Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

Lunedì, 29 Maggio 2017 11:10

ARGININA E SISTEMA IMMUNITARIO.

15-05-2015

L’arginina è un aminoacido che svolge un ruolo importante nella regolazione del sistema immunitario, grazie alla capacità di influenzare la risposta immunitaria e l’infiammazione. Questi i risultati di una recente analisi su oltre 300 soggetti che ha dimostrato che i partecipanti che assumevano integratori di L-arginina mostravano un aumento della proliferazione delle cellule CD4 (cellule fondamentali della risposta immunitaria) e una riduzione dell’incidenza delle complicanze di natura infettiva. Già in precedenti studi l’arginina ha mostrato di essere un potente immunomodulatore, la cui integrazione ha la capacità di favorire la produzione e l’attività dei linfociti, l’aumento dell’attività delle cellule NK e il miglioramento di altri parametri immunitari.
L’arginina presenta anche altre azione terapeutiche. È stato dimostrato che i suoi livelli plasmatici diminuiscono in maniera significativa in seguito a situazioni di stress e la sua assunzione sembra aumentare la resistenza agli stressor e il recupero post-stress. Interessante anche l’effetto dell’arginina sulla funzione cardiovascolare, in particolare nell’ipertensione, nell’angina pectoris e nell’aterosclerosi. Altro ruolo osservato è quello nella fertilità maschile, essendo l’arginina un fattore indispensabile per la normale produzione di sperma. La sua somministrazione, infatti, è in grado di migliorare la conta e la motilità spermatica. Inoltre, l’arginina, per l’azione vasodilatatoria, mostra la capacità di migliorare la risposta erettile.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25164444

 

Mercoledì, 17 Maggio 2017 09:55

PISCINA E BAMBINI: IL CLORO FA MALE AI POLMONI.

15-07-2014

È risaputo che il nuoto sia salutare per i bambini in via di sviluppo. Tuttavia, è meglio se lo praticano al mare. I ragazzi che trascorrono molto tempo in piscina hanno, infatti, maggiori probabilità di sviluppare malattie respiratorie. Diversi studi hanno scoperto la correlazione tra una prolungata esposizione al cloro e l'insorgere dell'asma. L'ultima è stato realizzato dai ricercatori della Catholic University di Louvain a Bruxelles, guidati dal tossicologo Alfred Bernard, che ha dimostrato come anche le piscine all'aperto siano pericolose per i polmoni dei ragazzini. I ricercatori hanno esaminato un campione di circa 847 studenti dai 13 ai 18 anni, informandosi sulla loro esposizione ad agenti che possono provocare l'asma, quali il fumo, il pelo degli animali domestici, l'inquinamento e il tempo che sono soliti trascorrere in piscina. Dall'analisi è risultato che per il 50% dei bambini il rischio che sviluppassero una predisposizione all'asma era direttamente correlato alla quantità di tempo trascorso in una piscina. È emerso che i bambini che frequentavano la piscina con maggiore assiduità - un'ora a settimana per 10 anni - hanno sviluppato una predisposizione maggiore di cinque volte allo sviluppo dell'asma, rispetto ai giovani che non avevano mai nuotato in una piscina. "I bambini sono a maggior rischio - spiega Bernard - perché, nuotando, deglutiscono accidentalmente, in quantità maggiore rispetto agli adulti, acqua che s'insinua nelle vie respiratorie, quando i loro polmoni sono ancora in via di sviluppo". Inoltre lo studio ha dimostrato che al contrario di quanto si riteneva, le piscine all'aperto sono pericolose come e più di quelle al coperto, perché i vapori nocivi rimangono sulla superficie dell'acqua, non si disperdono.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19752078

 

