Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

Giovedì, 30 Aprile 2015 13:02

SEI CINICO? RISCHI LA DEMENZA SENILE.

30-04-2015

Le persone che guardano al mondo con cinismo hanno più probabilità di sviluppare demenza in tarda età: questi sono i risultati di uno studio estensivo pubblicato su Neurology, rivista dell’American Academy of Neurology. Secondo i ricercatori, i quali hanno monitorato un campione di pazienti per una media di 10 anni, a parità di condizioni di salute, abitudini alimentari e stili di vita, nelle persone cosiddette “ciniche” – ovvero coloro che hanno scarsa fiducia nel prossimo – le possibilità di sviluppare demenza senile e altri problemi in età avanzata sono tre volte maggiori.
Lo studio, condotto su 1.449 soggetti, è stato suddiviso in due parti: nella prima i ricercatori hanno somministrato ai soggetti, della media di 71 anni, dei test per la demenza in diverse soluzioni, coprendo un arco temporale di otto anni. L’altra fase, invece, ha permesso di analizzare 662 soggetti che avevano già completato tali test e 46 casi diagnosticati: tramite un apposito questionario, il team di ricerca ha quindi rilevato i livelli di cinismo e confrontato i due gruppi. I risultati sono stati stilati anche considerando fattori che aumentano le probabilità di sviluppare demenza e malattie cardiache, come i livelli di colesterolo, l’ipertensione o il fumo. Su 164 persone in cui sono state rinvenuti alti livelli di cinismo, ben 14 i soggetti che hanno sviluppato demenza, mentre su 212 persone con bassi livelli solo 9 soggetti si sono imbattuti in patologie senili.
Anna-Maija Tolppanen, ricercatrice presso l’Eastern Finland University e parte del team di studio, ha commentato così i risultati: “Questi risultati confermano come la visione sulla vita e la personalità delle persone possano avere un impatto sulla loro salute. Capire come un tratto di personalità come il cinismo influisca sul rischio di demenza, potrebbe fornirci interessanti spunti su come ridurre tale rischio di demenza”.

 

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/05/140528163739.htm

http://www.newswise.com/articles/cynical-you-may-be-hurting-your-brain-health

http://www.neurology.org/content/82/24/2205

30-04-2015

Alcuni lo fanno per attirare l’attenzione, altri per tirarsi fuori dai pasticci. La realtà è che non c’è bambino che non abbia detto almeno una bugia al proprio genitore, all’insegnante o all’amichetto e, a voler essere ancor più onesti, non tutti quelli che mentono sono così “cattivi” come si dice. Soprattutto, mettere un bambino in castigo per aver detto una bugia non è un buon metodo per spronarlo a dire la verità ma, al contrario, può risultare controproducente e invitarlo a mentire ancora in futuro. A dimostrarlo è uno studio canadese pubblicato sul Journal of Experimental Child Psychology, che ha evidenziato come il miglior metodo per combattere la “sindrome di Pinocchio” non sia il castigo, ma l’atto di dare al bimbo una ragione morale per dire la verità in futuro.
“I bambini spesso mentono per nascondere le trasgressioni. Dopo aver fatto qualcosa di sbagliato o infranto una regola, potrebbero scegliere di mentire per nasconderlo. Dopo tutto, sanno che possono finire nei guai per aver trasgredito. Così la punizione non ha molto effetto e non scoraggia a utilizzare la strategia di mentire per cercare di venir fuori dai guai” ha spiegato l’autrice dello studio Victoria Talwar della McGill University di Montréal.
Per giungere a questo risultato, i ricercatori canadesi hanno coinvolto 372 bambini di età compresa tra i 4 e gli 8 anni in un esperimento per valutare la loro propensione a mentire: lasciati soli in una stanza e osservati con una telecamera nascosta, ai bimbi era chiesto di non sbirciare sul tavolo alle loro spalle in cui era posto un giocattolo. Come risultato, il 67,5% di loro tendeva a infrangere la promessa sbirciando il giocattolo e il 66,5% mentiva nella risposta data ai ricercatori, con il curioso dato che i bimbi più grandi tendevano a sbirciare meno ma anche a mentire più spesso sulle risposte date ai ricercatori. Ancor più importante, però, i bambini che venivano minacciati con una punizione tendevano a mentire molto più dei bambini a cui era chiesto di dire la verità per un dovere morale nei confronti di loro stessi o per il fatto di far felici gli adulti nel non mentire.
“Le minacce di una punizione non sono un deterrente per non mentire e non comunicano perché il bambino dovrebbe essere onesto” spiega Victoria Talwar. “Se un bambino sta giocando con una palla in casa e rompe il vostro vaso ma dice la verità quando gli viene chiesto – ipotizza la ricercatrice – dovreste riconoscere che ne è uscito pulito. Può ancora subire conseguenze per la sua trasgressione ma il bambino impara che l’onestà è un valore”. La prova dei fatti si ha in famiglia e a scuola, dove i bambini ricevono quasi la totalità della loro educazione. È lì che si dovrebbero limitare i castighi per i bambini più “menzogneri” insegnando loro il valore della verità, ricordando anche a se stessi che i bambini non sono gli unici a dire le bugie.

