fazzolettini a strappo di buona qualità e un pò di olio di riso per cambiare il pannolino. Insomma ci vuole un pò di buona volontà“. Per quanto riguarda il dentifricio, è bene evitarlo nei bambini più piccoli. Basta spazzolare i dentini con uno spazzolino morbido e acqua tiepida.

31-03-2018

Lo zinco, un minerale importante per la salute umana, sembra influenzare il modo in cui il sistema immunitario risponde alle stimolazioni, in particolare, all’infiammazione, secondo una nuova ricerca dell’Oregon State University. La carenza di zinco potrebbe svolgere un ruolo in malattie croniche come le malattie cardiovascolari, il cancro ed il diabete che coinvolgono l’infiammazione. Tali malattie spesso compaiono in adulti più anziani che sono a maggior rischio di carenza di zinco. "Quando c’è una carenza di zinco, le cellule che controllano l’infiammazione sembrano rispondere in modo diverso e sono indotte a promuovere una maggiore infiammazione", ha spiegato Emily Ho, Professore e Direttore del the Moore Family Center for Whole Grain Foods, Nutrition and Preventive Health in the OSU College of Public Health and Human Sciences e autore principale dello studio.
Lo zinco è un micronutriente essenziale necessario per molti processi biologici, tra cui la crescita e lo sviluppo, l’immunità e la funzione neurologica. Si trova naturalmente in alimenti ricchi di proteine come la carne e frutti di mare e tra questi, le ostriche hanno il più alto contenuto di zinco. In generale, circa il 12% delle persone è carente di zinco e questo tasso aumenta al 40% tra le persone con 65 anni di età. Gli anziani tendono a mangiare meno cibi ricchi di zinco e il loro corpo non sembra utilizzare e assorbire il minerale. Questo rende gli anziani molto sensibili alla carenza di zinco.
Nello studio, i ricercatori hanno cercato di comprendere meglio il rapporto tra la carenza di zinco e l’infiammazione. Gli esperimenti condotti, hanno indicato che la carenza di zinco ha indotto un aumento della risposta infiammatoria nelle cellule. I ricercatori hanno dimostrato per la prima volta che la riduzione di zinco causa l’attivazione impropria delle cellule immunitarie e disregolazione della citochina IL-6, una proteina che interessa l’infiammazione nella cellula. I ricercatori hanno anche confrontato i livelli di zinco nei topi giovani e anziani. I topi più anziani avevano bassi livelli di zinco che corrispondevano ad una maggiore infiammazione cronica e diminuita metilazione IL-6 che è un meccanismo epigenetico che le cellule utilizzano per controllare l’espressione genica. La diminuzione della metilazione IL-6 è stata trovata anche nelle cellule di persone anziane. "Gli studi suggeriscono un potenziale legame tra carenza di zinco e una maggiore infiammazione che possono verificarsi soprattutto con l’età", ha spiegato Ho.
Comprendere il ruolo dello zinco nel corpo è importante anche per determinare se le linee guida per l’assunzione di zinco devono essere adeguate. La dose giornaliera di zinco raccomandata per gli adulti è di 8 milligrammi per le donne e di 11 milligrammi per gli uomini, a prescindere dall’età. Attualmente non esiste un buon test biomarker per individuare se le persone assumono una corretta dose di zinco e determinare la sua carenza può essere difficile. Inoltre, il corpo non ha la capacità di immagazzinare lo zinco quindi la sua corretta assunzione è importante. Assumere troppo zinco può causare altri problemi in quanto esso, può interagire con altri minerali. Il limite massimo di assunzione di zinco è di 40 milligrammi al giorno. "Pensiamo che la carenza di zinco sia un problema più grande di quanto si crede e che la prevenzione sia molto importante. Capire meglio come lo zinco funziona nel nostro corpo è un settore importante per la ricerca futura", ha concluso Ho.

