Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

23-12-2014

Il mal di testa è un problema con il quale molte persone si trovano a dover convivere fin dalla più giovane età e che può dipendere da diversi fattori. Uno studio effettuato presso l’università di Tel Aviv svela però che alla base di questo disturbo potrebbe esservi una causa davvero singolare: le gomme americane, meglio conosciute come “chewing gum”. Lo studio, pubblicato sull’importante rivista “Pediatric Neurology“, avrebbe accertato che quasi il 90% degli adolescenti che si trovano spesso alle prese con il mal di testa e che sono, nel contempo, grandi amanti della gomma americana, possono debellare la cefalea senza l’utilizzo di farmaci. Per la stragrande maggioranza di loro, sarebbe infatti sufficiente smettere di consumare le gomme americane: in pochissimo tempo il mal di testa sarebbe solo un lontano ricordo.
La ricerca ha preso in esame 30 giovani, con un’età compresa tra i sei e i diciannove anni. Nei 2/3 dei partecipanti alla ricerca, smettere di consumare le gomme americane per un mese ha fatto totalmente scomparire la cefalea con la quale dovevano spesso convivere. Altri sette hanno invece visto diminuire frequenza ed intensità del mal di testa. Il nesso tra chewing gum e mal di testa sarebbe confermato da una sorta di “prova del 9″ fatta dai ricercatori, visto che i pazienti che avevano visto scomparire totalmente il mal di testa, una volta ripresa, per circa due settimane, la vecchia abitudine, si sono ritrovati a dover nuovamente convivere con questo disturbo. Ma come mai vi è questo nesso tra consumo delle gomme americane e mal di testa? Secondo i ricercatori, il tutto sarebbe da ricondurre ad uno stress eccessivo dell’articolazione temporomandibolare.
Nathan Watemberg, che ha diretto la ricerca, ha affermato che quanto scoperto non può certo stupire, perchè tutti coloro che operano nella sanità sanno che sottoporre ad uno sforzo eccessivo l’articolazione temporomandibolare è una delle cause del mal di testa. Insomma, per sconfiggere questo disturbo, che è molto diffuso tra i giovani, in molti casi basterebbe semplicemente fare un piccolo sacrificio e non consumare le gomme: un prezzo sicuramente non alto, visto che può evitare di dover ricorrere all’utilizzo di farmaci.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24188910

Martedì, 23 Dicembre 2014 12:14

L'ALCOL AUMENTA IL RISCHIO DI MELANOMA.

23-12-2014

Secondo gli autori di un nuovo studio pubblicato sul British Journal of Dermatology, il consumo eccessivo di alcol, può aumentare il rischio di sviluppare un melanoma, cioè un tumore maligno della pelle, rendendo la pelle più sensibile ai raggi ultravioletti. Analizzando i risultati di 16 studi diversi sul melanoma, i ricercatori hanno concluso che, rispetto a chi è astemio, anche un bicchiere al giorno può aumentare del 10% il rischio di sviluppare questo tumore della pelle. Così man mano che si aumenta la quantità di alcol giornaliera, passando a due bicchieri al giorno, il rischio aumenta del 18%. Per chi invece, raggiunge o supera i quattro bicchieri al giorno, innalza la probabilità di sviluppare un melanoma del 55%. Con bicchiere, i ricercatori intendono una quantità di 12,5 grammi di alcol, contenuti nella bevanda, che può essere mezzo boccale di una birra ad alta gradazione, oppure di un bicchiere di vino.
Tutto ciò è frutto dei risultati delle analisi di 16 diversi studi sul melanoma, questi studi hanno coinvolto più di 6.200 pazienti. Però, fino ad ora, non è possibile andare più a fondo di così, nella correlazione tra questo tipo di tumore e gli alcolici. Questi esperti, hanno ipotizzato che ad entrare in gioco sia quindi, un’azione fotosensibilizzante: l’etanolo viene metabolizzato a livello epatico in acetaldeide, e proprio questa molecola può rendere l’epidermide più sensibile ai raggi solari. In presenza di acetaldeide, quindi, aumenterebbero i livelli di specie reattive dell’ossigeno, che poi danneggerebbero le cellule della pelle, aumentando così il rischio che queste si possano trasformare in cellule tumorali. Tutto ciò potrebbe aggravare l’effetto dannoso correlato all’esposizione ad ultravioletti. Gli scienziati erano già a conoscenza del fatto che l’assunzione di alcol in presenza delle radiazioni UV, possa alterare l’immunocompetenza dell’organismo, ovvero la capacità di produrre una risposta immunitaria normale. Questa caratteristica può portare ad un maggiore danno cellulare e, di conseguenza, alla formazione del cancro alla pelle. La speranza è che grazie alle informazione ottenute da questi studi, la popolazione riesca quindi a regolare l’utilizzo dell’alcol onde evitare il rischio di ammalarsi di cancro.