21-10-2014

Un nuovo studio pubblicato su Neurology, la rivista scientifica dell’American Academy of Neurology (AAN), suggerisce che bassi livelli di globuli rossi nel sangue e l’anemia possono aumentare il rischio di demenza precoce e declino cognitivo. Lo studio, condotto dai ricercatori dell’Università della California a San Francisco (UCSF) e coordinati dalla dottoressa Kristine Yaffe, ha visto il coinvolgimento di 2.552 adulti anziani di età compresa tra i 70 e i 79 anni che sono stati seguiti per oltre undici anni. I partecipanti sono stati sottoposti a esami clinici per accertare i livelli dei globuli rossi e la presenza di anemia. Gli esami hanno rivelato che 393 presentavano anemia al basale, mentre al termine dello studio 445 persone (il 18%) avevano sviluppato la demenza. «L’anemia è comune negli anziani – sottolinea Yaffe – e si verifica in circa il 23% degli adulti di età compresa tra i 65 anni e più. La condizione è anche stata collegata da diversi studi a un aumentato rischio di morte precoce».
I risultati dello studio, hanno infine mostrato che le persone che presentavano l’anemia all’inizio dello studio avevano un rischio maggiore di quasi il 41% di sviluppare demenza rispetto a chi non era già anemico. Il legame è rimasto tale anche dopo aver considerato altri fattori di rischio quali l’età, la razza, il sesso e il livello culturale. Delle 393 persone con precedente anemia, 89 persone (il 23%) hanno sviluppato la demenza, rispetto a 366 delle 2.159 persone che non avevano l’anemia. «Ci sono diverse spiegazioni del perché l’anemia può essere legata alla demenza – spiega Yaffe – Per esempio, l’anemia può essere un indicatore di cattiva salute in generale, o bassi livelli di ossigeno derivanti dall’anemia che possono giocare un ruolo nella correlazione. Riduzioni dell’apporto di ossigeno al cervello hanno dimostrato che possono ridurre la memoria e la capacità di pensiero, e possono anche contribuire a causare danni ai neuroni». 

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23902706

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3775683/

 

28-11-2014

Uno studio di follow-up rivela che gli uomini affetti da cancro alla prostata che hanno assunto supplementi di olio di pesce insieme a una dieta a basso contenuto di grassi, hanno dimostrato cambiamenti che possono indicare ridotta aggressività del cancro. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Cancer Prevention Research. I ricercatori dell'University of California-Los Angeles (UCLA) hanno cercato di utilizzare cambiamenti nella dieta come un potenziale intervento. Questo recente studio fa seguito a precedenti ricerche condotte dal team nel 2011. Lo studio precedente ha richiesto a due gruppi di uomini con carcinoma della prostata di seguire due diete distinte, per un periodo di 4-6 settimane. Il primo gruppo ha seguito una dieta a basso contenuto di grassi, costituita dal 15% di calorie da grassi e ha anche assunto 5 g di olio di pesce al giorno attraverso integratori, al fine di avere una regolare assunzione di acidi grassi omega-3. Gli acidi grassi Omega-3 sono tipi di grassi che si trovano comunemente negli oli vegetali e pesce. Omega-3 è noto per ridurre l’infiammazione ed è stato collegato a molti benefici per la salute, tra cui la prevenzione dei tumori del cavo orale e della pelle. Il secondo gruppo ha seguito una dieta occidentale ricca di grassi. Questa dieta si compone di circa il 40% delle calorie dai grassi – l’equivalente di quello che molti americani consumano ogni giorno, secondo i ricercatori. La dieta occidentale comprende anche alti livelli di acidi grassi omega-6 da olio di mais, ma bassi livelli di olio di pesce che fornisce omega-3. Gli uomini che hanno adottato la dieta a bassa percentuale di grassi hanno mostrato una crescita rallentata delle cellule tumorali, rispetto agli uomini che hanno seguito la dieta ricca di grassi. Inoltre, la ricerca ha scoperto che gli uomini che hanno seguito la dieta a basso contenuto di grassi, hanno mostrato cambiamenti nella composizione delle loro membrane cellulari in entrambe le cellule sane e cellule tumorali della prostata.
Questi uomini hanno mostrato un aumento dei livelli di acidi grassi omega-3, come risultato degli integratori di olio di pesce, ma hanno mostrato ridotti livelli di omega-6 nelle membrane cellulari, che potrebbero influenzare direttamente la biologia della cellula, secondo i ricercatori. Per questo recente studio, i ricercatori hanno voluto determinare esattamente come funziona la dieta a basso contenuto di grassi e integratori di omega-3, per produrre gli effetti riscontrati nella loro ricerca precedente. Pertanto, hanno misurato i livelli di sostanze pro-infiammatorie nel sangue e analizzato il tessuto del cancro prostatico dei pazienti, al fine di trovare la progressione del loro ciclo cellulare (CCP), una misura utilizzata per determinare la probabilità di recidiva nei pazienti. Analizzando una particolare sostanza pro-infiammatoria chiamata leucotriene B4 (LTB4), si è scoperto che gli uomini avevano livelli più bassi di questa sostanza dopo aver seguito la dieta a bassa percentuale di grassi e avevano anche punteggi più bassi di PCC. Ulteriore analisi hanno rivelato che uno dei recettori di LTB4 è presente sulla superficie delle cellule tumorali della prostata, una constatazione completamente nuova, secondo i ricercatori. I ricercatori fanno notare che i loro risultati sono molto importanti, in quanto in grado di abbassare i punteggi di PCC di un paziente e potrebbero costituire un modo nuovo di prevenire l’aggressività dei tumori della prostata. Commentando i risultati dello studio, William Aronson, un professore clinico di urologia presso la UCLA e autore principale dello studio, dice: “Gli studi suggeriscono che modificando la dieta, si può favorevolmente influenzare la biologia del cancro alla prostata”. Ulteriori studi sono in programma presso la UCLA per il prossimo anno, per indagare l’importanza del recettore LTB4 nella progressione del cancro alla prostata.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24169960

