Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

04-12-2014

La radioterapia usata per trattare il cancro uterino può aumentare il rischio di sviluppare il cancro alla vescica del paziente. Questa è la conclusione di un recente studio pubblicato su BJU International. I risultati indicano l’importanza del monitoraggio di potenziali segni di cancro della vescica in questi pazienti, per garantire la diagnosi precoce e il trattamento. Negli Stati Uniti il cancro uterino è il quarto tumore più comune nelle donne, con una stima di 49.560 donne diagnosticate nel 2013. Oltre alla chirurgia, il 38 per cento delle pazienti viene sottoposto a radioterapia pelvica per diminuire la ricorrenza del cancro uterino. Gli studi hanno trovato che le donne trattate con radioterapia per il cancro uterino, come gli uomini che hanno ricevuto radioterapia per il cancro alla prostata, hanno un rischio maggiore di sviluppare il cancro alla vescica, più tardi nella vita. Per la ricerca, Guan Wu, dell'University of Rochester Medical Center, ed i suoi colleghi, hanno analizzato 56.681 pazienti con diagnosi di cancro uterino come primo tumore maligno primario tra il 1980 e il 2005. Le informazioni relative ai casi analizzati, sono derivate dal database del Surveillance, Epidemiology e End-Results (SEER). In un follow-up medio di 15 anni, l’incidenza del cancro della vescica nelle pazienti con tumore uterino trattate con radioterapia pelvica, era due volte superiore a quella osservata nelle pazienti trattate senza radiazione. Si ritiene inoltre, che i tumori della vescica che si sviluppano dopo la radiazione pelvica tendono ad essere aggressivi. “I medici che si occupano di pazienti con una storia di cancro uterino e radioterapia pelvica dovrebbero tenere a mente l’aumento del rischio di cancro alla vescica,” ha detto il dottor Wu. ”La valutazione clinica adeguata dovrebbe essere eseguita per evitare diagnosi in ritardo e per migliorare la qualità delle cure per questo gruppo di pazienti“.

 

http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/bju.12543/abstract;jsessionid=DD1826C5A7B18260FE91C93E469E72C0.f02t02

04-12-2014

Se la mela è uno dei frutti a più alto rendimento salutare, c’è anche un altro frutto dell’orto che pare avere molte frecce al proprio arco: è il pomodoro che, grazie ai suoi componenti, può essere d’aiuto nella prevenzione di diverse malattie. Tra queste, suggerisce un nuovo studio, c’è anche il cancro al seno. Lo studio, condotto dai ricercatori della Rutgers University (Usa), ha suggerito che una dieta che comprenda buone quantità di pomodori aiuta le donne – in particolare quelle in post-menopausa – a ridurre il rischio di carcinoma mammario. L’effetto benefico del pomodoro avverrebbe sul controllo degli ormoni che svolgono un ruolo nella regolazione del metabolismo di grassi e zuccheri.
«I vantaggi del mangiare un sacco di pomodori e prodotti a base di pomodoro, anche per un breve periodo, erano chiaramente evidenti nei nostri risultati – ha dichiarato la dott.ssa Adana Llanos, principale autrice dello studio –. Mangiare frutta e verdura, che sono ricche di nutrienti essenziali, vitamine, minerali e sostanze fitochimiche come il licopene, trasmette significativi benefici. Sulla base di questi dati, riteniamo che il consumo regolare delle porzioni quotidiane raccomandate di frutta e verdura potrebbe favorire la prevenzione del cancro al seno in una popolazione a rischio».
Gli effetti di una dieta ricca di pomodori sono stati confrontati con quelli che si avrebbero da un altrettanto alto consumo di soia – spesso raccomandata proprio alle donne in post-menopausa. I ricercatori hanno sottoposto a test un gruppo di 70 donne in post-menopausa che hanno dovuto seguire una dieta prima con i pomodori e poi con la soia per 20 settimane, suddivise in due periodi di dieci. Prima di sottoporsi allo studio, le partecipanti sono state invitate a non mangiare per due settimane piatti a base o contenenti pomodori e soia. Dopo di che, per le prime dieci settimane hanno assunto giornalmente prodotti e cibi contenenti almeno 25 milligrammi di licopene. Nella seconda fase di studio, separata dalla prima, le partecipanti hanno assunto giornalmente e per altre dieci settimane prodotti e cibi che contenessero almeno 40 g di proteine della soia.
I risultati finali dello studio sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism e mostrano che quando le partecipanti avevano seguito la dieta ricca di pomodoro, i livelli di adiponectina – un ormone che modula alcuni processi metabolici ed è coinvolto nella regolazione dei livelli di zuccheri e grassi (lipidi) nel sangue – erano aumentati del 9%. Le analisi hanno rivelato che questo effetto era leggermente più forte nelle donne che avevano un basso Indice di Massa Corporea (BMI). Al contrario, dopo il periodo di assunzione della soia, i livelli sierici di adiponectina erano diminuiti. A conclusione dello studio, i ricercatori scrivono che «l’aumento del consumo alimentare di cibi a base di pomodoro può vantaggiosamente aumentare le concentrazioni sieriche di adiponectina tra le donne in post-menopausa ad aumentato rischio di cancro al seno, specialmente quelle che non sono obese».

