Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

Martedì, 16 Settembre 2014 16:39

IL DEODORANTE NON SERVE A TUTTI.

16-09-2014

Secondo una ricerca dell'Università di Bristol, in Gran Bretagna, ben 8 persone su 10 potrebbero fare a meno del deodorante perché il loro sudore è "geneticamente" profumato. O meglio neutro, vale a dire non predisposto a quella degradazione batterica che produce profumi sgradevoli. Lo studio, pubblicato sul Journal of Investigative Dermatology, ha esaminato circa 6.500 donne e ha dimostrato che il 2% ha una variante genetica rara, il gene ABCC11, il gene che non fa produrre olezzi. Di questo gruppo, il 78% delle donne, le più fortunate, adoperano comunque spray e stick per mettere in sicuro le ascelle dal rischio di sudore maleodorante, pur non avendone bisogno. Infatti, come spiega Santiago Rodriguez, autore dello studio, "riteniamo che queste persone semplicemente continuino a seguire inconsapevolmente una norma socio-culturale non necessaria dato che la variante genetica permette loro di non emanare cattivi odori sudando". Profumarsi è quindi un gesto prima di tutto sociale, un elemento di comunicazione, che viene scelto anche quando non ce n'è bisogno. Tuttavia, la ricerca potrebbe aiutare alcune persone ad evitare prodotti chimici e i loro rischi. La nuova frontiera della cosmesi, quindi, potrebbe essere un test genetico in grado di descrivere il profilo di ogni utilizzatore di prodotti di bellezza, profumi e deodoranti in testa.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Santiago+Rodriguez+Journal+of+Investigative+Dermatology

16-09-2014

L'estratto di semi d’uva è efficace nell’inibire la crescita delle cellule tumorali del colon-retto, secondo i ricercatori dell'University of Colorado Cancer Center. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Cancer Letters. L’estratto di semi d’uva non solo ferma la crescita e sopravvivenza delle cellule del tumore del colon-retto, ma distingue le cellule in modo efficace, lasciando intatte le cellule sane. Molly Derry, un dottorando nel laboratorio di Rajesh Agarwal, ricercatore presso il Cancer Center CU e professore presso la Facoltà di Farmacia e di Scienze Farmaceutiche, ha dichiarato: “Sappiamo da tempo che i composti bioattivi di estratto di semi d’uva colpiscono selettivamente molti tipi di cellule tumorali. Questo studio dimostra che molte delle stesse mutazioni che permettono alle cellule del cancro del colon-retto di metastatizzare e sopravvivere alle terapie tradizionali, sono particolarmente sensibili al trattamento con GSE (estratto semi di uva).
“I ricercatori sostengono che la loro scoperta è particolarmente importante oggi, a causa di un aumento del tasso di cancro del colon-retto, dovuto in parte a stili di vita sedentari e diete ricche di grassi. Poche persone effettuano lo screening per il cancro del colon-retto, il che significa che oltre il 60% sono diagnosticate a malattia già avanzata. I semi d’uva sono usati per fare l’estratto di semi d’uva, afferma Derry e il composto potrebbe avere una grande importanza clinica. “Il team ha condotto uno studio su linee cellulari di cancro del colon-retto che rappresentano diverse fasi della malattia. Mentre dosi di chemioterapia molto più grandi sono necessarie per uccidere un cancro allo stadio IV di una II fase, i ricercatori hanno notato che per quanto riguarda l’estratto di semi d’uva è vero il contrario. Derry ha spiegato: “E‘ necessaria meno della metà della concentrazione di GSE per sopprimere la crescita cellulare e uccidere il 50 per cento delle cellule di stadio IV.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Molly+Derry+cancer+letters