 

17-10-2014

Secondo uno studio condotto dall'Istituto svedese Karolinska di Stoccolma, e pubblicato sull'American Journal of Clinical Nutrition, coloro che mangiano regolarmente cibi ricchi di magnesio hanno un minor rischio di essere colpiti da un ictus e da malattie cardiovascolari. “L’assunzione di magnesio nella dieta - ha fatto sapere Susanna Larsson, professore all'Istituto Karolinska e coordinatrice dell'indagine - è inversamente associata al rischio di ictus, in particolare di ictus ischemico". Insomma, più la nostra dieta alimentare sarà ricca di magnesio, meno saremo soggetti all’ictus. 
Gli autori dello studio sono arrivati a queste conclusioni avvalendosi dell’analisi incrociata di diverse pubblicazioni realizzate nel corso degli ultimi 45 anni. Durante questo periodo sono state esaminate più di 250.000 persone in vari Paesi del mondo. Negli Stati Uniti, in Europa e in Asia i pazienti sono stati seguiti mediamente per 11,5 anni e di questi il 3% (ovvero circa 6.500) ha avuto un ictus nel tempo. Dall’analisi di queste persone, in sintesi, è emerso che ogni 100 milligrammi di magnesio assunti quotidianamente, il rischio di ictus diminuisce addirittura del 9%.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22205313

 