 

http://www.bbc.com/news/health-25930184

http://www.dailymail.co.uk/health/article-2547367/Dying-drink-Regular-boozing-raise-risk-skin-cancer-55-cent-claims-study.html

23-12-2014

L'olio essenziale di lavanda si è dimostrato un formidabile strumento per la lotta di infezioni causate da funghi che hanno la spiacevole caratteristica di resistere ai tradizionali metodi di trattamento. Gli oli essenziali estratti dalla lavanda sono già ampiamente usati nell’industria cosmetica e alimentare, ma potrebbero anche avere un vasto campo d’utilizzo nel settore farmaceutico. Hanno infatti proprietà sedative e antispasmodiche, oltre che antiossidanti e antimicrobiche. L’olio di lavanda è noto da parecchio tempo nella medicina alternativa come antidolorifico e antisettico, in grado di trattare le punture di insetti, di alleviare il dolore muscolare e gli spasmi causati dall’asma. Gli scienziati dell’Università di Coimbra hanno distillato olio di lavanda dalla pianta di lavanda gialla (Lavandula viridis), che cresce nel sud del Portogallo. L’olio è stato testato contro uno spettro di funghi patogeni, e si è dimostrato letale contro diversi ceppi noti come dermatofiti, e contro alcune specie di Candida.
I funghi dermatofili causano infezioni della pelle, delle unghie e dei capelli, dato che usano la cheratina dai tessuti per ottenere nutrienti. Sono responsabili per infezioni come il piede d’atleta, dermatofitosi e infezioni dello scalpo. Attualmente ci sono pochi tipi di medicinali antimicotici per trattare l’infezione di dermatofiti, e hanno spiacevoli effetti collaterali. I professori Lígia Salgueiro e Eugénia Pinto hanno quindi deciso di mettersi alla ricerca di nuovi farmaci ad azione fungicida in grado di contrastare efficacemente infezioni micotiche difficilmente trattabili con i medicinali tradizionali.”Negli anni passati c’è stato un aumento nell’incidenza di infezioni micotiche, particolarmente in pazienti immunocompromessi” spiega la Pinto. “Sfortunatamente c’è anche un aumento nella resistenza ai farmaci antimicotici. La ricerca del nostro gruppo ha mostrato che gli oli essenziali potrebbero essere alternative economiche ed efficienti che presentano effetti collaterali minimi”.
L'olio di lavanda mostra un'attività fungicida ad ampio spettro ed è molto potente. E’ un buon punto da cui iniziare per sviluppare questo olio per uso clinico allo scopo di trattare le infezioni fungine. Quello che serve fare ora sono test clinici per valutare come il lavoro in vitro si traduce in vivo”. In altre ricerche universitarie, come al Medical Center del’Università del Maryland, l’olio di lavanda è risultato efficace pr rallentare l’attività del sistema nervoso, migliorare la qualità del sonno e promuovere il rilassamento, specialmente se abbinato a massaggi e frizioni. L’olio di lavanda è anche stato somministrato a 86 pazienti per trattare l’alopecia areata, una patologia che porta alla repentina caduta di capelli e peli. Durante il trattamento, che consisteva in massaggi dello scalpo giornalieri per un totale di 7 mesi, i pazienti hanno mostrato una ricrescita dei capelli significativamente superiore ai pazienti del gruppo di controllo trattati con massaggi senza olio di lavanda.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21321363