 

https://www.mcgill.ca/newsroom/node/21712

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/12/141208144150.htm

30-04-2015

Il comitato di nutrizione dell’American Heart Association ha esaminato decadi di studi inerenti ai benefici della soia per la salute e ha trovato scarsa evidenza che alimenti a base di soia riducano il colesterolo, come di solito viene indicato. Sebbene una quantità molto grande di proteine della soia potrebbe abbassare il colesterolo LDL (“cattivo”), non si sono osservati benefici riguardo al colesterolo HDL (“buono”), ai trigliceridi, alle lipoproteine e alla pressione sanguigna. I benefici dei supplementi della soia per la salute cardiovascolare sono quindi probabilmente “minimi nel migliore dei casi”.
Tenendo conto del numero crescere di studi che confermano il danno che si può arrecare al proprio corpo mangiando la soia non fermentata, non sorprende che l’istituzione medica convenzionale finalmente cominci a rendersene conto. Oltre alla completa mancanza di benefici riguardo al colesterolo, la revisione dell’AHA ha smantellato alcuni miti popolari che sostenevano che:

• Gli isoflavoni della soia non impediscono varie forme di cancro (prostata, seno o uterino).

• Né gli isoflavoni delle proteine della soia né la soia sono utili a limitare i sintomi della menopausa.

• La soia non serve per trattare l’osteoporosi.

Chi pensa che cambiando radicalmente la dieta, incrementando marcatamente l’assunzione di soia nella speranza che questo migliori la salute e abbassi il colesterolo, si sta sbagliando di grosso. Infatti, i prodotti non fermentati della soia contengono un certo numero di sostanze potenzialmente nocive quali, ad esempio, l’acido fitico. Sarebbe saggio evitare alimenti come:

• Tofu.
• Bevanda di soia.
• Hot dog di soia ed altri prodotti “succedanei della carne” fatti con soia o proteine vegetali strutturate (TVP), che solitamente sono di soia.
• Yogurt e gelati di soia.
• Proteine della soia.

Il processo di fermentazione, tuttavia, fa diminuire drasticamente i livelli dei componenti pericolosi della soia e rende più disponibili per l’assorbimento sostanze nutrienti presenti nei fagioli di soia. I prodotti fermentati della soia (quali miso, natto e tempeh) sono quindi sicuri. Tuttavia, non bisogna aspettarsi “cure miracolose” per il colesterolo neppure dagli alimenti sicuri della soia che possono far parte di una dieta sana. Per abbassare veramente i livelli di colesterolo, ci sono tre strategie primarie che funzionano bene per il 99 per cento dei casi se effettuate correttamente. Sono:

• Esercizio cardiovascolare quotidiano.
• Dieta priva di cereali.
• Utilizzo di estratti vegetali mirati.

Un programma alimentare corretto senza cereali e zuccheri abbasserà efficacemente i livelli troppo elevati di insulina che sono la causa primaria di innalzamento del colesterolo.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16418439

http://articles.mercola.com/sites/articles/archive/2006/02/07/experts-finally-recognize-the-dangers-with-soy.aspx

Giovedì, 30 Aprile 2015 12:49

VITAMINA D E K: QUESTE SCONOSCIUTE.

30-04-2015

VITAMINA D

Ancora non per molto potremo chiamare vitamina D il calciferolo. Questa sostanza, infatti, non è una vitamina nel vero senso della parola, anzi, per molti mammiferi non può neanche essere considerata una sostanza nutrizionale: essa è un precursore degli ormoni steroidei non presente naturalmente negli alimenti. Il calciferolo è liposolubile e viene prodotto dal nostro corpo durante l’esposizione ai raggi ultravioletti solari. La vitamina D esiste in diverse forme ognuna con differenti attività anche se alcune forme sono relativamente inattive nell’organismo con una funzionalità limitata in qualità di vitamina. Fegato e reni convertono la vitamina D nella sua forma ormonale attiva. Come risaputo, la funzione biologica principale della vitamina D è quella di mantenere normali i livelli ematici di calcio e fosforo. Essa aiuta l’assorbimento del calcio promovendone le varie funzioni specialmente a livello osseo.
L’esposizione ai raggi ultravioletti è la fonte più importante per attivare la sintesi cutanea di vitamina D. La stagione, la latitudine, l’ora del giorno, la nuvolosità, lo smog e le creme protettive con protezione superiore a 8, limitano grandemente l’esposizione ai raggi UV e, ci crediate o no, le persone con un livello scarso di questa vitamina sono molto più di quello che si possa immaginare anche perché la sua supplementazione è consigliata solo per i neonati allattati al seno in quanto il latte materno non contiene tale vitamina. Prima di considerare un’eventuale supplementazione a base di vitamina D, è consigliabile conoscere il suo livello ematico. Sono disponibili due test differenti nei laboratori: il dosaggio dell’1-25(OH)D e del 25(OH)D. L’analisi corretta è quella del 25(OH)D chiamata anche 25-idrossivitamina D e i valori normali differiscono da quelli ottimali. Il dottor Michel Holick, una della principali autorità mondiali sulla vitamina D, ha studiato i livelli ottimali necessari per la salute definendone l’intervallo. I livelli di vitamina D NON devono mai scendere sotto i 32ng/ml; valori inferiori a 20ng/ml sono considerati gravi carenze che incrementano il rischio di sviluppare patologie come tumori mammari e prostatici e malattie autoimmuni come MS e artrite reumatoide.
Livelli ottimali di 25(OH)D: 45-50 ng/ml oppure 115-128 nmol/l.
Intervallo di normalità: 20-56 ng/ml oppure 50-140 nmol/l.