 

http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/mnfr.201400761/abstract;jsessionid=A2F31D8D691FC80E45362F24411DC488.f02t02

05-07-2015

Il resveratrolo può aiutare a prevenire il declino cognitivo età correlato, secondo una ricerca del Texas A&M Health Science Center of Medicine. Ashok K.Shetty, professore presso il Dipartimento di Medicina Molecolare e Cellulare e Direttore presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Istituto di Medicina Rigenerativa, ha studiato i potenziali benefici del rsveratrolo, un potente antiossidante che si trova in comuni alimenti come la buccia dell’uva rossa, arachidi e alcune bacche. Il resveratrolo è stato ampiamente propagandato per la sua capacità di prevenire le malattie cardiache, ma Shetty ed il suo team hanno dimostrato che esso ha anche effetti positivi sull’ippocampo, un’area del cervello che è fondamentale per funzioni come la memoria, l’apprendimento e l’umore. I risultati dello studio possono avere implicazioni nel trattamento della perdita di memoria negli anziani: sia gli umani che gli animali, mostrano un declino cognitivo dopo la mezza età. Inoltre, gli scienziati affermano che il composto può avere effetti positivi anche sulle persone affette da malattie neurodegenerative caratterizzate dalla perdita di memoria, come l’Alzheimer.
Shetty ed il suo team hanno dimostrato che il resveratrolo ha benefici evidenti sulla memoria, sull’apprendimento e sull’umore, in ratti anziani. ”I risultati della ricerca sono stati sorprendenti”, ha detto Shetty. ”Hanno dimostrato che per i ratti di controllo che non avevano ricevuto il resveratrolo, la capacità di apprendimento spaziale è rimasta immodificata, ma la capacità di memoria spaziale è significativamente diminuita tra i 22/25 mesi. Al contrario, sia l’apprendimento spaziale che la memoria spaziale, sono aumentate nei ratti trattati con il resveratrolo”. I ricercatori hanno anche dimostrato che la neurogenesi (la crescita e lo sviluppo di neuroni) è raddoppiata nei ratti trattati con resveratrolo, rispetto ai ratti di controllo. Inoltre, i ratti trattati hanno dimostrato un miglioramento nel microcircolo ed un livello inferiore di infiammazione nell’ippocampo. ”Lo studio fornisce la prova che il resveratrolo può aiutare a migliorare la memoria, l’apprendimento e l’umore, in età avanzata”, ha concluso Shetty. I ricercatori prevedono di effettuare ulteriori ricerche per verificare se basse dosi di resveratrolo nella dieta, per periodi prolungati, possono offrire gli stessi benefici al cervello, in età avanzata.

 

http://www.nature.com/srep/2015/150128/srep08075/full/srep08075.html

30-03-2018

Depurarsi dall’inquinamento atmosferico grazie ai broccoli. A sostenerlo alcuni ricercatori della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health all’interno dello studio pubblicato su Cancer Prevention Research. I broccoli favorirebbero l’azione naturale dell’organismo di eliminazione delle tossine e degli agenti inquinanti inalati durante la giornata. Lo studio statunitense è stato condotto in Cina, a circa 50 km da una delle città con la più bassa qualità dell’aria al mondo: Shanghai. Durante un periodo di dodici settimane è stato valutato il livello di espulsione di benzene e acroleina in corrispondenza al consumo di mezza tazza di bevanda ai germogli di broccoli. Secondo i risultati riportati dai ricercatori della Johns Hopkins l’espulsione di benzene sarebbe aumentata del 61% già a partire dal primo giorno, mentre quella di acroleina del 23%. A motivare questi benefici effetti secondo i ricercatori è la presenza di sulforafano, una sostanza ritenuta in grado di prevenire alcune patologie tumorali.
Lo studio rivela inoltre, commentano i ricercatori, come diventi sempre più importante lo sviluppo di forme di risposta all’inquinamento globale sia dal punto di vista della riduzione ambientale che di protezione dell’organismo. Secondo quanto affermato dagli autori dello studio, il Dr. John Groopman e la Dr.ssa Anna M. Baetjer: “L’inquinamento atmosferico è un problema di salute pubblica complesso e pervasivo. Per affrontare il problema globalmente, oltre alle soluzioni tecniche per ridurre le emissioni inquinanti regionali, abbiamo bisogno di tradurre la nostra scienza di base in strategie per proteggere le persone da queste esposizioni: il nostro studio sostiene lo sviluppo di strategie alimentari alla base di questo complessivo sforzo di prevenzione”.