21-12-2014

Le due principali cause di morte nel mondo occidentale sono gli eventi cardiaci, o cardiovascolari, e il cancro. Due disturbi che detengono rispettivamente il primo e secondo posto. Le malattie neurodegenerative come l’Alzheimer si ritiene si attestino al sesto posto quale causa di morte, tuttavia è molto probabile che la classifica debba essere riveduta. Ad aver scoperto che la demenza e l’Alzheimer incidono sempre più nei bilanci dei decessi per malattia è una ricerca appena pubblicata su Neurology, la rivista dell’American Academy of Neurology (AAN). «La malattia di Alzheimer e le altre demenze sono sottostimate sui certificati di morte e nelle cartelle cliniche, spiega il dott. Bryan D. James, del Rush University Medical Center di Chicago e autore principale dello studio. I certificati di morte elencano spesso la causa immediata della morte, come la polmonite, anziché visualizzarne la demenza come una causa di fondo». Il problema delle statistiche sulle cause di morte è da ricercarsi nella necessità – o volontà – di indentificare una singola causa; per cui può accadere che non venga catturata la realtà del processo di morte per la maggior parte delle persone anziane, dove spesso contribuiscono più problemi di salute, fanno notare i ricercatori. «Le stime generate dalla nostra analisi indicano che le morti per la malattia di Alzheimer superano di gran lunga i numeri riportati dal CDC e quelli elencati sui certificati di morte», sottolinea James.
Le conclusioni degli autori giungono dopo aver condotto lo studio in questione su 2.566 persone di età compresa tra i 65 anni e oltre, con un’età media di 78. I partecipanti sono stati sottoposti a verifica annuale per la demenza, rivelando che dopo una media di otto anni, 1.090 partecipanti sono morti. Un totale di 559 partecipanti senza demenza al basale (all’inizio dello studio) ha nel frattempo sviluppato l’Alzheimer. Il tempo medio dalla diagnosi alla morte era di circa quattro anni. Dopo la morte, la malattia di Alzheimer è stata confermata tramite autopsia in circa il 90% di coloro a cui era stata clinicamente diagnosticata.
I tassi di morte erano più di quattro volte superiori dopo una diagnosi di Alzheimer nelle persone tra i 75 anni e gli 84 anni; e quasi di tre volte maggiore nelle persone di 85 o più anni. Più di un terzo di tutte le morti in questi gruppi di età erano attribuibili alla malattia di Alzheimer. Tutto questo, secondo i ricercatori, si traduce in una stima di 503.400 morti nel 2010 per Alzheimer nella sola popolazione degli Stati Uniti con più di 75 anni. Il tasso risulta così essere 5-6 volte superiore al numero di 83.494 decessi riportato dal CDC e basato su certificati di morte. Ecco pertanto come i decessi per Alzheimer o demenza siano sottostimate, portando di fatto la malattia verso una – ahimè – più alta posizione nella classifica delle cause di morte. «Determinare i veri effetti della demenza in questo Paese è importante per sensibilizzare l’opinione pubblica e individuare le priorità di ricerca riguardo a questa epidemia», conclude James.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Neurology+Bryan+D.+James

