Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

28-09-2014

Una sostanza chimica presente nelle scatole di molti cibi sarebbe fra le principali cause dell'infertilità maschile, un fenomeno un crescita, rilevano gli studiosi dell'università del Michigan (Usa) sulla rivista "Reproductive Toxicology". Si tratta del bisfenolo A (BPA), utilizzato spesso dalle industrie per le confezioni alimentari e dunque facilmente rilevabile nelle scatole di vari cibi come anche nelle forchette di plastica o in altri oggetti di uso comune. Secondo i dati disponibili, nell'organismo del 90% della popolazione mondiale si possono rinvenire tracce di BPA. Gli studi scientifici su questa sostanza sono contraddittori: alcuni affermano che è sicura, altri che può provocare addirittura tumori e altre malattie. Per questo, alcuni Paesi l'hanno bandita dall'industria, come la Danimarca che ne ha vietato l'utilizzo per confezioni di cibi e bevande destinate ai bambini. Ora gli scienziati americani guidati da John Meeker si sono concentrati sullo studio degli effetti del BPA sugli adulti e non solo, dunque sull'esposizione alla sostanza in utero o durante l'infanzia. Sono stati reclutati 190 pazienti di alcune cliniche per l'infertilità e dalle analisi è emerso che gli uomini con i più alti livelli di bisfenolo A nel sangue hanno una concentrazione di spermatozoi del 23% inferiore rispetto ai pazienti con la minore presenza della sostanza. E, inoltre, in questi pazienti si rileva un aumento del 10% dei danni al DNA degli spermatozoi. I risultati andranno ora confermati su un campione più grande, ma suggeriscono una nuova via da esplorare per risolvere il problema dell'infertilità maschile.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20656017

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2993767/

28-09-2014

E' stata fatta un'amara scoperta sul conto dello zucchero: un cucchiaino dopo l'altro, lo zucchero potrebbe rubare preziosi anni di vita, e non solo perché ingrassa: infatti uno studio su animali da laboratorio dimostra che poco zucchero in più nella dieta accorcia la vita del 20%. Pubblicato sulla rivista Cell Metabolism, lo studio è stato diretto da Cynthia Kenyon dell'Università di San Francisco. Gli esperti hanno visto che aggiungendo solo un pò di glucosio alla normale dieta dei vermetti C. elegans, da anni usati per studi sulla longevità, la loro vita si "restringe". I vermetti condividono con noi una serie di geni legati alla longevità, e nel corso del tempo i ricercatori che in tutto il mondo sono impegnati in questo tipo di studi hanno scoperto che meccanismi biologici affini controllano la nostra e la loro longevità. Molti di questi meccanismi hanno, non a caso, qualcosa a che vedere con l'ormone insulina e con altre molecole legate al metabolismo del glucosio.
Per trovare i meccanismi e i geni coinvolti negli effetti "accorcia-vita" dello zucchero riscontrati nei vermetti, i ricercatori si sono concentrati proprio sui geni già noti per avere un ruolo sia nel metabolismo del glucosio, sia nella longevità. E' emerso che mettendo fuori uso tali geni, DAF-16 o HSF-1, l'effetto deleterio dello zucchero svanisce e i vermetti, anche se mangiano glucosio, vivono altrettanto a lungo dei vermetti cui non viene dato lo zucchero. E' dunque presumibile, dato che DAF-16 e HSF-1 sono coinvolti anche nella longevità dell'uomo, che anche per noi gli zuccheri in eccesso accorcino la vita, e non solo per gli effetti di obesità e diabete.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19883616

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2887095/

28-09-2014

Il "maitake", un particolare tipo di fungo molto popolare in Cina e Giappone, è in grado di ridurre del 75% la crescita delle cellule tumorali. È quanto sostiene uno studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di Urologia del New York Medical College (Stati Uniti) e pubblicato sul British Journal of Urology. Conosciuti da sempre per le loro proprietà antitumorali, per la capacità di stimolare le difese del sistema immunitario e per la cura delle malattie cardiache, i funghi - e in particolare questi funghi giganti in grado di crescere fino a 20 centimetri - secondo i ricercatori riducono non solo del 75% la crescita delle cellule tumorali nei malati di cancro alla prostata e alla vescica, ma sono in grado anche di abbassare di due terzi il rischio di sviluppare il cancro al seno. Miscelare un piccolo estratto del fungo con gli interferoni (proteine usate per rinforzare il sistema immunitario dei pazienti), spiegano gli studiosi, è la combinazione vincente capace di attivare un enzima che controlla la crescita delle cellule malate e di bloccare la diffusione del tumore. "Questa sinergia è molto significativa - afferma Sensuke Konn, responsabile del Dipartimento -. Grazie ai funghi non solo migliora l'efficacia del trattamento, ma migliora anche la qualità della vita dei pazienti perché si può ridurre la dose dei farmaci convenzionali in modo significativo". Altri studi hanno anche dimostrato che i funghi possono contribuire a ridurre il rischio di malattie cardiache: privi di grassi, zuccheri e sale, sono una preziosa fonte di fibre alimentari, nonché di cinque importanti vitamine del gruppo B, oltre che di potassio, rame, fosforo e ferro.