11-05-2015

Un tranquillo fine settimana, illuminato da un sole splendente: cosa fate cari genitori? Se il vostro programma è “divano-coperta-televisione” mentre i vostri bambini giocano alla playstation, forse è il caso di rivedere e cambiare qualche piano. Perché non approfittare delle tiepide ed assolate giornate primaverili per programmare una passeggiata all’aria aperta?  Vi sentirete più distesi e pieni di energia e farete un gran regalo alla salute dei vostri piccoli. L’attività fuori casa, infatti, oltre a contrastare efficacemente il problema dell’obesità infantile, è un toccasana per la preservazione della loro vista ed un efficace antidoto contro l’insorgenza della miopiaSecondo uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Cambridge (GB) e dell’Ospedale Universitario Ramon y Cajal di Madrid e presentato al Meeting annuale dell'American Academy of Ophthalmology,per ogni ora trascorsa all’aria aperta si riduce del 2% per i bambini il rischio di miopiaGli studiosi hanno esaminato 10.400 bambini ed adolescenti, mettendo in evidenza come, quelli miopi, trascorressero in media 3,7 ore in meno all’aria aperta rispetto a quelli che invece non avevano alcun problema di vista. Potere terapeutico dei giochi fuori casa, dunque? In un certo senso sì: oltre ai benefici effetti derivanti dall’esposizione alla luce naturale, piuttosto che a quella artificiale, bisogna considerare che trascorrere lungo tempo in spazi aperti educa gli occhi a muoversi su orizzonti più ampi rispetto a quelli offerti dalle mura di una stanza: a questo si aggiunge il fatto che, giocando all’aria aperta, si dedica meno tempo ad attività che portano a fissare lo sguardo su un obiettivo molto ravvicinato, come ad esempio un libro, la televisione o lo schermo di un computerCome sottolinea uno dei ricercatori, Francisco Josè Munõz Negrete, l’organo visivo si adatta alle esigenze del corpo: se principalmente ci serve per mettere a fuoco cose vicine, il bulbo oculare si allunga, cresce più del dovuto e quindi sorge la miopia”. E’ stato dimostrato che con due ore di gioco all’aria aperta ogni giorno, o comunque con quattordici ore settimanali, il rischio di miopia viene ridotto del 20%. Ancora dubbi su cosa fare nel weekend? 

 

 

01-10-2014

Una revisione preliminare dei singoli report suggerisce fortemente che alte dosi di vitamina D può essere uno dei trattamenti più efficaci per la sindrome dell’intestino irritabile (IBS). L'IBS, anche conosciuto come colon spastico, è una malattia caratterizzata da periodi di remissione, alternata a ricomparsa dei sintomi che tendono ad essere caratterizzati da diarrea o stitichezza, ma possono includere disturbi addominali, dolore e gonfiore. Molti pazienti riescono a trattare l’intestino irritabile attraverso una combinazione di terapie farmacologiche e alternative, ma nessuna terapia è costantemente efficace. Uno studio condotto da ricercatori dell’University of Sheffield, in Inghilterra, mostra l’efficacia dei trattamenti con vitamina D. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista BMJ nel dicembre 2012. Il documento ha segnalato il caso di una donna di 41 anni che aveva sofferto di “grave diarrea in condizione di IBS” per 25 anni e che aveva ricevuto la diagnosi circa 20 anni prima dello studio. Aveva subìto trattamenti con farmaci anti-spasmodici, inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), antidepressivi e farmaci antimicrobici, ma nessuno aveva avuto alcun effetto significativo sui suoi sintomi. Terapie dietetiche, evitando lattosio e glutine, avevano fornito sollievo dei sintomi, ma lei non aveva mai smesso di avere riacutizzazione della malattia. Allo stesso modo aveva ottenuto solo un minimo sollievo da altri trattamenti alternativi tra cui l’irrigazione del colon, l’ipnoterapia e l’uso di altri integratori tra cui l’aloe vera, acido caprilico, olio di aglio, the alla menta e probiotici. Attraverso i social media, la donna aveva appreso che altri malati stavano utilizzando in modo efficace la vitamina D3 come trattamento dell’intestino irritabile. “Il paziente ora assume da 2.000 a 4.000 UI di vitamina D3 al giorno”, hanno scritto i ricercatori. ”Il dosaggio varia in base alla stagione, 2000 UI in estate e 3.000-4.000 UI in inverno. Dal momento che ha iniziato questo regime di supplementazione, il soggetto ha presentato un significativo miglioramento dei sintomi e ora si avvia a normali abitudini intestinali. In 3 anni di integrazione, le recidive si verificano solo se la supplementazione viene interrotta. La supplementazione di vitamina D ha prodotto anche la fine della sua depressione e problemi di ansia” hanno segnalato i ricercatori.
Sulla base di questi notevoli risultati, i ricercatori hanno deciso di indagare sui casi simili. Hanno cercato in internet, siti web e attraverso un forum, pazienti affetti da intestino irritabile che avevano fatto uso di vitamina D. I ricercatori hanno identificato 37 pazienti affetti da IBS che hanno segnalato l’uso di vitamina D. Nel 70 per cento di questi casi, i pazienti hanno riferito che la supplementazione di vitamina D aveva portato a miglioramenti della loro condizione. Un paziente ha detto, “Io ho avuto IBS per circa 20 anni, ad agosto 2009 ho cominciato a prendere 3.000 UI di vitamina D. Lentamente, ho cominciato ad avere movimenti intestinali normali. Ho poi cominciato a prendere 5.000 UI di vitamina D al giorno e da allora mi sento di aver trasformato la mia vita”. Secondo Margherita T. Cantorna, ricercatrice della Penn State University, l’intestino irritabile può effettivamente causare la carenza di vitamina D. Si raccomanda a tutti i pazienti affetti da IBS, di monitorare i loro livelli di vitamina D prima di prendere in considerazione questa terapia. Poiché la vitamina D è liposolubile e potrebbe essere pericolosa a dosi estremamente elevate, la Dott.ssa Cantorna raccomanda inoltre ai pazienti, di non seguire un autotrattamento, ma di consultare un professionista olistico.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23239770