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Journal+of+Clinical+Endocrinology+and+Metabolism+Adana+Llanos

04-12-2014

Un gruppo di scienziati canadesi ha scoperto che i pazienti anziani che assumono broncodilatatori e farmaci anticolinergici, rischiano maggiormente attacchi di cuore e patologie cardiache importanti. I risultati della ricerca, pubblicata su JAMA Internal Medicine, hanno riscontrato il 28% di possibilità in più di rischio di infarto acuto del miocardio (attacco cardiaco), insufficienza cardiaca, ictus e aritmie cardiache tra i pazienti con età 66 anni cui sono stati prescritti broncodilatatori a lunga durata. Andrea Gershon, dell’Istituto di Scienze Cliniche Valutativa in Ontario ha condotto lo studio sull’azione svolta dai beta-agonisti e dagli anticolinergici per via inalatoria a lunga durata, utilizzati nei trattamenti di BPCO, una malattia polmonare progressiva causata dall’esposizione a lungo termine al fumo di sigaretta, all’inquinamento atmosferico, ai vapori chimici, alla polvere ed altri gas tossici. Questa patologia è la terza causa di morte negli Stati Uniti, secondo l’American Lung Association. Altri farmaci usati per trattare i sintomi della BPCO comprendono espettoranti e mucolitici per allentare il fastidioso senso di muco nelle vie aeree, gli antibiotici per curare le infezioni bronchiali acute e polmonite, e i chinoloni per eliminare alcuni tipi di batteri dai polmoni. Per ora, solo il broncodilatatore è stato in grado di migliorare la funzione polmonare e la qualità della vita di coloro che soffrono, da tempo, di BPCO. Lo studio in questione ha analizzato circa 191.000 anziani dell’Ontario, sottoposti a trattamento con broncodilatatori tra il settembre 2003 e marzo 2009. I broncodilatatori sono farmaci in grado di rilassare ed aprire le vie aeree del paziente, rendendo più facile la respirazione.
Secondo una relazione approfondita sui trattamenti BPCO presso l’Università del Maryland Medical Center, anche studi precedenti hanno dimostrato che questi farmaci aumentano il rischio di sviluppare serie patologie di natura cardiovascolare. Tuttavia, questi studi sono considerati da alcuni esperti di fama, inconcludenti. Uno studio ha dimostrato che l’utilizzo di un farmaco anticolinergico per via inalatoria per più di un mese ha aumentato del 60 per cento il rischio di attacco di cuore, ictus o morte nei pazienti. Un altro studio ha trovato che la breve durata d’azione dell’anticolinergico ipratropio ha aumentato il rischio di morte per cause cardiovascolari del 30 per cento, in particolare negli uomini.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23689820

Mercoledì, 03 Dicembre 2014 18:49

MIELE DI MANUKA: POTENTE ANTICANCEROGENO.