 

http://www.express.co.uk/news/uk/143210/Cancer-cure-Mushrooms-can-shrink-tumours

http://www.dailymail.co.uk/health/article-1231978/Mushroom-shrinks-cancer-tumours-75-cent.html

Domenica, 28 Settembre 2014 15:19

ANTIBIOTICI: UNA SERIA MINACCIA PER L'INTESTINO.

28-09-2014

Anche gli antibiotici ritenuti più “leggeri” e meglio tollerati sembrano pregiudicare l’equilibrio della flora batterica intestinale, con conseguenze potenzialmente serie per la salute. A dimostrarlo è una recente ricerca pubblicata sull’autorevole rivista medica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS). Nel loro studio condotto su tre pazienti di sesso femminile, i ricercatori della Stanford University in California hanno analizzato mediante analisi delle feci e test del dna la composizione della flora batterica intestinale delle pazienti prima e dopo una terapia antibiotica a base di ciprofloxacina portata avanti per un periodo di tempo di 10 giorni. “L’effetto della ciprofloxacina sulla flora batterica è stato rapido e profondo”, ha spiegato l’autore dello studio David Relman. Dalle conclusioni è emerso, infatti, che uno degli effetti della cura antibiotica era quello di sopprimere l’intera popolazione di batteri intestinali “buoni”, ovvero utili all’organismo. “A una settimana dal termine della terapia, la comunità batterica cominciava a tornare al suo stato iniziale, ma la sua ricostituzione era spesso incompleta”, ha spiegato Relman.
La parte distale del nostro intestino è ritenuto dagli scienziati “uno degli ecosistemi più complessi del pianeta”. Grazie alla relazione di simbiosi con la sua flora batterica intestinale, infatti, il nostro organismo è in grado di digerire molti cibi e sconfiggere batteri potenzialmente nocivi per la salute. Studi recenti hanno dimostrato, inoltre, come la flora batterica potrebbe giocare un ruolo cruciale nell’obesità, in alcune forme di allergia o nello sviluppo delle malattie infiammatorie intestinali. Cancellando l’intera popolazione di batteri intestinali, gli antibiotici potrebbero facilitare la diffusione di “superbatteri” resistenti ai trattamenti, spiegano i ricercatori. Ma ciò non significa dover rinunciare a una delle cure più efficaci contro le infezioni, quanto cercare di rispettare un’alimentazione corretta prima, durante e dopo una cura con antibiotici, in modo da salvaguardare anche la salute del proprio stomaco e dell’intestino.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20847294