VITAMINA D E MINERALIZZAZIONE OSSEA

Solo negli Stati Uniti si stima che oltre 25 milioni di persone siano affette o a rischio di sviluppare osteoporosi, malattia caratterizzata da una marcata fragilità ossea con rischio aumentato di fratture. Il rachitismo e l’osteomalacia, sono patologie analoghe che già da 75 anni sono state riconosciute provocate da una carenza di vitamina D: la loro prevenzione e cura con olio di fegato di merluzzo costituisce uno dei primi trionfi della scienza nutrizionale. Mantenere una riserva organica efficace di calciferolo aiuta a mantenere bilanciata la mineralizzazione ossea prevenendo l’osteoporosi negli anziani, nelle donne in post-menopausa e in individui in trattamento cronico con steroidi.
Ma il calcio è proprio necessario per rimineralizzare le ossa? Ebbene, sono circa 30 anni che numerosissimi ricercatori continuano a dire l’opposto senza successo: ora ne abbiamo un’ulteriore conferma grazie ad un lavoro pubblicato sull’America Journal of Nutrition che conferma l’importanza della classificazione metabolica nell’uso dei nutrienti. I parasimpaticotonici, infatti, non hanno beneficio alcuno nell’assumere calcio. Il calcio, inoltre, è largamente dipendente dall’azione dell’1-25-diidrossivitamina D per il suo trasporto attivo, specialmente se assunto a basse o moderate dosi. Una carenza di vitamina D provoca una riduzione dell’assorbimento del calcio, incrementa i livelli ematici di paratormone ed aumenta la velocità di riassorbimento osseo che eventualmente potrebbe portare a fratture ossee.

VITAMINA D E CANCRO

Al giorno d’oggi sappiamo per certo che, a prescindere dal ruolo fondamentale nella regolazione del calcio corporeo, la forma attiva della vitamina D agisce in qualità di effettiva regolatrice della crescita cellulare e della differenziazione in un vasto numero di tipologie cellulari incluse quelle cancerose. Diversi studi clinici dimostrano infatti una netta relazione fra la carenza di vitamina D e quattro delle neoplasie più comuni; mammarie, prostatiche, del colon e cutanee. Una forma particolare di vitamina D (analogo della vitamina D EB 1089) è in grado di incrementare notevolmente l’efficacia della radioterapia nei tumori mammari specialmente nei confronti di cellule cancerose resistenti alle radiazioni.

VITAMINA D E DIABETE

Una carenza di vitamina D è stata associata ad una carenza di insulina e a resistenza insulinica: la carenza di questa vitamina è il fattore principale eziologico per lo sviluppo del diabete Tipo I nei bambini.

VITAMINA D E CARDIOPATIE

La resistenza insulinica è una delle cause principali di sviluppo delle malattie cardiocircolatorie. Nei paesi nordici, queste patologie sono più diffuse e gli attacchi cardiaci sono molto più comuni nei mesi invernali.

VITAMINA D E INFIAMMAZIONE

Alcuni ricercatori del Belgio hanno dimostrato che piccoli quantitativi di vitamina D (circa 500 UI) sono in grado di ridurre i livelli di Proteina C-Reattiva (PCR) e di Interleuchina-6 (IL-6) in pazienti in fase infiammatoria acuta. Come ulteriore dimostrazione del legame diretto, tali pazienti risultavamo marcatamente carenti in calcidiolo [25(OH)D], unico vero marker per la vitamina D, nonché in calcitriolo, la forma attiva che è carente solo in caso di severa deficienza. Questo dato è avallato da altri lavori che hanno dimostrato come una carenza di vitamina D sia associata ad un aumento del processo infiammatorio in individui per altro apparentemente sani. Questo è un dato molto importante perché associa la carenza di vitamina D a numerose patologie a componente infiammatoria come ipertensione, cardiopatie, diabete e malattie autoimmuni.