03-12-2014

Secondo una recente ricerca, il miele di Manuka può essere in grado di inibire la crescita delle cellule tumorali. La ricerca in merito all’azione del miele di Manuka è stata condotta da parte degli esperti dell'Università degli Emirati Arabi Uniti, i quali hanno potuto inoltre porre in evidenza come tale alimento possa agire positivamente nel ridurre gli effetti collaterali tossici legati al trattamento dei pazienti affetti da cancro sottoposti a chemioterapia. Gli esperti si sono dimostrati interessati ad individuare quali fossero effettivamente le basi molecolari del funzionamento del miele di Manuka nel contrastare lo sviluppo delle cellule cancerogene. Gli esperimenti in proposito sono proseguiti lungo il corso di tutto lo studio, che ha avuto una durata complessiva di cinque anni. A seguito delle osservazioni condotte da parte dei ricercatori, è stata confermata la capacità del miele di Manuka di provocare la morte programmata delle cellule cancerogene, la quale viene definita con il termine di “apoptosi”. Si tratta di un processo fisiologico naturale, necessario all’organismo per poter condurre il proprio rinnovamento cellulare, liberandosi delle cellule ormai danneggiate. Ci troviamo dunque di fronte ad una scoperta che, a parere degli esperti, aprirebbe nuove possibilità nella messa a punto di tecniche rivolte alla cura del cancro. Il miele di Manuka nella sua azione imiterebbe il funzionamento fisiologico dell’organismo per quanto riguarda il mantenimento di un numero equilibrato di cellule, con particolare riferimento alle cellule sane, per garantire il proprio corretto andamento. Questo nuovo studio che ha visto come protagonista il miele di Manuka – un tipo di miele tipico della Nuova Zelanda già noto per le sue proprietà curative, cicatrizzanti e antibatteriche – oggi pone l’accento sulle sue proprietà nell’inibire la crescita dei tumori. Diversi sono i tipi di cancro contro cui il miele sarebbe attivo, tra questi quello del seno, della pelle e del colon.
Lo studio in questione, pubblicato su PLoS ONE, è stato condotto da un team di ricercatori dell’Università degli Emirati Arabi Uniti, i quali ritengono che questa sia una scoperta innovativa che, oltre a ciò, fornisce una forte evidenza scientifica. Il dottor Basel K. Al Ramadi, professore e presidente del Dipartimento di Microbiologia e Immunologia Medica, e colleghi del Collegio di Scienze Medicina e Salute presso l’Università degli Emirati Arabi Uniti (UAEU), hanno dimostrato come il miele di Manuka fosse attivo contro tre diversi tipi di cellule tumorali già a basse dosi (circa lo 0,6%) fermandone le crescita. Ma non solo, lo studio ha anche messo in evidenza come le proprietà del miele possedessero il potenziale di ridurre gli effetti tossici collaterali associati al trattamento con chemioterapia nei pazienti affetti da cancro. Lo studio si è soffermato in particolare sullo scoprire quali fossero le basi molecolari dell’attività anticancro del miele di Manuka. A motivo di ciò sono stati molti gli esperimenti che gli scienziati hanno condotto. Lo studio stesso è durato cinque anni. I risultati hanno però dato ragione ai ricercatori, i quali sottolineano come abbiano potuto dimostrare in modo inconfutabile che il miele agisce direttamente inducendo la morte cellulare programmata nelle cellule tumorali, detta apoptosi. L’apoptosi, spiegano i ricercatori, è un processo fisiologico naturale. Viene utilizzato dall’organismo al fine di bilanciare l’esigenza di generare nuove cellule con l’eliminazione delle cellule vecchie indesiderate. Si tratta di un processo delicato e soggetto a precise regole, altrimenti si rischia un disequilibrio.
«Se così non fosse – sottolinea Al Ramadi nella nota UAEU – un’eccessiva apoptosi provocherebbe l’atrofia dei tessuti, mentre un’insufficiente apoptosi porterebbe alla proliferazione incontrollata delle cellule, come avviene per esempio nel caso del cancro». Il miele di Manuka, fanno ancora notare i ricercatori, si comporta allo stesso modo di quanto avviene durante il processo fisiologico del corpo umano, messo in atto per mantenere un numero equilibrato di cellule, in particolare di cellule sane. I successi ottenuti non solo su cellule cancerose umane, ma anche di tumori animali, fanno ben sperare i ricercatori che vedono in questo numerose potenzialità nello sviluppo di nuovi trattamenti contro alcuni tipi di cancro. Coautori dello studio sono stati i dottori Maria J. Fernandez-Cabezudo, Rkia El-Kharrag, Fawaz Torab, Ghada Bashir, Junu A. George, Hakam El-Taji.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=PLoS+ONE+Basel+K.+Al+Ramadi