28-09-2014

Con reale stupore e meraviglia, ho letto di un esperimento condotto nel lontano 2002 da Bruce Moseley e colleghi su un testo di scienza divulgativa di Bruce Lipton. Non soddisfatto delle poche informazioni lì presenti, ho chiesto ad un amico di passarmi l’articolo originale comparso sul “The New England Journal of Medicine” e, a questo punto, non posso che constatare l’incredibile conseguenza concettuale e metodologica che un esperimento del genere possa comportare. Si tratta della conduzione di un’operazione chirurgica a tutti gli effetti, di una cura molto blanda e di un’operazione placebo condotta su alcuni pazienti affetti da osteoartrite del ginocchio e dei loro incredibili effetti. Ma andiamo per ordine. L’osteoartrite è una forma di artrite caratterizzata dalla degenerazione della cartilagine articolare. I sintomi che causa a chi ne è affetto sono, naturalmente, infiammazione, rigidità articolare, dolore, ingrossamento dell’articolazione. Nell’esperimento qui preso in esame, lo studio è stato condotto su 180 pazienti con osteoartrite al ginocchio, divisi in tre gruppi. Al primo gruppo (59 pazienti), è stata fatta un’incisione e operata un’artroscopia, che consiste nel raschiamento e nell’abrasione della cartilagine danneggiata. Al secondo gruppo (altri 61 pazienti) è stato invece operato un lavaggio con 10 litri di una soluzione salina che, mediante l’irrigazione, dovrebbe rallentare la degenerazione della cartilagine stessa pur non avendo lo stesso impatto dell’artroscopia. Al terzo gruppo (60 pazienti) fu invece simulata la procedura dell’artroscopia, operata un’incisione di un centimetro sulla pelle e poi ricucita la parte senza in realtà aver utilizzato nè strumenti nè liquidi sul ginocchio stesso. In pratica, un’operazione placebo, fasulla. L’esperimento fu condotto in doppio cieco, ovvero in maniera tale che nè i pazienti nè gli sperimentatori sapessero “chi fosse sottoposto a cosa”, per evitare che sia le persone operate che i medici, con le loro aspettative o giudizi, potessero influenzare l’andamento dell’esperimento. I tre gruppi furono sottoposti, successivamente, allo stesso trattamento post-operatorio e alle medesime procedure riabilitative. I risultati, come accennato in apertura, sono stati sorprendenti: il gruppo che aveva subìto la finta operazione ebbe gli stessi miglioramenti degli altri due monitorati dopo il primo e il secondo anno. Il gruppo di persone che fu sottoposto alla reale operazione chirurgica ottenne gli stessi risultati del gruppo placebo, sia nella capacità di camminare che in quella di piegarsi. Un epilogo davvero incredibile.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Bruce+Moseley+The+New+England+Journal+of+Medicine

Domenica, 28 Settembre 2014 15:13

ANTIBIOTICO ENDOGENO SCOPERTO NEL CERVELLO.

28-09-2014

Gli scienziati dell’Università di Lussemburgo hanno scoperto che le cellule immunitarie del cervello possono produrre una sostanza che impedisce la crescita batterica: l’acido itaconico. Fino ad ora, i biologi avevano ipotizzato che solo alcuni funghi producono acido itaconico. Un team di lavoro con il Dr. Karsten Hiller, capo del gruppo Metabolomica presso LCSB, e il dottor Alessandro Michelucci, hanno ormai dimostrato che anche le cosiddette cellule microgliali in mammiferi, sono in grado di produrre questo acido. “Questo è un risultato molto innovativo”, spiega il Prof. Dr. Rudi Balling, direttore del LCSB: “E' la prima prova dell’esistenza di un antibiotico endogeno nel cervello”. I ricercatori hanno pubblicato i risultati della ricerca sulla rivista scientifica PNAS. Alessandro Michelucci è un biologo cellulare, con particolare attenzione alle neuroscienze. “Poco rimane sconosciuto circa le risposte immunitarie del cervello”, spiega Michelucci. “Tuttavia, poiché abbiamo il sospetto che ci sono connessioni tra il sistema immunitario e il morbo di Parkinson, vogliamo scoprire cosa succede nel cervello quando vi abbiamo innescato una risposta immunitaria”. A questo scopo, Michelucci ha portato colture cellulari di cellule microgliali, le cellule immunitarie nel cervello, in contatto con costituenti specifici di membrane batteriche. Le cellule microgliali hanno esibito una risposta e prodotto un cocktail di prodotti metabolici. Questo cocktail è stato successivamente analizzato dal gruppo di metabolomica di Karsten Hiller. Gli scienziati hanno scoperto che la produzione di una sostanza, in particolare – acido itaconico – era sovraregolata. ”La consapevolezza che le cellule di mammiferi sintetizzano acido itaconico, è arrivata come una grande sorpresa”. Tuttavia, non si sa ancora come le cellule di mammifero possono sintetizzare questo composto. Attraverso confronti di sequenza dell’enzima dei funghi con le sequenze di proteine umane, Karsten Hiller ha poi identificato un gene umano che codifica una proteina simile a quella in funghi: gene immunoresponsive 1, o IRG1, la cui funzione non era nota. Hiller dice: “Su IRG1, c’è molto territorio inesplorato. Quello che sapevamo è che sembra giocare un qualche ruolo nel grande quadro della risposta immunitaria, ma non sapevamo esattamente quale“. La squadra ha spento IRG1 in colture cellulari e aggiunto il gene a cellule che normalmente non lo esprimono. Gli esperimenti hanno confermato che nei mammiferi, IRG1 codifica per un enzima, producendo acido itaconico. Ma perché? Quando le cellule immuni come macrofagi e cellule microgliali occupano i batteri per inattivarli, gli intrusi sono effettivamente in grado di sopravvivere utilizzando un apposito percorso metabolico chiamato shunt gliossilato. Secondo Hiller “I macrofagi producono acido itaconico, nel tentativo di sventare questa strategia di sopravvivenza dei batteri”. La malattia di Parkinson è molto complessa e ha molte cause. Ora intendiamo studiare l’importanza di infezioni del sistema nervoso e se l’acido itaconico può giocare un ruolo nella diagnosi e nel trattamento del morbo di Parkinson” conclude il ricercatore.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Karsten+Hiller%2C+Alessandro+Michelucci+PNAS