21-12-2014

Negli ultimi cinquant’anni la vita è notevolmente migliorata. E anche il nostro modo di avere a disposizione alimenti lo è. Non siamo più obbligati a fare la spesa quotidianamente – anche perché nessuno di noi ne avrebbe il tempo – ma abbiamo la fortuna di poter conservare cibi freschi anche quindici giorni, grazie alle comode confezioni sottovuoto. Oltre a queste, abbiamo a nostra disposizione anche lattine, confezioni rigide, scatole in alluminio...Insomma, la nostra vita è molto facilitata rispetto all’epoca dei nostri nonni. Eppure, anche tutto questo ha il suo risvolto negativo: la maggior parte delle confezioni “dure” in plastica (o in alluminio) contengono una sostanza pericolosa per la nostra salute: il BPA. Sostanza per altro già sotto accusa da diverso tempo. Oggi, sono i ricercatori del Cincinnati Cancer Center a puntare il dito contro il BPA (Bisfenolo A). Una quantità elevata nelle urine, secondo i loro studi, potrebbe essere il precursore del cancro alla prostata negli uomini. I bassi livelli, invece, sembrano essere associati a modificazioni cellulari – non necessariamente maligne. La ricerca sembra pertanto essere la prima a mostrare l’importanza della rilevazione del BPA urinario nella prevenzione del cancro alla prostata. Secondo gli studiosi anche la distruzione di un ciclo di duplicazione cellulare attraverso l’esposizione a basse dosi di BPA può causare questo genere di patologia.
Per capire in maniera sommaria qual è il livello di esposizione al BPA, controllate bene ciò che avete in casa: tutti i contenitori di plastica rigida, le lattine, le stoviglie in melamina eccetera possono essere un pericoloso veicolo di tale sostanza. Studi precedenti ne hanno già valutato il pericoloso legame con difetti neurologici, diabete e varie forme tumorali. Secondo Shuk-mei Ho, direttrice del Cancer Center di Cincinnati e professoressa dell’Università di Cincinnati College of Medicine, l’esposizione al BPA è un fenomeno comune e in costante aumento. Gli studi sugli animali hanno più volte confermato la sua pericolosità, tuttavia, per ovvie ragioni, non sono ancora sufficienti gli studi sull’essere umano. «Il cancro alla prostata è il secondo tumore più comune tra gli uomini del Nord America e uno su sei uomini lo svilupperà durante la sua vita – spiegano gli autori – Tuttavia, il cancro è raramente diagnosticato negli uomini di età inferiore ai 40 anni con quasi due terzi dei casi segnalati negli uomini a 65 anni. I principali fattori che contribuiscono sono la razza di appartenenza e la storia famigliare, mentre poco si sa circa l’impatto dei perturbatori endocrini sul cancro alla prostata». Lo studio, pubblicato su PLoS ONE, ha messo ancora una volta in evidenza la pericolosità degli involucri per alimenti. E’ indubbio che fino a quando non si riusciranno a produrre materiali realmente ecologici e naturali, l’ideale è acquistare la stragrande maggioranza dei cibi direttamente dal produttore e privi di qualsiasi confezionamento. Sicuramente tutti ne guadagneremmo in termini di salute.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24594937

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3940879/

21-12-2014

Questo è uno di quegli studi che possono essere interpretati in diversi modi: si può pensare che assumere la pillola anticoncezionale sia un pericolo, anche piuttosto serio, per la salute oppure pensare che, come per tutti i farmaci, ci possono essere effetti secondari che in qualcuno possono essere più evidenti e per qualcun altro praticamente nulli o, ancora, che la possibilità di prevenire una gravidanza indesiderata sia più importante di tutto il resto. Insomma, bisogna essere consapevoli che non si può avere capra e cavoli, ma che, qualunque scelta si compia, è fondamentale sia fatta nella massima consapevolezza dei pro e dei contro. Ora, tornando allo studio, i ricercatori ribadiscono che i risultati non devono essere un invito a non utilizzare più questo metodo contraccettivo, ma che comunque è bene tenerli presente.
Quali sono dunque questi discussi risultati? I risultati indicano che le donne che assumono contraccettivi orali sono più a rischio di sviluppare la sclerosi multipla (o SM), la malattia autoimmune e neurodegenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale. La revisione sistematica è stata fatta dai ricercatori del Kaiser Permanente Southern California, i quali hanno analizzato le cartelle cliniche di 305 donne di età compresa tra 14 e i 48 anni a cui erano state diagnosticate tra il 2008 e il 2011 la sclerosi multipla o il suo precursore, ossia la sindrome clinicamente isolata (CIS). Secondo l’AISM, per Clinically Isolated Syndrome si intende la comparsa di un episodio neurologico (sintomo o segno), che duri almeno 24 ore e che sia compatibile con una malattia demielinizzante del sistema nervoso centrale, come lo è la SM.
I risultati dell’analisi hanno mostrato che tra le donne che avevano assunto per almeno tre mesi un contraccettivo orale, vi era il 35% di aumento del rischio di sviluppare la sclerosi multipla, rispetto a un gruppo di controllo composto da 3.050 donne che non hanno la sclerosi multipla. In particolare, il dottor Kerstin Hellwig principale autore dello studio, ha scoperto che il 29% delle donne, prima di ricevere la diagnosi di SM ha utilizzato un sistema di controllo delle nascite. Anche il 24% delle donne sane appartenenti al gruppo di controllo hanno mostrato un aumento del rischio di sclerosi multipla correlato a un maggiore utilizzo del farmaco anticoncezionale – in genere, per tutte, una combinazione di estrogeno/progestinici. Nel caso invece delle donne che attualmente non assumevano la pillola, ma che lo avevano fatto circa tre anni prima della diagnosi, mostravano un rischio leggermente più elevato. «Questi risultati suggeriscono che l’uso di contraccettivi ormonali può contribuire almeno in parte all’aumento del tasso di SM tra le donne», ha concluso il dott. Hellwig.