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3567021/

03-12-2014

C’è un collegamento tra il diabete, le pentole antiaderenti e altri prodotti. Collegamento favorito da un’esposizione a sostanze come i perfluorurati (PFC), utilizzati non solo nelle pentole antiaderenti ma anche in molti altri prodotti industriali e di uso comune come, per esempio, schiume antincendio, grasso e materiali idrorepellenti, materiali a contatto con alimenti, sciolina e tessuti in GoreTex. Ora, ad aver trovato questa correlazione sono stati i ricercatori della Divisione di Medicina del Lavoro e Ambientale presso l’Università di Uppsala, in Svezia, i quali hanno condotto uno studio su un gruppo di circa 1.000 persone di entrambi i sessi per misurare i livelli di 7 diversi tipi di perfluorurati nel sangue e valutare se questi fossero correlati al diabete, già presente in 114 delle persone partecipanti allo studio.
La prof.ssa Monica Lind e colleghi hanno scoperto che questi sette composti perfluorurati erano rilevabili in quasi tutti gli individui coinvolti nello studio. Le analisi specifiche condotte hanno poi permesso di scoprire che alti livelli nel sangue di uno di questi composti, l’acido perfluorononanoico (PFNA), erano collegati al diabete. I risultati finali dello studio, pubblicati sulla rivista Diabetologia, hanno tuttavia mostrato che non solo il PFNA era collegato al diabete, ma anche il noto PFOA (acido perfluoroottanoico) utilizzato nella produzione di pentole antiaderenti. Questo stesso composto è stato trovato essere correlato all’interruzione nella secrezione dell’insulina da parte del pancreas. Sono dunque ancora una volta sotto accusa questi composti chimici utilizzati nelle produzioni industriali che, come spesso accade, divengono poi parte dell’ambiente e dei prodotti che utilizziamo nella quotidianità. E il problema sta proprio qui: l’essere umano crea e produce per il proprio rendiconto sostanze che all’atto pratico attentano alla salute dell’ambiente e, di conseguenza, alla salute di tutti. Quand’è che impareremo la lezione?

 

http://www.uu.se/en/media/press-release-document/?id=2201&area=3,8&typ=pm&na&lang=en

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Circulating+levels+of+perfluoroalkyl+substances+and+prevalent+diabetes+in+the+elderly

Mercoledì, 03 Dicembre 2014 18:46

LA CURCUMINA PUO' COMBATTERE IL TUMORE IPOFISARIO.

03-12-2014

Probabilmente non c’è erba tradizionale asiatica che viene studiata più della curcumina, il principio attivo della spezia curcuma, nei moderni laboratori di medicina occidentale. Questo articolo si concentra su uno studio che ha indagato come la curcumina blocca la crescita del tumore dell’ipofisi, chiamato adenoma ipofisario. Questo tumore è considerato benigno, perché non vi è stata alcuna evidenza della sua diffusione al di là dell’ipofisi, ma questo non significa che non cresce e non causa problemi. I tumori ipofisari possono portare a problemi di visione. Poiché l’ipofisi è l’interruttore principale della tiroide, ghiandole surrenali e ghiandole sessuali, il tumore ipofisario può disturbare l’equilibrio ormonale e portare ad altre malattie gravi tra cui il cancro. Ad esempio, adenomi ipofisari promuovono la produzione di prolattina in eccesso, che causa problemi di ormoni sessuali prevalentemente nelle donne e un pò anche negli uomini. Un esame del sangue per verificare i livelli di prolattina è utilizzato per determinare l’attività del tumore ipofisario. Il farmaco sviluppato per inibire la crescita dell’adenoma ipofisario e l’eccesso di prolattina è la bromocriptina, che è tra la classe di agonisti dopaminergici che stimolano i recettori della dopamina che mancano. Il problema della bromocriptina è che spesso causa effetti collaterali gravi.
Nel 2008, il Medical College of Wisconsin a Milwaukee ha condotto uno studio sulle cellule di adenoma ipofisario nei ratti, usando solo la curcumina con dosi variabili e poi la curcumina in combinazione con basse dosi del farmaco bromocriptina. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Endocrinologia con la conclusione che "la curcumina inibisce la proliferazione delle cellule del tumore ipofisario, induce l’apoptosi [morte delle cellule tumorali] e diminuisce la produzione ed il rilascio di ormoni e quindi, proponiamo di sviluppare la curcumina come strumento terapeutico nella gestione di prolattinomi [tumori ipofisari]". Un avvertimento: La curcumina è un anticoagulante. Non utilizzare insieme agli anticoagulanti farmaceutici e smettere di usarla due settimane prima di un intervento chirurgico.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18450960