28-09-2014

Gli ansiolitici e i medicinali contro l’insonnia potrebbero accrescere il rischio di mortalità fino al 36%. È questo lo scioccante dato emerso da una ricerca pubblicata sulla rivista Canadian Journal od Psychiatry e da prendere in considerazione, tuttavia, con le dovute cautele. Analizzando i dati di un ampio studio canadese durato 12 anni e condotto su un campione di 14 mila soggetti di età compresa tra i 18 e i 102 anni, intervistati dai ricercatori una volta ogni due anni, Geneviève Belleville, docente presso la Universitè Laval's School of Psychology canadese, ha verificato come il tasso di mortalità dei soggetti che assumevano ansiolitici o farmaci contro l’insonnia fosse pari al 15,7%, rispetto al 10,5% della mortalità di coloro che non assumevano questo tipo di medicinali. Mettendo in relazione il rischio di mortalità di ogni soggetto in base ad alcuni fattori chiave come il vizio del fumo, la dedizione all’alcol, il livello di attività fisica e la presenza di malattie depressive, Belleville ha stabilito che il consumo di medicinali per l’ansia o l’insonnia potrebbe incrementare il rischio di decesso fino al 36%. “Questi farmaci non sono caramelle e assumerli per molto tempo può essere dannoso”, ha commentato il ricercatore, secondo il quale il rischio di mortalità potrebbe essere ricollegato anche all’aumento delle cadute o incidenti provocati dalla mancanza di coordinazione legata all’uso di questi farmaci.
Tuttavia è opportuno osservare questo dato dalla giusta prospettiva. “Quando si compiono studi su un elevato numero di persone, bisognerebbe considerare tutte le variabili specifiche legate al rischio di mortalità, oltre all’uso del farmaco stesso”, spiega Cesario Bellantuono, Direttore della Clinica Psichiatrica presso gli Ospedali Riuniti di Ancona. “Le persone che fanno uso di ansiolitici e ipnotici, ad esempio, possono essere persone che contemporaneamente soffrono di altri disturbi come ansia, depressione, oppure malattie al cuore o al sistema respiratorio. È difficile, pertanto, stabilire a cosa sia dovuto l’incremento del rischio di mortalità evidenziato dallo studio”.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20840803