16-09-2014

C’è una pianta spontanea sempreverde diffusa prevalentemente nel bacino del Mediterraneo, del Portogallo, Arabia e Marocco, che si trova tuttavia anche in Italia: cresce infatti allo stato spontaneo nelle regioni del Sud, ed è stata naturalizzata in Toscana. E’ il Carrubo (Ceratonia siliqua L.), che produce le famose carrube, e i cui semi sono altresì noti per essere utilizzati come surrogato del cacao. Quello che forse non era tuttavia noto a tutti è che le sue foglie contengono invece delle sostanze attive con spiccate proprietà antibatteriche (o antibiotiche). Questa pianta, in un recente studio condotto in team dalla dottoressa Valentina Coroneo, del Dipartimento di Scienze Ambientali, Agrarie e Biotecnologie Agroalimentari dell’Università di Cagliari – e pubblicato sul Journal of Agricultural and Food Chemistry – ha mostrato di possedere la capacità di combattere le infezioni batteriche, come quelle derivanti da intossicazioni alimentari tipo la listeriosi. La listeria (L. monocytogenes), il batterio responsabile della listeriosi, è un agente patogeno che provoca un’intossicazione alimentare potenzialmente letale: sono infatti molti ancora i casi di morte nel mondo dovuta proprio a questo batterio. In genere l’infezione si contrae per mezzo di alimenti di origine animale che ne siano stati contaminati.
Il trattamento tradizionale avviene con l’uso di antibiotici, tuttavia, come ormai dimostrato, il problema della resistenza diviene sempre più fonte di insuccessi nelle cure. Da qui, la necessità di trovare delle alternative naturali, quanto efficaci, che possano essere utilizzate non solo per la cura, ma anche per la conservazione degli alimenti e dunque prevenire le infezioni, sottolineano i ricercatori. La scelta del team di ricerca, composto anche dai dottori Aissani N., Fattouch S. e Caboni P., di analizzare gli effetti di un estratto di foglie di Carrubo è avvenuta dopo l’aver constatato che questa pianta era considerata possedere proprietà antibatteriche. Tuttavia, ancora nessuna ricerca aveva testato gli effetti antibatterici sul bacillo della listeria. I test condotti in laboratorio hanno mostrato che l’estratto di foglie di Carrubo ha inibito sia la crescita di tutta una serie di microrganismi che anche quella della listeria. I risultati positivi, in questa fase dello studio, saranno osservati e possibilmente replicati analizzando gli effetti dell’estratto metanolico di foglie di Carrubo (MECL) direttamente su diversi tipi di alimenti che in genere possono venire contaminati dal batterio come, per esempio, i formaggi, la carne e il pesce. Un metodo empirico di profilassi, nel caso di dubbio, è quello di cuocere adeguatamente gli alimenti: questa procedura è in grado, in linea generale, di uccidere i batteri. Infine, una curiosità: il cioccolato prodotto con i semi di questa pianta non è tossico per i cani, poiché non contiene caffeina e teobromina.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22978382

Lunedì, 15 Settembre 2014 09:39

QUANTO DOVREBBE DURARE LA TOSSE?

20-01-2015

La tosse accompagna spesso le malattie invernali: è una sgradita compagna che può assumere connotati davvero fastidiosi influendo negativamente sulle normali attività quotidiane o il sonno. Quando ne siamo vittime, non vediamo l’ora che passi. Già! Ma quando dovrebbe passare? Dopo un giorno, una settimana, un mese? Nella maggioranza dei casi, pare siamo tutti convinti che la tosse debba andarsene nel giro di 7-9 giorni, tuttavia secondo un nuovo studio può durare molto più tempo – e questo non vuole necessariamente dire che ci siamo presi una qualche malattia respiratoria più grave o che si debba ricorrere agli antibiotici per curarla – anche perché, secondo lo studio, in molti casi se ne andrà da sola.
La ricerca condotta dai ricercatori dell’Università della Georgia ad Atene, ha mostrato come le aspettative circa la tosse e la sua guarigione siano molto diverse tra le persone e che, nella maggioranza dei casi, ci si aspetta che questa se ne vada entro un ragionevole periodo di tempo, che non supera i 10 giorni. La realtà, però, è che la tosse spesso ha bisogno di più tempo per andarsene, in molti casi del tutto da sola. La revisione ha preso in esame 19 studi che coinvolgevano da un minimo di 23 persone a un massimo di 1.230 ciascuno, colpite da bronchite acuta: una condizione che si caratterizza proprio da una tosse persistente. I dati analizzati hanno permesso ai ricercatori di scoprire che, in media, la tosse durava 17,8 giorni. Basandosi su questi numeri, gli autori dello studio hanno poi coinvolto altri 500 adulti che sono stati intervistati circa le loro aspettative sulla durata della tosse e su quali cure avrebbero (o hanno) intrapreso per il suo trattamento. Il professor Mark Ebell – principale autore dello studio – e colleghi del College of Public Health presso l’UG, hanno scoperto che la maggioranza degli intervistati riteneva che la tosse dovrebbe durare una media di 7-9 giorni. La durata presunta variava tuttavia di qualche giorno a seconda se la persona era affetta da tosse da malattia da raffreddamento, da bronchite, asma o malattia polmonare cronica.
«Sapevo che la bronchite spesso dura un paio di settimane – spiega nella nota UG, il prof. Ebell – ma volevo vedere se questa era la mia impressione o se è la realtà. Ci sono prove abbastanza evidenti che il divario è reale, quindi abbiamo bisogno di fare di più per educare i pazienti su ciò che possono aspettarsi quando si sviluppa la tosse». Il divario citato dall’autore dello studio è quello tra la durata effettiva della tosse e le aspettative dei pazienti. Non a caso, quando la tosse dura più di quattro o cinque giorni, i pazienti con tosse sono soliti chiedere al ricercatore se è il caso di assumere degli antibiotici. «Non appena le persone si recano dal medico a causa di tosse o raffreddore – sottolinea Ebell – il 60 per cento o più ottiene un antibiotico, mentre solo una piccola percentuale avrebbe bisogno di un antibiotico o trarrebbe beneficio da esso». Sebbene alcuni pazienti a rischio abbiano davvero bisogno in alcuni casi di assumere antibiotici, precisa il ricercatore, la maggioranza delle persone non ne ha bisogno e basterebbe che lasciassero che la tosse faccia il suo corso. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Annals of Family Medicine.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23319500