 

http://www.jhsph.edu/news/news-releases/2014/broccoli-sprout-beverage-enhances-detoxification-of-air-pollutants-in-clinical-trial-in-china.html

30-03-2018

L’abuso di alcol a lungo termine provoca danni permanenti al cervello, così come può portare alla demenza: un legame già dimostrato da numerosi studi internazionali. Una ricerca americana ha trovato però un ingrediente che può aiutare a ridurre i danni derivanti dall’alcolismo: l’olio di pesce. Lo studio, condotto da ricercatori della Loyola University Chicago Stritch School of Medicine, in collaborazione con l’Università del Kentucky e con il National Institute of Alcohol Abuse and Alcoholism, ha analizzato un campione di ratti in laboratorio, sottoponendoli a una cura con l’acido docosaesaenoico (DHA), un grasso omega-3 presente nell’olio di pesce.
Le cellule cerebrali dei ratti sono state suddivise in due gruppi: la prima parte è stata sottoposta a un’abbondante e prolungata somministrazione di alcol, la seconda è stata sottoposta alla somministrazione di alcol e alla cura con il composto omega-3. Secondo i risultati della ricerca, pubblicata sulla rivista Plos One, le cellule sottoposte alla cura con il DHA presentavano degli stati di infiammazione e una quantità di cellule morte molto inferiore rispetto al gruppo di cellule non curato con il composto. In particolare, i dati riportano il 90% di neuroinfiammazioni in meno. Michael A. Collins, ricercatore alla Loyola University e co-autore dello studio, ha spiegato: “Secondi i risultati del nostro studio, l’olio di pesce ha un ottimo potenziale nella cura dell’abuso di alcol: può preservare l’integrità cellulare negli alcolisti cronici. Un risultato sorprendente: tuttavia, per avere una conferma definitiva dell’effetto benefico dell’olio di pesce sui danni cognitivi creati dall’alcol, saranno necessari ulteriori confronti in laboratorio”.
Naturalmente, i ricercatori si sono affrettati a sottolineare come l’olio di pesce non possa in alcun modo essere considerato una sorta di “cura preventiva” per i danni derivanti dall’alcolismo. Collins ha infatti concluso: ”Noi vogliamo assolutamente che la gente pensi che basti a prendere un paio di capsule di olio di pesce per poi poter abusare liberamente dell’alcol: l’unico modo per proteggere davvero il nostro cervello è non abusarne.

 

http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0101223

29-03-2018

Recentemente, gli scienziati hanno dimostrato che la vitamina C può essere una risposta al virus Epstein Barr (EBV) che può causare la mononucleosi, stanchezza cronica e linfoma di Hodgkin. Una ricerca pubblicata nel numero di maggio della rivista Medical Science Monitor ha esaminato se alte dosi di vitamina C possono uccidere il virus EBV. Gli autori hanno osservato i pazienti con diagnosi di infezione da EBV, mononucleosi, sindrome da fatica cronica o stanchezza, tra il 1997 e il 2006. Alcuni dei pazienti erano stati trattati con dosi di vitamina C per via endovenosa. Secondo i risultati della ricerca, sembra che le infezioni virali non possono sopravvivere in un ambiente in cui è presente la vitamina C. L’evidenza scientifica è chiara – la vitamina C riduce i livelli di EBV. Come hanno scritto gli autori dello studio, Nina Mirikova e Ronald Hunninghake, “i nostri dati forniscono la prova che alte dosi per via endovenosa di vitamina C hanno un effetto positivo sulla durata della malattia e riduzione dei livelli di anticorpi virali”. I ricercatori hanno scoperto che la vitamina C può aiutare i pazienti a superare la mononucleosi più velocemente, mentre gli individui infettati con Epstein-Barr avevano più bassi livelli di virus dopo aver ricevuto il trattamento con la vitamina C. La ricerca ha dimostrato che:

- I pazienti con alti livelli di vitamina C prima del trattamento, tendevano ad avere livelli più bassi di virus EBV, il che suggerisce che bassi livelli di vitamina C permettono al virus EBV di crescere più velocemente.

- Livelli di EBV sono diminuiti di quasi la metà dopo il trattamento con la vitamina C.

- I pazienti che hanno ricevuto almeno cinque trattamenti di vitamina C hanno recuperato più velocemente rispetto ai pazienti senza trattamento.

I partecipanti allo studio hanno ricevuto 7-50 grammi di vitamina C. Questo è un livello molto più elevato di quanto raccomandato dalla maggior parte delle organizzazioni sanitarie governative. Ovviamente, non è possibile ottenere da 7 a 50 grammi di vitamina C (7.000 a 50.000 milligrammi) con la sola dieta. Per dosaggi elevati, è necessario consultare un esperto. Le migliori fonti di vitamina C sono frutta e verdura, come ad esempio:

- Agrumi.
- Succhi di carota/mela/barbabietola/limone.
- Peperoni rossi e verdi.
- Fragole.
- Pomodori.
- Broccoli.
- Patate dolci.