VITAMINA D E ARTRITE

La progressione dell’artrite degenerativa del ginocchio e dell’anca è più veloce negli individui con un livello basso di vitamina D ematica.

VITAMINA D, INFERTILITA’ E PMS

E’ stata trovata una relazione fra infertilità e carenza di vitamina D. La sindrome pre-mestruale (PMS) è trattata con successo con una supplementazione di calcio, magnesio e vitamina D.

VITAMINA D, ASTENIA, DEPRESSIONE

L’attivazione della vitamina D a livello delle ghiandole surrenali regola la tirosin-idrossilasi, enzima necessario per la produzione di dopamina, adrenalina e noradrenalina. Bassi livelli di vitamina D contribuiscono all’insorgenza di fatica cronica e depressione. Uno studio pubblicato recentemente ha evidenziato come la somministrazione di vitamina D, comparandola a fototerapia (2 ore al giorno di lampada “light box”), abbia risolto completamente la depressione del gruppo in esame al contrario di quello sottoposto a fototerapia.

VITAMINA D E MALATTIE AUTOIMMUNI

Sclerosi Multipla, morbo di Sjogren, artrite reumatoide, tiroidite e morbo di Crohn sono tutte patologie legate ad un livello scarso di vitamina D. Nelle malattie autoimmuni, di base è sempre presente uno squilibrio di funzione del nostro sistema immunitario. Esposizioni a raggi UV-B singole, infrequenti e molto intense sono dannose e in grado di sopprimere il sistema immunitario. Al contrario un’esposizione cronica di bassa intensità, normalizza la funzione immunitaria e incrementa la produzione di cellule immunitarie deputate a ridurre le risposte infiammatorie anomale connesse con le malattie autoimmuni. Ciò vale specialmente per gli individui affetti da Sclerosi Multipla. La vitamina D è in grado di regolare alcune sostanze chiamate citochine a loro volta modulatrici del sistema immunitario e queste regolazioni sono benefiche per questi pazienti.

VITAMINA D E OBESITA’

Una carenza di vitamina D è stata associata all’obesità. Recentemente è stato pubblicato uno studio che dimostra come la vitamina D riduca la secrezione di leptine, ormoni prodotti dalle cellule adipose coinvolti nella regolazione del peso corporeo. In aggiunta, essendo la vitamina D liposolubile e quindi maggiormente depositata nel grasso corporeo, in caso di obesità può peggiorare la sua biodisponibilità sia a livello cutaneo che alimentare.

VITAMINA D E STEROIDI

Gli steroidi, come ad esempio il prednisone, sono potenti farmaci antinfiammatori essenziali per alcune patologie, ma che presentano notevoli effetti collaterali fra cui una diminuzione dell’assorbimento del calcio. Esistono alcuni dati che evidenziano come gli steroidi possano alterare anche il metabolismo della vitamina D, contribuendo ulteriormente alla perdita di tessuto osseo e allo sviluppo di osteoporosi associata a terapia steroidea. Per questo motivo si consiglia vivamente agli individui in trattamento steroideo cronico di supplementarsi con integratori a base di vitamina D.

VITAMINA K

Per quanto riguarda la vitamina K (chiamata la vitamina “dimenticata”), tutti sanno che è la vitamina regolatrice della coagulazione sanguigna e nulla più. Le cose, invece, non stanno proprio così. Dei tre isomeri, quello più utile per la salute umana è il fillochinone o vitamina K1.
La vitamina K è una vitamina liposolubile non facilmente assorbibile dal nostro corpo. Ciò significa che, per poterla assorbire efficacemente è necessario somministrarla con un pasto che contenga un certo quantitativo di grassi. Le fonti alimentare migliore per questa vitamina sono i cibi fermentati come ad esempio il natto che contengono svariati milligrammi di vitamina K anche superiori alla dose media raccomandata di 3000 mcg al giorno. Problematiche come scarsa alimentazione o diete restrittive; morbo di Crohn, colite ulcerosa, morbo celiaco e patologie che interferiscono con l’assorbimento dei nutrienti; patologie epatiche che interferiscono con l’immagazzinamento; assunzione di farmaci come antibiotici ad ampio spettro, statine e aspirina, sono in grado di provocare una carenza della vitamina. Non è consigliabile assumere la vitamina K in gravidanza al di sopra della dose media consigliata (65 mcg al giorno) o in presenza di ictus, patologie cardiocircolatorie e negli individui predisposti alla produzione di trombi.