15-09-2014

Quante volte siamo ricorsi all'antibiotico in caso di tosse, rassicurati dal parere del medico! Sul piano scientifico però gli studi più recenti ci mostrano che gli antibiotici possono addirittura peggiorare la situazione, soprattutto in caso di tosse, diventando inutili e potenzialmente pericolosi. A sostenerlo è uno studio pubblicato su The Lancet Infectious Disease. In particolare a non essere efficace sarebbe il noto antibiotico amoxicillina, che i medici sono soliti prescrivere per le comuni infezioni delle vie respiratorie (LRTI) come tosse e bronchite. “L’utilizzo di amoxicillina per il trattamento di infezioni respiratorie nei pazienti non sospetti di polmonite non è in grado di aiutare e potrebbe essere dannoso – ha sottolineato il dottor Paul Little dell’University of Southampton (UK). Duro il giudizio conclusivo del ricercatore sulla prassi di somministrare antibiotici. “L’abuso di antibiotici, in particolare quando sono inefficaci, può portare a effetti collaterali come diarrea, eruzioni cutanee, vomito e lo sviluppo di una resistenza agli stessi”. Prima di prendere qualsiasi decisione si consiglia comunque di farsi visitare da un medico e farsi fare una diagnosi appropriata. Nei casi più gravi gli antibiotici potrebbero anche rendersi necessari. Ma non prendiamoli mai troppo alla leggera, cerchiamo di rendere anche i nostri medici un pò più consapevoli!

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23265995

15-09-2014

Fragole e mirtilli per tenere lontano il rischio di infarto nelle donne. Il binomio, infatti, sarebbe vincente e a rivelarlo un largo studio prospettico condotto dall'Harvard School of Public Health di Boston e dell’Università di East Anglia, che ha coinvolto 93.600 donne di età compresa tra i 25 e i 42 anni. I risultati sono stati pubblicati su Circulation. I mirtilli e le fragole, frutti di bosco ricchi di acido ellagico, sarebbero un vero toccasana per la salute delle donne. Durante il periodo di follow-up si sono verificati 405 infarti tra le partecipanti, che sono state seguite per 18 anni. Dai dati raccolti, tuttavia, è emerso come le donne che avevano consumato 3 porzioni di mirtilli o fragole a settimana avessero una riduzione del 32% del rischio, sia rispetto a chi mangiava i frutti di bosco 1 sola volta al mese o anche di meno, sia a chi seguiva comunque una dieta ricca di frutta e verdura. Come ha spiegato la dottoressa Cassidy dell’Università di East Anglia: "Le sostanze naturalmente presenti nella verdura e frutta di colore rosso/blu possono ridurre il rischio di un attacco di cuore del 32% nelle donne giovani e di mezza età. Mirtilli e fragole contengono alti livelli di composti che hanno benefìci cardiovascolari". La frutta e la verdura di colore rosso/blu come l’uva, l’arancia rossa, l’anguria, il melograno, le more, i lamponi, il ribes nero, le ciliegie, ma anche le melanzane, il ravanello, i pomodori, le barbabietole, il crescione, la cipolla rossa, i fagioli rossi, le lenticchie, la patata rossa e il radicchio rosso possiedono virtù preziose per l’organismo, in quanto sono in grado di ridurre il rischio di malattie cardiache, proteggono la pelle dall'invecchiamento precoce (favoriscono la produzione di collagene) e mantengono integri i vasi sanguigni. Inoltre, la frutta e la verdura di colore blu/viola combattono i tumori e promuovono una corretta funzione urinaria.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23319811