 

http://www.neurology.org/content/82/10_Supplement/S34.003

http://www.foxnews.com/health/2014/02/28/oral-contraceptives-linked-to-increased-risk-multiple-sclerosis/

Sabato, 20 Dicembre 2014 15:29

MANGIARE FRAGOLE RIDUCE IL COLESTEROLO.

20-12-2014

Diversi studi avevano già dimostrato la capacità antiossidante delle fragole, ma ora i ricercatori dell'Università Politecnica delle Marche (UNIVPM, Italia), insieme con i colleghi delle Università di Salamanca, Granada e Siviglia (Spagna), hanno condotto un’analisi che ha rivelato che questi frutti possono anche contribuire a ridurre il colesterolo. Circa 500 gr di fragole sono stati aggiunti alla dieta giornaliera di 23 volontari sani, per oltre un mese. I ricercatori hanno prelevato campioni di sangue dai partecipanti, prima e dopo questo periodo, per confrontare i dati. I risultati, pubblicati nel Journal of Nutritional Biochemistry, mostrano che la quantità totale di colesterolo, i livelli di lipoproteine a bassa densità (LDL o colesterolo cattivo) e la quantità di trigliceridi è sceso rispettivamente all’8,78%, 13,72% e il 20,8%. La lipoproteina ad alta densità (HDL o colesterolo buono) è rimasta invariata. Mangiare fragole migliora anche altri parametri quali il profilo lipidico plasmatico generale, biomarker antiossidanti, e funzionalità piastrinica. Tutti i parametri tuttavia, tornano ai valori iniziali, 15 giorni dopo aver abbandonato il ‘trattamento’ con le fragole.
Maurizio Battino, ricercatore presso UNIVPM e direttore dello studio, ha detto: “Questa è la prima volta che uno studio sostiene il ruolo protettivo dei composti bioattivi delle fragole, nell’affrontare marcatori riconosciuti e fattori di rischio per le malattie cardiovascolari”. Il ricercatore fa notare che ”non vi è ancora alcuna prova diretta su quali composti del frutto sono responsabili di questi effetti benefici, ma tutti i segni e gli studi epidemiologici indicano che probabilmente, le antocianine, i pigmenti che offrono al frutto il loro caratteristico colore rosso, giocano un ruolo fondamentale nel processo”. Il gruppo di ricerca ha confermato in altri studi che mangiare fragole protegge anche contro i raggi ultravioletti, riduce i danni che l’alcol può avere sulla mucosa gastrica, rafforza eritrociti o globuli rossi e migliora la capacità antiossidante del sangue. Il team inoltre, pubblicherà quest’anno, un altro studio sulla rivista ‘Food Chemistry’, in cui intende dimostrare che il consumo di fragole aumenta la funzione antiossidante del flusso di sangue, eritrociti e cellule mononucleate.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Journal+of+Nutritional+Biochemistry+Maurizio+Battino