VITAMINA K E OSTEOPOROSI

La supplementazione con vitamina K è l’intervento terapeutico nutrizionale più importante per migliorare la densità ossea. Questa vitamina è fondamentale affinché il calcio si inserisca all’interno della matrice ossea. L’osteocalcina è una proteina specificamente prodotta dagli osteoblasti e utilizzata all’interno del tessuto osseo come parte fondamentale del processo di formazione. Questa proteina, però, deve essere carbossilata per poter essere funzionale. La vitamina K è un cofattore dell’enzima che catalizza la carbossilazione dell’osteocalcina. Alcuni studi recenti hanno dimostrato l’equivalenza di effetti fra la vitamina K e i farmaci bifosfonati senza però provocarne i gravi effetti collaterali fra cui ricordiamo infiammazioni in vari tessuti corporei fra cui l’occhio (con alcuni casi di conseguente cecità), scompenso renale ed epatico. Forse la maggior parte dei medici non sa che questi farmaci sono tossici e che contengono gli stessi tipi di sostanze chimiche usate per rimuovere lo strato di sporco che si accumula negli scarichi dei lavabi.

VITAMINA K E ATEROSCLEROSI

La vitamina K aiuta a prevenire l’indurimento arterioso. I dati della ricerca suggeriscono che il suo ruolo sia quello di impedire la deposizione del calcio all’interno sia delle pareti vasali sia in altri tessuti corporei.

VITAMINA K E CANCRO

Vari studi hanno dimostrato che la vitamina K1 e K2 sono efficaci contro il cancro. Un lavoro pubblicato sull’International Journal of Oncology (settembre 2003) ha dimostrato che l’uso di vitamina K2 in pazienti affetti da cancro polmonare ha rallentato la crescita delle cellule cancerose. Vari studi precedenti hanno evidenziato i benefici della vitamina nel trattamento delle leucemie. La maggior parte delle ricerche si sono basate sull’uso di vitamina K3 (quella sintetica) assunta ad alte dosi, spesso utilizzata contemporaneamente alla chemioterapia per aumentarne l’efficacia.Tuttavia i maggiori esperti consigliano l’utilizzo delle due forme naturali K1 (fillochinone) e K2 (menachinone). In uno studio pubblicato su Alternative Medicine Review (agosto 2003), 30 pazienti affetti da carcinoma epatocellulare, sono stati trattati con vitamina K1. La patologia si è stabilizzata in 6, 7 hanno avuto una risposta parziale, 7 hanno avuto un miglioramento della funzionalità epatica e 15 una normalizzazione della protrombina. E’ dunque consigliabile supplementarsi con questa vitamina specialmente in presenza di una storia familiare di neoplasie.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10986622

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12540413

30-04-2015

Un nuovo studio rileva che rispetto ai controlli sani, le persone con malattia di Parkinson sembrano avere diversi batteri intestinali. Lo studio, condotto dall’Università di Helsinki Institute of Biotechnology in Finlandia, è stato pubblicato sulla rivista Movement Disorders, e ha coinvolto 72 pazienti con morbo di Parkinson ed un pari numero di controlli sani. Sempre più studi stanno scoprendo l’enorme influenza che i nostri batteri intestinali – che di gran lunga sono più numerosi delle cellule del nostro corpo – hanno sulla nostra salute. La malattia di Parkinson è una malattia progressiva che si sviluppa quando il cervello perde cellule che producono la dopamina – una sostanza chimica che controlla ricompensa e piacere e regola anche il movimento e le risposte emotive. I sintomi del Parkinson sono tremore, rigidità, lentezza dei movimenti e problemi di equilibrio e coordinazione. La malattia colpisce raramente prima dei 50 anni e gradualmente peggiora – al punto in cui la vita quotidiana e la cura di sé diventano molto difficili. Secondo la Fondazione Nazionale Parkinson, fino a 60.000 nuovi casi di Parkinson sono diagnosticati ogni anno negli Stati Uniti e si aggiungono a 1 milione circa di americani che attualmente vivono con la condizione. Alcuni indizi esistono già circa i legami tra il Parkinson e problemi intestinali. Ad esempio, nello studio gli autori affermano: “Disfunzioni gastrointestinali, in particolare la stitichezza, sono un sintomo importante nel morbo di Parkinson e spesso precedono l’insorgenza dei sintomi motori”.
I ricercatori riferiscono anche che la recente ricerca mostra che i batteri intestinali interagiscono con parti del sistema nervoso attraverso vari percorsi, tra cui il sistema nervoso enterico – il cosiddetto “cervello nello stomaco” – e il nervo vago. Evidenziando i risultati dello studio, l’autore principale, il dottor Filip Scheperjans, neurologo presso la Clinica Neurologica di Helsinki University Hospital, dice: “La più importante osservazione è che i pazienti affetti dal morbo di Parkinson hanno molto meno batteri della famiglia Prevotellaceae, a differenza del gruppo di controllo, praticamente nessuno nel gruppo di pazienti aveva una grande quantità di batteri di questa famiglia“. La squadra non ha scoperto che cosa l’assenza di Prevotellaceae potrebbe significare nella malattia di Parkinson, ma si è posta numerosi interrogativi. Ad esempio, se questa famiglia di batteri può proteggere contro la malattia oppure limitare la sua evoluzione. ”Sono domande interessanti a cui stiamo cercando di rispondere”, dice il Dott Sheperjans.
Il team ha anche scoperto che i livelli di un’altra famiglia di batteri chiamati Enterobacteriaceae sembrano essere collegati alla gravità dei sintomi del Parkinson. Essi hanno osservato pazienti che avevano più difficoltà di equilibrio e a camminare, tendevano ad avere più alti livelli di questi batteri. Il Dr. Sheperjans ed i suoi colleghi stanno già progettando ulteriori ricerche per esplorare la connessione tra malattia di Parkinson e batteri intestinali. Essi hanno cominciato a riesaminare lo stesso gruppo di pazienti per scoprire se le differenze di batteri intestinali sono permanenti o se cambiano con la progressione della malattia. Se le differenze batteriche non cambiano con la progressione della malattia, questo potrebbe aiutare i medici nelle diagnosi più accurate. “Inoltre”, dice il Dott Sheperjans, ”dobbiamo capire se questi cambiamenti dell’ecosistema batterico sono evidenti prima della comparsa dei sintomi motori, oltre a scoprire il meccanismo biologico sottostante, tra batteri intestinali e il morbo di Parkinson”. Le nuove scoperte potranno portare a nuovi test per il morbo di Parkinson e forse anche nuovi trattamenti per fermare, rallentare o addirittura impedire la malattia, concentrandosi sui batteri intestinali.