Lunedì, 15 Settembre 2014 09:23

ALLERGIE E PESTICIDI.

15-09-2014

Se aumentano le allergie alimentari la causa potrebbe essere nei pesticidi contenuti nell'acqua di rubinetto. Un nuovo studio statunitense ha rilevato, infatti, che alcuni prodotti chimici utilizzati per la purificazione dell'acqua del rubinetto di casa possono potenzialmente provocare allergie alimentari. La ricerca è stata promossa dall'allergologa Elina Jerschow dell'American College of Allergy, Asthma and Immunology (Acaai) e pubblicata sulla rivista "Annals of Allergy, Asthma and Immunology". Lo studio ha dimostrato che alti livelli di diclorofenolo - sostanza chimica utilizzata nei pesticidi o per aggiungere cloro all'acqua - rilevati nel corpo umano possono essere associati allo sviluppo di allergie alimentari. "La nostra ricerca mostra che alti livelli di questa sostanza inclusa nei pesticidi possono indebolire le tolleranze alimentari in alcune persone, scatenando le allergie", ha spiegato la Jerschow, "si tratta di un prodotto chimico comunemente contenuto nei pesticidi utilizzati dagli agricoltori, nell'acqua di rubinetto e negli insetticidi domestici".

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23176881

Lunedì, 15 Settembre 2014 09:19

L'INQUINAMENTO PUO' INNESCARE L'APPENDICITE.

15-09-2014

L’appendicite è un’infiammazione dell’appendice, quella parte dell’intestino crasso atta a prevenire le infezioni. Se poi questa specie di vermicello s’infiamma a tal punto da scoppiare, può diffondere pericolosamente l’infezione nell’addome: in questo caso si verifica una complicazione detta peritonite, che può anche essere mortale. Tra le varie cause dell’infiammazione dell’appendice, secondo uno studio potrebbe esserci anche l’inquinamento atmosferico, tipico delle metropoli. Gli adulti che vengono a maggiore contatto con l’aria inquinata di città pare infatti siano più a rischio appendicite. E’ quanto emerge da una nuova ricerca condotta dai medici dell’Università di Calgary, l’Università di Toronto e l’Health Canada, pubblicata sulle pagine del CMAJ (Canadian Medical Association Journal). Per questo studio, i ricercatori canadesi hanno coinvolto 5.191 adulti ricoverati in ospedale a Calgary. Di questi, il 52% dei ricoveri erano avvenuti tra aprile e settembre, che corrispondono ai mesi più caldi dell’anno in Canada. Ed è proprio durante questo periodo che le persone passano più tempo all’aperto, respirando così in maggiore misura l’aria inquinata.
Un collegamento tra l’aria inquinata e l’incidenza dei casi di appendicite è stato fatto prendendo atto che i tassi sono aumentati nel tempo di pari passo con l’industrializzazione. Allo stesso modo, stanno aumentando proprio nei Paesi in via di sviluppo dove l’inquinamento ambientale e atmosferico sta subendo un’accelerazione. Dopo aver raccolto i dati relative alla storia medica e lo stile di vita dei pazienti, il dottor Gilaad Kaplan e colleghi hanno analizzato l’aria di Calgary per determinare il livello d’inquinamento: in particolare i livelli di ozono, biossido di azoto e altre sostanze volatili. Dopo questa prima fase, i ricercatori hanno valutato i possibili collegamenti tra i livelli di inquinanti e l’incidenza dei casi di appendicite per gruppi di età e sesso. Un primo dato ha permesso di stabilire che i tassi d’incidenza erano maggiori tra gli uomini, rispetto alle donne. E tra gli adulti, rispetto ai bambini e ragazzi. Ora, i motivi per cui gli uomini siano più a rischio appendicite non sono del tutto chiari: una prima ipotesi è che i maschi in genere possono esercitare un mestiere per cui passano più tempo all’esterno, rispetto alle femmine. Anche il motivo per cui chi soggiorna in città sia più a rischio appendicite non è chiaro: l’ipotesi, in questo caso, è che gli inquinanti possano scatenare reazioni infiammatorie. Per cercare di far chiarezza, i ricercatori, ritengano siano necessari ulteriori approfonditi studi. Per il momento, invece, se si riuscisse a ridurre le emissioni inquinanti – appendicite o meno – sarebbe già un bel passo avanti, e un gran vantaggio per la salute.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19805497