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2488238/

01-12-2014

L’analisi delle cellule batteriche uccise del miele manuka ha rivelato l’eccezionale proprietà antimicrobica di questo prodotto. Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Antimicrobial Agents e promosso dall’Università di Sydney, ha dimostrato che il miele manuka differisce da altri agenti antibatterici grazie ad un modo unico di intervenire e al suo potenziale valore come curativo antimicrobico.
Lo studio è stato coordinato da Dee Carter. Il miele speciale è prodotto dalle api che si nutrono dalla pianta di manuka della Nuova Zelanda (Leptospermum scoparium). Per comprendere quali composti antibatterici sono contenuti nel miele i ricercatori hanno testato la sua attività e quella di diversi mieli contro il batterio delle ferite Saphylococcus aureus. Estraendo successivamente le proteine delle cellule dello stafilococco è stato possibile determinare le reazioni del patogeno al trattamento al miele. I risultati hanno dimostrato che il miele manuka impone un significativo abbassamento dei tassi di crescita delle cellule batteriche rispetto ai mieli comuni.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22580031

Lunedì, 01 Dicembre 2014 18:43

IL CIBO SPAZZATURA FA MALE ANCHE ALLA MENTE.

01-12-2014

E’ noto che una donna in gravidanza debba essere ancora più attenta a ciò che mangia. Anche perché una cattiva alimentazione rischia già di condannare il nascituro a disfunzioni ormonali e di incidere sul suo carattere. A dirlo una ricerca condotta dall'Università di Melbourne, pubblicata sul Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry. Se la donna incinta mangia tanto cibo spazzatura e bibite dolci, tutti alimenti ricchi di grassi e zuccheri raffinati, e poche quantità di frutta e verdura, nel nascituro possono aumentare i rischi di sviluppare dei disturbi del comportamento, come aggressività e attacchi di rabbia. Questo tipo di alimentazione può influire anche sulla psiche, con stati di ansia e depressione. Senza contare i problemi fisici, come obesità e diabete. I ricercatori hanno condotto uno studio su 23.000 gestanti e i loro figli, che sono stati seguiti fino ai 5 anni. Se altri studi hanno già affermato che un’alimentazione errata rischia di generare figli condannati all’obesità, interessante è ora la dimostrazione dell’effetto che può avere sulla psiche dei bambini. Un motivo in più per mangiare sano, soprattutto frutta e verdura certificate biologiche.

 