20-12-2014

Un tempo il cibo era semplicemente cibo. Oggi è un insieme di lavorazioni industriali che prevedono stoccaggio e confezionamento dal contenuto tutt’altro che naturale. Tutto ciò ha destato l’attenzione di alcuni scienziati ambientali che hanno condotto uno studio in merito, appena pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health. Secondo gli esperti sono molte le sostanze chimiche che ci ritroviamo a mangiare con il cibo. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che tali sostanze, essendo di natura inerti, possono penetrare nel cibo che mangiano quotidianamente. La quantità di sostanze chimiche sono regolamentate, questo è vero. Ma se abbiamo l’abitudine di mangiare cibi confezionati o peggio trasformati, rischiamo di essere esposti cronicamente a elementi chimici dannosi. E l’impatto a lungo termine, chi lo conosce? Si chiedono i ricercatori. Spesso, quando si riconosce l’entità del problema – come è stato per i biberon al PBA o le pentole con CFOA – è troppo tardi e ormai troppa gente ne è stata danneggiata. Per tale motivo gli esperti chiedono che sia fatta luce su questa problematica e di considerare gli eventuali effetti sul cruciale sviluppo di un essere umano, magari anche in fase fetale.
Gli studiosi, in particolare, vorrebbero ottenere risposte sull’esposizione permanente ai materiali a contatto con alimenti (FCM) come quelli che vengono adoperati negli imballaggi, nella conservazione, nella preparazione o elaborazione dei cibi che tutti i giorni troviamo sulle nostre tavole. Tutto ciò è «motivo di preoccupazione per diverse ragioni». Le sostanze chimiche tossiche, come detto, sono presenti in moltissimi alimenti a causa di alcuni tipi di lavorazione e imballo. Tra queste, ricordiamo la formaldeide – sostanza che a dosi elevate può causare il cancro. Chi è pertanto in grado di stabilire qual è la dose massima di alimenti e relative sostanze che si possono assumere per evitare malattie di un certo rilievo? Si pensi solo che la formaldeide la si trova in moltissimi posti, tra cui anche nelle bottiglie di plastica adoperate per le bevande gassate. Ma non solo, persino nelle stoviglie in melammina che vanno tanto di moda oggigiorno. Di fatto, la melammina e la formaldeide sono tra le materie prime più usate nella produzione di stoviglie. Tali sostanze tendono a incollarsi al cibo durante l’utilizzo. L’Efsa ha richiesto, non a caso, la diminuzione da 30mg/kg a 2,5mg/kg. Ma la formaldeide non è l’unica a essere stata messa sul banco degli imputati; mancano all’appello il bisfenolo A (o BPA), il tributilstagno, il triclosan e gli ftalati che a lungo andare possono interagire negativamente con la produzione ormonale. «Mentre per la scienza alcune di queste sostanze sono oggetto di dibattito e i responsabili politici lottano per soddisfare le esigenze delle parti interessate, i consumatori rimangono esposti a queste sostanze chimiche tutti i giorni, per lo più inconsapevolmente», rimarcano gli autori. Tutto ciò non è assolutamente da prendere sottogamba considerando che il numero totale di prodotti chimici che circondano la nostra vita sono nell’ordine di 4.000. Come mai, si chiedono i ricercatori, i potenziali danni cellulari e il ruolo che queste sostanze rivestono nella parziale distruzione ormonale non vengono presi in considerazione? Inoltre, le potenziali mutazioni a livello cellulare causate da FCM e in particolare quelli con la capacità di distruggere gli ormoni non sono nemmeno prese in considerazione nelle analisi di routine, tutto ciò «getta seri dubbi sull’adeguatezza delle procedure di regolamentazione chimica». Gli esperti ammettono la difficoltà nel condurre studi realmente affidabili, in quanto non vi sono popolazioni non esposte ai FCM, e i livelli di esposizione possono variare notevolmente da individuo a individuo. Tuttavia, sottolinea l’estrema urgenza nel cercare risultati validi al fine di considerare tutti i legami tra alimenti a contatto con le sostanze chimiche e patologie anche molto gravi come il cancro, il diabete, i disturbi neurologici e infiammatori e l’obesità. «Dal momento che la maggior parte dei cibi sono confezionati e l’intera popolazione può esserne esposta, è della massima importanza che le lacune delle conoscenze vengano riempite in modo affidabile e rapido», concludono i ricercatori.