Lunedì, 15 Settembre 2014 08:52

A RISCHIO I RENI CON ANTIPERTENSIVI E FANS.

15-09-2014

La prescrizione contemporanea di farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans) e antipertensivi può mettere a serio rischio la salute dei reni dei pazienti. A dirlo è un grande studio condotto dal dott. Francesco Lapi, farmacoepidemiologo presso il Centre for Epidemiology del Jewish General Hospital di Montreal, in Canada. Lo studio, che ha riguardato oltre 480 mila soggetti che hanno assunto antipertensivi, è stato pubblicato sul British Medical Journal. Nel corso del follow up – lungo 5 anni – il ricercatore italiano ha verificato 2.215 casi di danno renale acuto. Nel caso di una doppia combinazione, ovvero un diuretico e i Fans oppure un antipertensivo che agisce sull'angiotensina e i Fans, il rischio per i reni non aumenta. La tripla combinazione – diuretico, Ace inibitore o bloccante del recettore per l'angiotensina e Fans – invece aumenta il rischio del 31 per cento. Il rischio più alto si verificherebbe nel corso dei primi 30 giorni, con un aumento dell'82 per cento.
Le epidemiologhe Dorothea Nitsch e Laurie Tomlinson della London School of Hygiene and Tropical Medicine hanno così commentato: “le linee guida del National institute for health and clinical excellence britannico (Nice) raccomandano un trattamento con Ace inibitori o bloccanti del recettore per patologie come l'ipertensione, l'insufficienza cardiaca cronica e l'insufficienza renale cronica con proteinuria. In Inghilterra, la prescrizione di questi farmaci è aumentata del 16% negli ultimi quattro anni, e al contempo è molto comune che un anziano assuma anche diuretici e antinfiammatori”. Le due epidemiologhe fanno inoltre notare che nel caso della doppia combinazione, il campione preso in esame è troppo ristretto per garantire l'attendibilità del risultato, che appare a prima vista tranquillizzante. In tal senso, è necessario sensibilizzare medici di famiglia e pazienti sul ricorso eccessivo ai farmaci e sulla loro associazione.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=BMJ+2013%3B346%3Ae8525