 

http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/mds.26069/abstract

30-04-2015

Mangiare cioccolato fondente può aiutare a camminare meglio. Secondo lo studio condotto dall’Università La Sapienza di Roma, pubblicato sul Journal of the American Heart Association, il consumo di questo cibo favorirebbe il recupero motorio in chi è stato vittima di malattia arteriosa periferica. Stando a quanto si afferma nello studio italiano il cioccolato fondente svilupperebbe i suoi benefici grazie al suo contenuto di polifenoli, che favorirebbero una migliore circolazione nel sangue e di conseguenza migliorerebbero le condizioni della circolazione agli arti inferiori dei pazienti.
Venti i volontari compresi nello studio, tutti di età compresa tra i 60 e i 78 anni, oltre ad essere affetti da malattia arteriosa periferica. Divisi a loro volta in tre gruppi, i soggetti hanno visto integrare la loro dieta con cioccolato fondente all’85%, con cioccolato al latte o con nessuna integrazione. Secondo i risultati raccolti coloro che hanno ricevuto il cioccolato fondente all’85% avrebbero mostrato miglioramenti nella velocità e la capacità di movimento rispetto al periodo precedente lo studio: dell’11% rispetto alla distanza percorsa e del 15% per quanto riguarda il tempo. Dalle analisi condotte si sono evidenziati inoltre valori più alti di ossido nitrico, la cui azione stimola il flusso del sangue, al pari di valori ridotti nei marcatori dello stress ossidativo. Come sottolinea l’autore dello studio, Dr. Lorenzo Loffredo dell’Università La Sapienza di Roma: “Lo studio deve essere meglio approfondito, ma conferma i benefici dei polifenoli sulla circolazione del sangue”.

 

http://jaha.ahajournals.org/content/3/4/e001072.abstract

Giovedì, 23 Aprile 2015 16:08

CANCRO E BICARBONATO: NUOVE RICERCHE.

23-04-2015

Una buona notizia per tutti noi e una cattiva notizia per la case farmaceutiche. Il Dr. Mark Pagel dell’University of Arizona Cancer Center, riceverà 2 milioni di dollari dal National Institutes of Health per studiare l’efficacia della terapia personalizzata con bicarbonato di sodio per il trattamento del cancro al seno. Ecco il comunicato sul quale è scritto :”Il fondo da 2 milioni di dollari servirà a migliorare la misurazione sull’efficacia del bere bicarbonato di sodio nel curare il cancro al seno. E’ stato provato che bere bicarbonato di sodio riduce o elimina il diffondersi del cancro nel seno, nei polmoni, cervello ed ossa". In sostanza il bicarbonato agirebbe sul grado di acidità del nostro sangue. Il pH del nostro sangue e dei nostri fluidi corporei, non rappresenta altro che il nostro stato di salute e il bicarbonato agirebbe come vero e proprio regolatore del pH influendo direttamente sul livello acido-alcalino alla base della salute umana. Una ricerca pubblicata nel Marzo 2009 dalla US National Library of Medicine dimostrò che su alcuni topi da laboratorio il bicarbonato era in grado di rallentare la diffusione delle metastasi.
Il dottor Pagel e i suoi colleghi utilizzeranno una speciale risonanza magnetica per misurare il pH di un particolare tumore e verificare l’efficacia del bicarbonato sulla massa in oggetto. Infatti con questa nuova macchina, il team dell’Università dell’Arizona potrà studiare i pazienti prima e dopo la somministrazione del bicarbonato per tentare di sviluppare un approccio personalizzato per ogni paziente. Ovviamente un grado di pH del nostro corpo intorno ai valori 7,35-7,45 garantisce un giusto equilibrio fisico rendendoci più resistenti alle malattie. Questo significa che possiamo praticare la cosiddetta “cura del pH” avendo uno stile di vita sano ed alimentandoci nel modo giusto. Sicuramente, invece, per avere risultati nell’ambito delle cure per il cancro dovremo aspettare che le sperimentazioni siano portate a termine, cosa che procede a rilento a causa della mancanza di fondi soprattutto da parte delle case farmaceutiche che vedono gravemente minacciati i loro interessi economici. Chissà cosa ne pensa il tanto bistrattato Dott. Simoncini e cosa pensano le case farmaceutiche?