Naturalmente, se è possibile, utilizzare sempre alimenti biologici. Mantenere il proprio sistema immunitario forte con una dieta sana, è il primo passo per prevenire l’infezione da EBV ed evitare che si trasformi in mononucleosi o in un’altra condizione.

 

http://www.naturalhealth365.com/viral-infection-treatment-vitamin-c.html

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4015650/

28-03-2018

Le persone a rischio di artrite reumatoide (RA) che consumano più acidi grassi omega-3, presenti nel pesce e integratori di olio di pesce, possono diminuire la loro probabilità di sviluppare la malattia, secondo una ricerca pubblicata su Rheumatology. L’artrite reumatoide provoca dolore, danni e, in ultima analisi, la disabilità. Secondo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC), ”l’artrite reumatoide provoca la morte prematura, disabilità e una qualità inferiore della vita”. Si può sviluppare a qualsiasi età e provoca stanchezza e rigidità prolungata, dopo il riposo. E’ una malattia infiammatoria sistemica che colpisce più articolazioni del corpo. Attacca di solito il rivestimento delle articolazioni (membrana sinoviale), ma può influenzare altri organi. Una maggiore prevalenza di malattie cardiovascolari (CVD) è stata osservata tra i pazienti con artrite reumatoide. Le cause esatte sono sconosciute, ma si pensa che la malattia sia dovuta ad una risposta immunitaria difettosa, in cui il sistema immunitario del corpo provoca infiammazione nel tessuto che aiuta le articolazioni a muoversi. Autoanticorpi o proteine del sistema immunitario, agiscono sui tessuti del corpo e degli organi, per errore. Non esiste una cura per l’artrite reumatoide, ma tecniche di esercizio specifiche possono aiutare a gestire la condizione. Ci sono anche alcune prove che fattori dietetici possono aiutare a tenere sotto controllo la malattia.
I ricercatori hanno indagato l’associazione tra livelli di omega-3 e rischio di sviluppare l’artrite reumatoide. Hanno analizzato i dati autoriportati sul consumo di omega-3 da 30 persone che avevano autoanticorpi per RA e 47 pazienti di controllo. Solo il 6,7% dei pazienti che avevano autoanticorpi per RA ha riportato l’assunzione di un supplemento di omega-3, rispetto al 34,4% nel gruppo di controllo. Gli esami del sangue hanno mostrato che i pazienti con autoanticorpi per RA avevano livelli più bassi di tre acidi essenziali omega-3, rispetto ai pazienti di controllo. Sembra che due degli acidi grassi omega-3 essenziali, EPA e DHA, possono essere efficaci nel sopprimere una particolare proteina che regola l’intensità e la durata della risposta immunitaria. L’autore principale dello studio, Jill Norris, Professore di Epidemiologia presso la Colorado School of Public Health, ha commentato: “C’è stata una sostanziale differenza nei livelli ematici di acidi grassi omega-3 tra le persone che hanno assunto supplementi di omega-3 e quelle che non hanno assunto questi supplementi”. Norris aggiunge che la genetica può anche svolgere un ruolo nell’efficacia finale degli omega-3 nei singoli pazienti a rischio di sviluppare l’artrite reumatoide.
Questo è il primo studio a trovare un’associazione tra omega-3 e gli autoanticorpi che portano a RA tra i pazienti che sono a rischio, ma devono ancora sviluppare la malattia. Nonostante il piccolo numero di partecipanti, i risultati indicano che gli omega-3 possono aiutare a proteggere dall’artrite reumatoide impedendo il suo sviluppo durante il periodo che precede la comparsa dei sintomi. Gli acidi grassi omega-3 si trovano nel pesce di acqua fredda, come il salmone o sgombro, nonché in integratori alimentari derivati da pesce o alghe; ma le sole fonti di cibo non possono essere sufficienti a fornire effetti benefici perché le pratiche industriali moderne hanno ridotto la quantità di omega-3 in molti alimenti, di ben 40 volte rispetto al 1900. I ricercatori raccomandano una dieta equilibrata sana che comprende pesce ricco di acidi grassi omega-3, così come 1-3 grammi al giorno di integratori di olio di pesce, per coloro che possono essere a rischio di artrite reumatoide e altre malattie infiammatorie.

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