https://www.vitamindcouncil.org/vitamin-d3-treatment-for-irritable-bowel-syndrome/

 

20-12-2016

I batteri probiotici sono noti per essere fondamentali nei regolari processi gastrici e intestinali, ma quello che probabilmente non si sapeva è che possono anche offrire un grande potenziale per il trattamento della depressione e altri disturbi legati allo stress. Se dunque vi è molta letteratura sugli effetti dei probiotici sul sistema digerente e intestinale – tra cui l’effetto positivo nel contrastare i danni causati dagli antibiotici – qualcuno si sorprenderà nel sentire nominare il termine “psychobiotic”, o psicobiotico, un nuovo concetto nato proprio per esplorare il possibile impatto dei probiotici sul comportamento.
Lo psicobiota, così come definito dal dottor Timothy Dinan e colleghi dell’University College di Cork, in Irlanda, è «un organismo vivo che, se ingerito in quantità adeguate, produce un beneficio per la salute in pazienti affetti da malattie psichiatriche». Lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Biological Psychiatry, è stato condotto su modello animale al fine di valutare gli effetti del probiotico B. infantis su un gruppo di topi che mostravano i sintomi della depressione dovuti alla separazione materna. La somministrazione di questo probiotico in misura adeguata ha sortito un effetto positivo sul comportamento dei topi, i quali mostravano una normalizzazione sia a livello psichiatrico che a livello fisiologico nella risposta immunitaria che, prima del trattamento, era anormale. A commento dei risultati, i ricercatori concludono che lo studio – così come altri precedenti studi – sostiene in modo significativo l’ipotesi che i probiotici hanno la capacità di esercitare effetti comportamentali e immunologici.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23759244

 