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19276390

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2834485/

23-04-2015

Uno studio della Cleveland Clinic ha scoperto che l’olio di pesce, la fibra solubile e gli antiossidanti sono utili per curare i pazienti con colite ulcerosa e riducono la necessità di terapia steroidea. I pazienti che hanno assunto i supplementi, che hanno pochi effetti secondari e sono più sicuri di molti farmaci per la colite, hanno avuto molto meno necessità di iniziare un trattamento farmacologico. Lo studio ha coinvolto pazienti di 18 anni e più, sofferenti per colite ulcerativa da leggera a moderatamente attiva. Quelli in terapia corticosteroidea, dopo la supplementazione nutrizionale, per controllare i loro sintomi, hanno ridotto significativamente le dosi dei farmaci rispetto a quelli supplementati con placebo.
La colite ulcerativa, una malattia infiammatoria intestinale che interessa tipicamente individui con età fra i 15 e i 40 anni, può causare spasmi addominali, diarrea sanguinante e febbre. I farmaci come i corticosteroidi sono usati per controllare lo stato infiammatorio della malattia, ma, pur essendo altamente efficaci, l’uso prolungato conduce spesso a:

• Insonnia.
• Alterazioni dell’umore.
• Appetito aumentato.
• Ipertensione.
• Osteoporosi.
• Altri effetti indesiderati.

Gli effetti secondari sono spesso così severi che molti pazienti smettono di usare i farmaci. Tuttavia, oltre il 25 per cento dei pazienti che interrompono la terapia hanno una ricaduta dei sintomi. Mentre nello studio la supplementazione nutrizionale ha associato olio di pesce, fibra solubile e antiossidanti, gli studi precedenti hanno indicato che l’olio di pesce da solo può ridurre l’esigenza dei corticosteroidi nei pazienti con colite. I ricercatori ritengono che gli aiuti nutrizionali contribuiscano a diminuire l’infiammazione e fornire nutrimento ai pazienti con colite e suggeriscono che i medici aggiungano questa combinazione di nutrienti ai loro protocolli terapeutici per la colite ulcerosa. Le malattie infiammatorie intestinali, come il morbo di Crohn e la colite ulcerosa, possono devastare la salute della gente. Molti pazienti sono costretti a subire interventi di resezione di varie sezioni del loro intestino o restare in terapia steroidea ad alte dosi per un lungo periodo che devasta la loro salute con gli effetti secondari elencati sopra. Ciò è particolarmente tragico, poiché le terapie naturali sono molto efficaci per questa malattia. È abbastanza raro non vedere risultati importanti con il loro uso.
Questo studio ha usato olio di pesce, antiossidanti e vari supplementi evidenziando un miglioramento significativo. Tuttavia, ci sono altri protocolli che funzionano in modo sinergico con l’olio di pesce. I pazienti con colite ulcerosa possono avere dei livelli anormalmente bassi di EPA e DHA che sono gli acidi grassi essenziali trovati nell’olio di pesce. Questi grassi hanno importanti proprietà antinfiammatorie in quanto modulano le prostaglandine che contribuiscono all’infiammazione. L’altro modo per aumentare la loro efficacia è quello di ridurre il consumo degli oli vegetali ricchi in omega-6, poiché diminuiscono quasi sempre l’efficacia dell’olio di pesce. L’olio di mais, d’arachide, di girasole e di sesamo sono ricchi in grassi omega-6 e dovrebbero essere evitati o limitati per massimizzare i benefici dei grassi omega-3. È inoltre importante aumentare la quantità di omega-3 nella dieta con un supplemento di alta qualità esente da mercurio e PCB.
Un altro suggerimento per i grassi omega-3: non sostituite l’olio di pesce con l’olio di semi di lino perchè non funziona. L’organismo ha bisogno del DHA omega-3 da 22 atomi di carbonio per avere efficacia terapeutica, non dell’ALA omega-3 da 18 atomi di carbonio presente nell’olio di semi lino. Cinque altri metodi per trattare la malattia infiammatoria intestinale:

• Evitare lo zucchero, in quanto aumenta l’infiammazione a causa dell’eccesso di stimolo a produrre insulina.

• Evitare i cereali fino a che i sintomi non siano sotto controllo. Molti individui affetti da malattia infiammatoria intestinale sono sensibili al glutine. Inoltre, i cereali tendono ad aumentare i livelli di insulina.