13-09-2014

Una sostanza estratta dalla cannella, denominata CEppt, sarebbe in grado di agire proprio a livello degli ammassi neurofibrillari e degli aggregati della proteina beta amiloide, principali responsabili della degenerazione dei neuroni colinergici nell‘Alzheimer. L’autore della scoperta è il Professor Michael Ovadia, dell’Università di Tel Aviv (Dipartimento di Zoologia e Neurobiologia), che ha pubblicato la scoperta sulla rivista scientifica “PloS One”. Il morbo di Alzheimer è una patologia neurodegenerativa attualmente molto diffusa; l’OMS stima che in tutto il mondo circa 18 milioni di persone siano affette da tale patologia e che entro il 2025 questo numero sia destinato ad aumentare ulteriormente. La scoperta del Professor Ovadia, riguarda non solo le proprietà della cannella nella prevenzione dell’Alzheimer, ma anche le sue proprietà di riduzione della progressione dalla malattia.
Esistono due diverse piante della cannella: la Cinnamomum Zeylanicum e la Cinnamomum Cassia; entrambe appartenenti alla famiglia delle Lauracee. La Cannella Regina (Cinnamomum Zeylanicum) è quella responsabile delle proprietà curative, mentre la Cannella Cinese (Cinnamomum Cassia) è meno pregiata. La spezia viene ricavata dalla corteccia, la quale, una volta essiccata viene privata delle parti più esterne, fino ad ottenere la parte più interna. Tra i principali componenti si possono citare, acqua, proteine, zuccheri, fibre, amminoacidi (leucina, glutammato, lisina, valina, treonina, triptofano), vari minerali (calcio, ferro, potassio, manganese, selenio) e vitamine (B1, B2, B3, B5, B6, vitamina C, E, K).
La cannella vanta origini antichissime. Nel 3000 a.C. gli Egizi la utilizzavano per le imbalsamazioni e i medici Greci e Romani ne vantavano le proprietà afrodisiache. Queste proprietà vennero esaltate fino al Cinquecento, quando le proprietà aromatiche della pianta assunsero una maggiore rilevanza. Già nel Medioevo la cannella era uno dei doni più pregiati che potevano essere fatti, anche grazie alle numerose proprietà curative (per tosse e mal di gola) note già a quei tempi; mentre nell’Ottocento era considerata tra le quattro spezie citate nei libri di cucina quando si parlava di “un pizzico di spezie o di droghe” (assieme a noce moscata, chiodi di garofano e pepe). Tra le proprietà curative principali della pianta si possono citare:

- Proprietà digestive;
- Proprietà antisettiche nei confronti di batteri, virus e funghi;
- Proprietà antiiperglicemiche (utili per diabetici e iperglicemici)
- Proprietà stimolanti negli stati di spossatezza;
- Proprietà antidolorifiche;
- Proprietà anticongestionanti;
- Proprietà astringenti;
- Proprietà di riattivazione della circolazione.

Lo studio condotto dal Professor Ovadia, assieme al suo gruppo di ricerca dell’Università di Tel Aviv, riguarda un particolare estratto della cannella, denominato CEppt, che sarebbe in grado di inibire la formazione di oligomeri tossici della proteina beta amiloide (responsabile della formazione delle placche amiloidi), prevenendo in questo modo gli effetti tossici provocati dagli aggregati stessi.
Gli esperimenti sono stati effettuati in due step:

• il primo, in vitro, ha dimostrato che il CEppt è in grado di inibire la formazione di oligomeri di beta-amiloide tossici e distruggere le fibre amiloidi in provetta, risultato che ha permesso di sperare nella possibilità di utilizzarlo per contrastare il decorso della patologia già in atto, oltre che prevenirla.

• Nel secondo step, la sostanza è stata testata su mosche geneticamente modificate in modo tale da produrre la proteina beta-amiloide e su topi nei quali era stato indotto il morbo di Alzheimer in seguito a mutazioni genetiche. Questi animali sono stati trattati per un periodo di circa quattro mesi con una soluzione di cannella e acqua, che ha permesso, di rallentare il decorso della malattia e condurre ad un’aspettativa di vita paragonabile a quella degli animali sani. Oltre questo, è stato possibile osservare una remissione completa dei difetti motori, un miglioramento delle funzioni cognitive e la completa eliminazione di specie tetrameriche di beta amiloide nel cervello degli animali trattati.

“Un problema è che la cannella contiene anche sostanze epatotossiche (come la cinnamaldeiede). In ogni caso, si possono consumare diversi grammi al giorno senza danneggiare il fegato; una persona dovrebbe assumerne circa 20 grammi/die perché questa diventi dannosa. Proprio per questo motivo sarebbe necessario isolare l’estratto dagli altri componenti”, afferma il Prof.Ovadia. A questo proposito, per evitare effetti spiacevoli è sufficiente, come suggerito dal Professor Ovadia, non eccedere nel consumo di cannella e non superare i 6-10 grammi giornalieri.
La scoperta delle proprietà del CEppt nella profilassi e nella terapia dell’Alzheimer rappresenta indubbiamente un grande passo avanti; sicuramente altri studi sperimentali verranno effettuati in futuro, anche su altri animali, sebbene risulti difficile programmare una sperimentazione umana per via del lento decorso della malattia. In attesa di nuovi risultati, quindi, perché non provare a sfruttare le proprietà di questa spezia bevendo ogni tanto un delizioso tè aromatizzato alla cannella?

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Michael+Ovadia++plos+one

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