28-09-2014

Alcuni ricercatori hanno scoperto che i bambini afro-americani affetti da asma a Washington DC, presentano sensibilmente livelli più bassi di vitamina D rispetto ai bambini in buona salute. Questo studio sostiene una recente ricerca che suggerisce che la vitamina D giochi nel corpo un ruolo molto più importante che mantenere le ossa sane. Recentemente la carenza di vitamina D è stata collegata ad una varietà di malattie compreso depressione, disordini autoimmuni e ora asma. Il gruppo di ricerca ha trovato che l’86 per cento dei bambini con asma studiati avevano livelli insufficienti di vitamina D, paragonati al 19 per cento dei non asmatici. Soltanto il 5-37 per cento dei bambini americani rispondono allo standard normale per la vitamina D definito dall’American Academy of Pediatrics. Sebbene il latte materno sia l’alimento perfetto in ogni senso, esso è spesso basso in vitamina D. Poichè gli esseri umani hanno avuto origine nelle zone equatoriali assolate tutto l’anno, i bambini preistorici non avrebbero avuto bisogno di ottenere la vitamina D dal latte materno. Molte madri inoltre sono carenti in vitamina D. Sulla base di questi fatti, i ricercatori ora suggeriscono che la maggior parte dei bambini dovrebbero prendere un supplemento quotidiano di vitamina D (USA Today).

 

https://www.eurekalert.org/pub_releases/2010-03/cnmc-sll031710.php

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20308221

http://usatoday30.usatoday.com/news/health/2010-03-22-vitamind22_ST_N.htm?csp=34&utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+UsatodaycomHealth-TopStories+%28News+-+Health+-+Top+Stories%29

 

Domenica, 30 Aprile 2017 09:05

IL FERRO RIDUCE IL RISCHIO DI PARKINSON.

02-10-2014

Il ferro è un elemento molto utile per il buon funzionamento dell’organismo. Anche se la maggioranza di noi non ne conosce il motivo, fin da piccoli ci sentiamo ripetere che bisogna mangiare alimenti ricchi di ferro – uno dei miti più conosciuti è quello degli spinaci e il relativo personaggio dei cartoni animati e fumetti: Braccio di Ferro. Ma perché il ferro è così utile, quando non addirittura indispensabile? Una delle funzioni principali del ferro è quella di favorire il trasporto dell’ossigeno ai tessuti e ai muscoli. Questo vitale processo avviene mediante l’emoglobina, la mioglobina (che sono costituite proprio dal ferro) e altre sostanze. Se dunque il ferro è utile per la salute dell’organismo, pare anche essere utile per prevenire alcune malattie, tra cui la malattia di Parkinson. Lo studio che ha indagato sull’associazione tra i livelli di ferro nel sangue e il rischio di Parkinson è stato condotto dai ricercatori dell’Accademia Europea di Bolzano in collaborazione con un team di ricercatori internazionali. La dottoressa Irene Pichler e colleghi hanno utilizzato un approccio a “Randomizzazione Mendeliana” per indagare, stimando l’effetto dei livelli di ferro nel sangue sul rischio di malattia di Parkinson. Nello studio sono stati utilizzati tre polimorfismi – quando sono presenti due o più evidenti tratti diversi nella stessa popolazione di una specie – in due geni: HFE e TMPRSS6.
I ricercatori hanno condotto una prima meta-analisi combinando i risultati di studi che hanno valutato l’effetto genetico sui livelli di ferro. In totale, gli studi comprendevano quasi 22mila persone provenienti da Europa e Australia. La seconda meta-analisi comprendeva studi che hanno valutato l’effetto genetico sul rischio di malattia di Parkinson – questi coinvolgevano 20.809 persone con malattia di Parkinson e 88.892 soggetti di controllo da Europa e Nord America. Infine, gli autori hanno eseguito tre analisi di Randomizzazione Mendeliana separate per i tre polimorfismi al fine di stimare l’effetto del ferro sul Parkinson. I risultati dello studio sono stati pubblicati nella rivista PLoS Medicine, e suggeriscono che un aumento dei livelli di ferro nel sangue sono associati a una riduzione relativa del 3 per cento del rischio di malattia di Parkinson. Il ferro diviene quindi un elemento di grande importanza anche nella possibile prevenzione di una malattia per cui, a oggi, non esiste una cura definitiva. Sebbene i ricercatori abbiano trovato una relazione tra il ferro e la riduzione del rischio, il meccanismo di base per cui tutto questo avviene rimane poco chiaro.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23750121

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3672214/

 

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