• Assicurarsi che i livelli di vitamina D siano ottimali. La vitamina D sembra essere efficace quasi quanto i grassi omega-3.

• Supplementarsi abbondantemente con fermenti lattici che contribuiranno a sanare il tratto intestinale. Uno dei modi migliori per ottenere questi importanti batteri è di bere il Kefir.

• Utilizzare altri tipi di prodotti probiotici.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15822041

23-04-2015

I farmaci antidepressivi possono influenzare negativamente il sistema immunitario. Farmaci quali Prozac e Zoloft, che appartengono ad una classe conosciuta come inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, o “SSRI,” agiscono permettendo alla serotonina di rimanere per un periodo più lungo nelle giunzioni nervose. Una nuova ricerca indica che la serotonina è anche una molecola di signaling fra le cellule immunitarie. Le cellule dendritiche si legano alla serotonina nei luoghi di infiammazione e la passano alle cellule T del sistema immunitario. Ciò influenza lo sviluppo e la divisione in nuove cellule T. Tuttavia, il Prozac introdotto nelle zone di infiammazione, ha impedito questo tipo di uptake della serotonina.
Alcuni anni fa, un rapporto apparso sul British Medical Journal ha dimostrato brillantemente che gli antidepressivi non offrono significativi benefici e che i problemi emotivi possono essere trattati meglio senza prendere farmaci tossici. Ora c’è un altro motivo di rischio di salute per rimanere lontani da loro. Gli antidepressivi come il Prozac non bloccano soltanto la serotonina, cosa che sarebbe utile, ma sono in grado di “paralizzare” anche il vostro sistema immunitario. Attualmente abbiamo ancor più dimostrazioni che indicano di evitare gli antidepressivi nel loro complesso, usando opzioni più sicure e più sane in grado di trattare le vere cause del problema. Si consiglia di:

• Assumere olio di fegato di merluzzo o di pesce di alta qualità.

• Iniziare un programma alimentare che rispetti la vostra tipologia metabolica individuale.

• Iniziare un programma di esercizio fisico il più presto possibile, in quanto esso è una delle cure migliori contro la depressione.

• Esistono attualmente anche delle nuove metodiche psicologiche, come l’Emotional Freedom Tecnique molto efficaci nel risolvere queste problematiche.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1895901/

Giovedì, 23 Aprile 2015 16:02

UNA LUCE BLU PER MANGIARE MENO.

23-04-2015

La visione di una luce tendente all'azzurro mentre si sta mangiando ha l'effetto di ridurre l'appetito di chi la osserva. A dirlo è un esperimento portato a termine da scienziati dell'Università dell'Arkansas, che ha dimostrato come l'appetito degli uomini – per le donne l'escamotage sembra non funzionare – si riduca sensibilmente con questo tipo di stimolazione luminosa. I ricercatori coordinati da Han-Seok Seo hanno pubblicato su Appetite un'analisi condotta su 112 soggetti – 62 maschi e 50 donne – lasciati a digiuno per una notte e ai quali è stata poi offerta la stessa colazione il mattino successivo, ovvero 2 omelettes al formaggio e prosciutto e 8 tortine. I soggetti erano distribuiti in tre stanze diverse illuminate rispettivamente con una luce bianca, una gialla e una blu. Al termine della colazione, i volontari dovevano compilare un questionario nel quale esprimere la loro soddisfazione in termini generali e di appetibilità dei singoli piatti. I medici hanno provveduto a pesare in maniera precisa i resti delle pietanze offerte a ognuno dei partecipanti. Riguardo la qualità del cibo, i giudizi non variavano a seconda del gruppo di appartenenza, mentre a variare era la quantità di cibo mangiata a seconda della stanza in cui i volontari avevano fatto colazione.
Nello specifico, chi aveva mangiato nella stanza illuminata di blu aveva mangiato molto meno rispetto alla media, anche se l'effetto era evidente solo per gli uomini. Il dott. Han-Seok Seo spiega le ragioni di questo fenomeno: “la colorazione bluastra che assume il cibo con questo tipo di illuminazione riesce a ridurne la quantità assunta ma non l’appetibilità perché nel cervello scatta un meccanismo che ha radici evolutive e insinua il dubbio inconscio che non si tratti di un alimento sano e commestibile. Ciò inibisce l’appetito e se ne mangia automaticamente di meno, anche se il suo aspetto è normale. È possibile che col tempo l’effetto si affievolisca per una sorta di abitudine recettoriale e il cervello capisca che si tratta solo di un fenomeno visivo, liberando l’appetito. Per il riconoscimento dei cibi la donna invece ha sviluppato soprattutto l’olfatto e quindi non risente allo stesso modo dello stimolo visivo e la colorazione azzurra è su di lei pressoché ininfluente. Peraltro il senso olfattivo dei maschi è meno sviluppato e quindi si basano di più sull’informazione visiva”.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25447013

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