 

http://www.eurekalert.org/pub_releases/2014-02/bmj-fpc021714.php

http://www.medicalnewstoday.com/articles/272910.php

18-12-2014

Una speranza nel trattamento delle infezioni batteriche, che a causa dell’abuso di antibiotici possono divenire difficili – se non impossibili – da curare, arriva da un semplice bulbo noto per il suo utilizzo in cucina: l’aglio. La pianta di aglio che produce questi bulbi impiegati anche per il controllo della pressione sanguigna, avrebbe dunque anche proprietà antibiotiche piuttosto marcate; tanto che uno studio svedese dell’Università di Copenaghen ha trovato in un composto chiamato “ajoene” un potenziale avversario dei batteri – anche quelli più agguerriti. Tim Holm Jakobsen e colleghi dell’UC hanno sottolineato come le infezioni antibiotico-resistenti, che causano migliaia di morti ogni anno, stiano diventando una piaga mondiale dalle proporzioni allarmanti. Per questo motivo deve essere trovata al più presto una soluzione che possa mettere la parola “fine” alle infezioni batteriche causate da questo tipo di agenti patogeni. E la risposta potrebbe proprio trovarsi nell’ajoene, la sostanza attiva presente nell’aglio che avrebbe la capacità di neutralizzare i batteri multiresistenti bloccando il loro sistema di comunicazione.
I batteri resistenti – ma anche gli altri – quando entrano nell’organismo umano secernono una tossina chiamata “ramnolipide” che distrugge i leucociti (o globuli bianchi) che sono le cellule attive del sistema immunitario atte a proteggere l’organismo dalle invasioni di agenti patogeni. In questo modo i batteri riescono a proliferare e diffondere l’infezione che, se non curata, può divenire mortale. I batteri per sopravvivere si agglutinano, ossia si incollano per così dire l’un l’altro, formando un biofilm di materiale organico che li circonda e protegge dall’attacco degli antibiotici, diventando così resistenti. Una soluzione diviene dunque quella di riuscire a rompere la barriera del biofilm per poter attaccare i batteri e bloccare il sistema di comunicazione – detto Quorum Sensing. Per studiare gli effetti su questa barriera, i ricercatori hanno dedicato gran parte della loro attenzione al batterio Pseudomonas aeruginosa, che causa per esempio infezioni in pazienti con ulcere croniche e nei polmoni di pazienti affetti da fibrosi cistica. «L’ajoene rinforza e migliora il trattamento con antibiotici convenzionali – spiega il dott. Jakobsen –. Abbiamo chiaramente dimostrato questo sul biofilm coltivato in laboratorio e negli studi che coinvolgono i topi. Quando aggiungiamo antibiotici contro il biofilm questi hanno poco effetto, e l’ajoene da solo non fa quasi differenza. E’ solo quando i due sono combinati che qualcosa di significativo accade». I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Future Microbiology, mostrano che il trattamento combinato con ajoene e antibiotici uccide più del 90 per cento del biofilm normalmente virulento. «L’aglio contiene così poco ajoene che si avrebbe bisogno di mangiare circa 50 spicchi al giorno per ottenere l’effetto desiderato», sottolinea Jakobsen, per cui vi è la necessità di utilizzare un estratto che si possa somministrare in combinazione con il principio farmacologico che agisce in sinergia per neutralizzare i batteri resistenti.

 

http://www.universityherald.com/articles/9566/20140523/chemical-garlic-virulent-bacteria-copenhahen-herb-bacterium.htm

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3346669/

Giovedì, 18 Dicembre 2014 20:51

I SEMI D'UVA CONTRO IL CANCRO INTESTINALE.