http://www.jaacap.com/article/S0890-8567%2813%2900449-8/abstract

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24074470

01-12-2014

Una nuova sorprendente ricerca pubblicata dalla rivista Apoptosis, indica che il vaccino contro l'epatite B, che è stato progettato per prevenire l'epatite B virale al fegato, provoca in realtà la distruzione delle cellule del fegato. Nello studio i ricercatori hanno cercato di stabilire un sistema modello in vitro suscettibile di indagini meccanicistiche di citotossicità indotte dal vaccino anti-epatite B, e di studiare i meccanismi di morte cellulare indotta dal vaccino. E' stato scoperto che il vaccino contro l'epatite B ha indotto una "perdita di integrità mitocondriale, induzione di apoptosi, e la morte cellulare nelle cellule del fegato esposto ad una bassa dose di vaccino adiuvato. Come adiuvante era stato usato idrossido di alluminio, che è sempre più identificato come concausa di malattia autoimmune nelle popolazioni immunizzate. La scoperta che il vaccino contro l'epatite B provochi danni al fegato (epatotossicità) conferma i risultati precedenti (1999) che il vaccino aumenta l'incidenza di problemi al fegato nei bambini degli Stati Uniti con meno di 6 anni fino al 294% rispetto ai controlli su quelli non vaccinati. Un altro studio pubblicato sulla rivista Hepatogastroentology nel 2002, ha osservato che la vaccinazione contro l'epatite B è stata statisticamente associata a reazioni gastrointestinali tra cui: epatite, malattie gastrointestinali e alterazioni dei test di funzionalità epatica, in confronto ad altri gruppi di controllo. Questa, tuttavia, è solo la punta dell'iceberg...
In uno studio illuminante pubblicato nel giugno 2011 sulla rivista Molecular Biology Reports, i ricercatori hanno dimostrato che il vaccino per l'epatite B altera l'espressione di 144 geni nel fegato di topo entro 1 giorno dalla vaccinazione , di cui 7 sono correlati all'infiammazione e al metabolismo. Gli autori hanno notato: "Le aziende farmaceutiche di solito eseguono il test di sicurezza sui vaccini, ma tutti i requisiti richiesti dall'Organizzazione Mondiale della Sanità e le farmacopee ufficiali, dipendono dal test di tossicità generale, e quindi lo studio dell'espressione genica per testare la qualità del vaccino contro l'epatite B non viene eseguito di routine". Potrebbe l'alterazione del gene-espressione del vaccino per l'epatite B essere un motivo per cui ci sono oltre 60 gravi effetti nocivi per la salute associati al vaccino, come documentato nella rivista peer-reviewed e pubblicazioni di letteratura biomedica, compresa la morte improvvisa del lattante? Altri potenziali meccanismi d'azione collaterali pericolosi alla base degli effetti del vaccino dell'epatite B, sono i seguenti:

- I Vaccini per l'epatite B possono contenere polimerasi del virus dell'epatite B come contaminante, che può innescare un processo autoimmunitario contro la mielina (il rivestimento protettivo dei nervi) in alcuni soggetti vaccinati.

- Il Vaccino contro l'epatite B può indurre la malattia autoimmune demielinizzante attraverso il mimetismo molecolare che esiste tra l'antigene del vaccino, virus di Epstein-Barr virus e mielina umana.

Il vero pericolo è che la vaccinazione universale contro il virus dell'epatite B può causare più male che bene. Si tratta in realtà dei più piccoli - i bambini - che sono più a rischio di essere irreparabilmente danneggiati, in quanto il programma vaccinale del CDC richiede la vaccinazione contro l'epatite B alla nascita, 1-2 mesi, e poi di nuovo a 3-6 mesi di età. La vaccinazione universale per l'epatite B è stata raccomandata per i neonati negli Stati Uniti nel 1991, nonostante i risultati contrastanti di sicurezza. Forse non a caso, la prevalenza di autismo oggi è del 1500% superiore a quella che si verifica nel periodo immediatamente prima della loro introduzione. Non esiste alcuna cosa come un "epidemia genetica", nel senso tradizionale ereditabile della parola "genetica", mentre c'è una cosa come la modifica di un'espressione genica indotta dall'ambiente, come sopra descritto. In altre parole, gli adiuvanti dei vaccini (ad esempio mercurio e alluminio) e antigeni sono in grado di compromettere profondamente la stabilità dell'infrastruttura genetica da cui dipende la nostra salute.
In base ad una recensione pubblicata su una rivista di Salute e Tossicologia Ambientale nel 2010, nei neonati maschi vaccinati con il virus dell'epatite B prima del 1999, l'incidenza di autismo segnalata dai genitori, era di 3 volte più alta. Perché prima del 1999? Il 27/08/99 il CDC, riconoscendo la profonda neurotossicità associata all'uso di thimerosal (organomercurici), ha approvato il primo vaccino thimerosal-free contro l'epatite B. Purtroppo, anche dopo la rimozione del mercurio (che è stato sostituito da un altro agente neurotossico, idrossido di alluminio), la prevalenza di autismo è ancora di diversi punti più elevata di quanto non fosse prima del programma vaccinale sempre più schiacciante del CDC (60 e più vaccinazioni fino ai 6 anni) fino a raggiungere le proporzioni attuali. Un altro problema evidente con il vaccino per l'epatite B nei neonati è che il virus dell'epatite B viene trasmesso solo attraverso il sangue o liquido seminale da coloro che sono infettati, che sono due vie di esposizione a cui un bambino - non certo uno nato in un ospedale - dovrebbe mai essere esposto, a meno che, naturalmente, la madre non sia portatrice, e quindi trasmettere il virus alla sua prole. Ma gli ospedali possono e devono effettuare controlli preventivi sulle donne in gravidanza, rendendo quindi inutile vaccinare ogni bambino alla cieca. Inoltre, non esistono studi randomizzati e controllati che hanno valutato gli effetti del vaccino per l'epatite B durante la gravidanza per prevenire l'infezione infantile, nonostante il fatto che alle donne in gravidanza venga somministrato il vaccino proprio per questo motivo. Vi è anche una ricerca che indica che la vaccinazione per Epatite B non garantisce la protezione contro l'infezione, quindi non può rientrare nella categoria di un vaccino che possa prevenire la malattia.