27-09-2014

Chiunque potrebbe essere a rischio psicosi. Un periodo particolarmente stressante, un evento traumatizzante – sempre in agguato – potrebbero far scattare la molla. Non a caso, infatti, lo stress è stato trovato far aumentare i livelli nel cervello del neurotrasmettitore glutammato. Un eccesso di questo elemento può quindi portare allo sviluppo di psicosi e schizofrenia. A suggerire una correlazione tra il glutammato e le malattie mentali è uno studio del Columbia University Medical Centre, pubblicato sulla rivista Neuron, che apre le porte all’utilizzo di questo parametro quale potenziale strumento diagnostico per identificare le persone a rischio di schizofrenia. Oltre alla diagnosi, questa scoperta potrà essere utile nel trattamento delle malattie mentali correlate agendo proprio sulla limitazione della produzione di glutammato e, allo stesso modo, attuare piani di prevenzione. «Gli studi sulla schizofrenia hanno dimostrato che l’ipermetabolismo e l’atrofia dell’ippocampo sono tra i cambiamenti più importanti nel cervello del paziente, ha spiegato nella nota CUMC il dottor Scott Small, professore di neurologia e principale autore dello studio. I risultati più recenti hanno suggerito che questi cambiamenti avvengono molto presto nella malattia, e possono indicare un processo del cervello che potrebbe essere rilevato anche prima dell’inizio della malattia stessa». Per determinare cosa succede al cervello e come i pazienti sviluppano la malattia, i ricercatori hanno utilizzato la tecnica di neuroimaging sia su modello animale che su pazienti umani. Nella prima fase dello studio, si sono concentrati su 25 giovani a rischio schizofrenia per scoprire che l’attività del glutammato aumentava nell’ippocampo – per cui ne conseguiva un aumento del metabolismo dell’ippocampo; poi l’ippocampo ha cominciato ad atrofizzarsi. Nella seconda fase dello studio, al fine di osservare se l’aumento del glutammato portava altre modifiche nell’ippocampo, i ricercatori si sono concentrati su un modello murino con schizofrenia. Quando i ricercatori hanno aumentato l’attività del glutammato nei topi, si è ripresentato lo stesso schema osservato nei pazienti umani: l’ippocampo è diventato ipermetabolico e, quando i livelli di glutammato sono aumentati più volte, l’ippocampo ha cominciato ad atrofizzarsi. Ecco dunque che, in linea teorica, questa disregolazione del glutammato e l’aumento del metabolismo potrebbero essere identificati attraverso le scansioni cerebrali di individui che sono sia a rischio che nella fase iniziale della malattia. Per tutti coloro che sono a rischio psicosi e schizofrenia, poter appurare il rilascio di glutammato nel cervello diviene pertanto una forma per prevenire l’insorgere della malattia. Con lo stesso metodo, poter controllare questo rilascio potrebbe proteggere l’ippocampo e prevenire o rallentare la progressione della psicosi. Secondo un esperto di fama mondiale nel campo della schizofrenia, il professor Jeffrey A. Lieberman, intervenire per tempo può impedire la manifestazione degli effetti debilitanti di una malattia mentale grave come la schizofrenia, che richiede un alto prezzo al genere umano.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23583108

27-09-2014

I farmaci bifosfonati orali per l’osteoporosi, che comprendono ad esempio Actonel, Boniva, e Fosamax, potrebbero essere associati a un rischio maggiore di circa due volte per cancro esofageo. Un nuovo studio ha dimostrato che gli utenti di lungo periodo dei farmaci aveva quasi un rischio doppio di sviluppare questo tumore raro ma mortale. Le preoccupazioni circa un legame tra bisfosfonati e cancro esofageo è giunto a conoscenza del pubblico un anno e mezzo fa, quando un rapporto della FDA citava 23 casi di cancro negli utenti  di Fosamax negli Stati Uniti, e altri 31 casi in Europa e Giappone.
WebMD afferma: “L’analisi ha incluso quasi 3.000 pazienti con cancro dell’esofago, 2.000 pazienti con cancro allo stomaco, e 10.600 pazienti con tumore del colon-retto diagnosticati tra il 1995 e il 2005. Ogni caso di cancro è stato confrontato con cinque persone senza cancro paragonabili per età e sesso“.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20813820

27-09-2014

Esistono rimedi naturali contro la vitiligine? Si, potrebbero essere la curcumina, presente nel curry e la capsaicina, presente nel peperoncino. Lo rivela uno studio effettuato dai gruppi di ricerca guidati da Torello Lotti, ordinario di dermatologia e venereologia, e da Niccolò Taddei, ordinario di biochimica, dell'Università di Firenze e pubblicato online sulla rivista scientifica internazionale Antioxidant and redox signaling. La vitiligine è quella fastidiosa malattia che colpisce la pelle, chiazzandola con macchie bianche, in Italia ne soffrono circa 1 milione di persone. I ricercatori hanno scoperto l'importanza di quei cheratinociti (le principali cellule della pelle) che sono localizzati al confine fra la parte non pigmentata e quella sana. In altre parole si può ipotizzare un coinvolgimento di queste cellule nello sviluppo e nella progressione della malattia.
La scomparsa delle cellule pigmentate, i melanociti (che producono, appunto, la melanina), nelle regioni cutanee colpite, sarebbe dunque una conseguenza di un'alterazione nei meccanismi di comunicazione tra melanociti e cheratinociti. E' proprio l'impiego di antiossidanti naturali come la curcumina e la capsaicina che si trovano rispettivamente nel curry e nel peperoncino che fronteggiano la malattia. Tutto ciò è emerso, in particolare, da un'indagine biochimica condotta su colture primarie di cheratinociti da Matteo Becatti e da Claudia Fiorillo, del dipartimento di scienze biochimiche. «I dati in nostro possesso - ha detto il dottor Taddei - ci inducono a iniziare al più presto la sperimentazione sull'uso di preparati topici, ovvero di una crema, contenenti sostanze antiossidanti per la cura della vitiligine».

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20085492

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