18-12-2014

Le chemioterapia, allo stato attuale, rimane ancora uno dei trattamenti più praticati nella cura del cancro nelle sue varie forme. Tuttavia, come è purtroppo ben risaputo, non è priva di effetti collaterali, anche gravi. In certi casi non se ne però può fare a meno. E quando sia questo il caso, si può se non altro cercare di ridurre al minimo questi effetti avversi e, magari, riuscire anche ad aumentare l’efficacia della cura: tutto questo, a quanto sembra, trova una risposta nei semi d’uva che secondo uno studio dell’Università di Adelaide (Australia) contengono delle sostanze attive utili in tutte e due i casi. Sarebbero dunque i tannini e i polifenoli – agenti antinfiammatori – contenuti nei semi d’uva a ridurre gli effetti collaterali e ad aumentare l’efficacia della chemioterapia utilizzata nel trattamento del cancro all’intestino, uno dei più diffusi e piuttosto ostici da curare. Secondo la dott.ssa Amy Cheah e colleghi, vi è un crescente corpo di evidenze che attestano agli estratti di semi d’uva proprietà non solo antinfiammatorie, ma anche anticancro: per cui se ne ottiene un doppio beneficio. «Questo è il primo studio a dimostrare che i semi d’uva possono aumentare la potenza di uno dei maggiori farmaci chemioterapici nella sua azione contro le cellule tumorali del colon – spiega la dott.ssa Cheah – La ricerca ha anche mostrato che in studi di laboratorio il vinacciolo assunto per via orale ha ridotto in modo significativo l’infiammazione e danni ai tessuti causati dalla chemioterapia nel piccolo intestino, e non ha avuto effetti dannosi sulle cellule non tumorali». «A differenza della chemioterapia – aggiunge la Cheah – il vinacciolo sembra agire selettivamente sulle cellule tumorali, lasciando le cellule sane quasi inalterate».
Lo studio, pubblicato su PLoS One, è stato condotto in laboratorio su colture di cellule tumorali del colon su cui sono stati testati gli effetti di un estratto di semi d’uva, che è un sottoprodotto della vinificazione. Nello specifico, sono stati utilizzati tannini estratti dai semi d’uva liofilizzati e in polvere. I risultati dei test hanno mostrato che l’estratto di semi d’uva non ha causato effetti collaterali sull’intestino sano a concentrazioni fino a 1.000 mg; ha diminuito sensibilmente il danno intestinale da chemioterapia, rispetto alle cellule di controllo; ha promosso una diminuzione dell’infiammazione indotta dalla chemioterapia fino al 55% e, infine, ha aumentato del 26% gli effetti inibitori della chemioterapia sulla crescita delle cellule cancerose del colon. «I nostri studi sperimentali hanno dimostrato che l’estratto di semi d’uva riduce l’infiammazione e il danno indotto dalla chemioterapia e ha contribuito a proteggere le cellule sane nel tratto gastrointestinale – sottolinea la dott.ssa Cheah – Anche se questo effetto è molto promettente, inizialmente eravamo preoccupati che semi d’uva potessero ridurre l’efficacia della chemioterapia». Ma per fortuna così non è stato; anzi. «Al contrario – spiega infatti la Cheah – abbiamo scoperto che l’estratto di semi d’uva non solo ha promosso la capacità della chemioterapia di uccidere le cellule tumorali, ma ha anche reso più potente la chemioterapia nella concentrazione che abbiamo testato».
«I semi d’uva – aggiunge il coautore dello studio, professor Gordon Howarth – stanno dimostrando un grande potenziale come trattamento antinfiammatorio per una serie di malattie intestinali e ora come un possibile trattamento anticancro. Questi primi risultati anticancro provengono da colture cellulari e il prossimo passo sarà quello di approfondire la ricerca». Ecco dunque come un prodotto naturale considerato di scarto – e che pertanto andrebbe perduto – si possa invece dimostrare utile perfino in un ambito di salute delicato come quello del cancro. E come disse a riprova una ricercatrice statunitense poco tempo fa in uno studio sulla placca arteriosa: «La Natura è più avanti di noi».

 

http://www.adelaide.edu.au/news/news68362.html

http://www.oncologynurseadvisor.com/grape-seed-promising-against-colon-cancer/article/336995/

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