http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Cochrane+Database+Syst+Rev.+2011+%283%29%3A+CD007879.+Epub+2011+Mar+16.+PMID%3A+21412913

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Postgrad+J.+Med+2006+Mar%3B+82+%28965%29+%3A207-10.+PMID%3A+16517803

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2563707/

01-12-2014

I cibi sani sono essenziali per un corpo sano, così come per mente e anima. Una pietanza di verdure nella vostra dieta può tenere a bada malattie mortali come il cancro: secondo un nuovo studio, infatti, i flavonoidi contenuti nelle verdure come sedano e carciofi aiutano a prevenire e anche curare il cancro al pancreas, facilitano infatti il processo di lisi delle cellule di cancro del pancreas. I ricercatori dell’Università di Illinois College of Agricultural, Consumer Environmental Sciences hanno scoperto che il sedano, i carciofi e le erbe aromatiche come l’origano, contengono flavonoidi come l’apigenina e la luteolina che sono utili nel trattamento del cancro del pancreas. L’apigenina negli alimenti è stata applicata alle cellule tumorali 24 ore prima di introdurre la gemcitabina (farmaco chemioterapico): la combinazione di pretrattamento seguita dalla chemioterapia ha ucciso due forme di cellule tumorali pancreatiche aggressive. La Dott.ssa Elvira De Mejia dell'University of Illinois, professore di chimica degli alimenti e tossicologia alimentare, in un comunicato stampa ha dichiarato: “L’apigenina da sola induce la morte cellulare in due linee di cellule tumorali aggressive umane pancreatiche e abbiamo ricevuto anche risultati migliori quando le cellule tumorali venivano pre-trattate con l’apigenina per 24 ore, poi seguita dal farmaco chemioterapico gemcitabina per altre 36 ore“.
Il Dott. Jodee Johnson, uno studente e dottorando nel laboratorio della Dott.ssa De Mejia, al momento dello studio spiega che il “trucco” è quello di esporre le cellule tumorali del pancreas a sedano, carciofi oppure origano, ricchi di flavonoidi, prima di utilizzare il farmaco chemioterapico. Poiché i farmaci chemioterapici inducono ossidazione per uccidere le cellule tumorali, Johnson sostiene che l’assunzione di antiossidanti nel giorno della chemioterapia potrebbe ostacolare il trattamento perché si trovano a competere tra loro. Il tasso di sopravvivenza a cinque anni per la malattia aggressiva è solo al 6%, il che rende importante trovare modi per estendere la percentuale di sopravvivenza, ha aggiunto Johnson. Il tumore al pancreas ha pochi sintomi fino a quando non raggiunge uno stadio avanzato. La scoperta migliore dell’apigenina è che distrugge il cancro senza dover esagerare con il trattamento di chemioterapia: la rivelazione dello studio conferma come la dieta sia importante per tenere a freno alcune malattie. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Molecular Nutrition and Food Research”.

 

http://fshn.illinois.edu/news/celery-artichokes-contain-flavonoids-kill-human-pancreatic-cancer-cells

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23943362

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