Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

Sabato, 11 Ottobre 2014 06:57

LA FERTILITA' SI RITROVA NEI LAMPONI.

11-10-2014

La chiave delle fertilità si potrebbe trovare in un dolce frutto di bosco, i lamponi. Secondo un nuovo studio infatti queste bacche contengono alti livelli di vitamina C, magnesio e fino a dieci volte gli antiossidanti che ritroviamo nel pomodoro. Tutti questi elementi sarebbero essenziali per la fertilità e la gravidanza. Secondo i ricercatori del US Department of Energy’s Lawrence Berkeley National Laboratory, per esempio, il magnesio favorisce la produzione dell’ormone sessuale maschile testosterone e gli antiossidanti proteggono la salute degli spermatozoi. Nei partecipanti allo studio di età superiore ai 44 anni, si è anche scoperto che una maggiore assunzione di vitamina C riduceva del 20% i danni al Dna degli spermatozoi. La vitamina C contenuta in una porzione di lamponi, secondo la ricerca, equivale a quella che si otterrebbe mangiando 173 acini d’uva. Per quel che riguarda le donne, gli antiossidanti dei lamponi proteggerebbero dal rischio di aborto spontaneo, quando si sia già concepito. Altra sostanza fondamentale contenuta nei lamponi è l’acido folico che è un elemento importante per la fertilità femminile e per la salute dell’embrione. I lamponi, poi, sembra siano amici della linea aiutando anche a mantenere un giusto peso corporeo grazie al loro alto contenuto di fibre che, tra l’altro, favorisce il senso di sazietà con poche calorie. Sempre secondo gli autori dello studio, mantenere il giusto peso è importante per il corretto bilanciamento degli ormoni sessuali, che aumenta la probabilità di concepire. Ma i lamponi sono anche una bacca ideale per chi ha problemi di glicemia, dato che hanno il più basso Indice Glicemico (IG) di qualsiasi altro frutto: in questo modo lo zucchero viene assorbito lentamente dal corpo. Insomma, i lamponi potrebbero essere definiti il "vero" frutto dell'amore, visto che con essi si può soddisfare la voglia di dolcezza…e di bambini.

 

http://www.dailymail.co.uk/health/article-2401803/Fertility-How-eating-raspberries-increase-chances-father.html

http://naturalsociety.com/antioxidants-vitamin-c-help-conceive/

Sabato, 11 Ottobre 2014 06:54

E' UFFICIALE: LO STRESS DIFFONDE IL CANCRO.

11-10-2014

Potrebbe essere un gene chiamato ATF3 il collegamento tra stress e cancro. E a suggerirlo è un nuovo studio a cura dei ricercatori della Ohio State University. Che potesse esserci una correlazione tra stress e cancro lo avevano già supposto da tempo gli scienziati che si occupano di questo problema, tuttavia nessuno era stato in grado di individuare un nesso reale tra i due. Oggi, gli scienziati statunitensi hanno fatto un passo avanti trovando nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo, la diffusione delle metastasi e la causa di morte per cancro. Il gene ATF3 è già noto ai ricercatori per essere attivato o espresso in tutti i tipi di cellule in risposta a condizioni di stress. In circostanze normali, l’attivazione dell’ATF3 può originare la morte (apoptosi) di cellule normali e benigne in presenza di fattori di stress – per esempio l’irraggiamento e la mancanza di ossigeno – se l’organismo ritiene che questi possano aver irrimediabilmente danneggiato le cellule. Però, in questo caso avviene che le cellule del sistema immunitario agiscano in modo irregolare fornendo vie di fuga per il tumore che si può così diffondere in altre parti del corpo.
«E’ un pò come quello che disse Pogo: “Abbiamo incontrato il nemico, e questo siamo noi” – spiega Tsonwin Hai, professore di biochimica molecolare e cellulare presso la Ohio State University e autore senior dello studio – Se il tuo corpo non aiuta le cellule tumorali, queste non possono diffondersi. Quindi, in realtà, il resto delle cellule nel corpo aiutano le cellule tumorali a muoversi, ad aprire bottega in siti distanti. E uno dei temi comuni qui è proprio lo stress». Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Clinical Investigation e mostra come il prof. Hai e colleghi hanno collegato l’espressione del gene ATF3 nelle cellule del sistema immunitario ai peggiori risultati tra un campione di quasi 300 pazienti con cancro al seno. Hanno poi proseguito con studi su modello animale e hanno scoperto che nei topi privi del gene ATF3 le metastasi del cancro non si erano estese fino ai polmoni, cosa che invece avveniva nei topi normali che potevano attivare l’ATF3. Secondo i ricercatori, questo gene dello stress potrebbe un giorno divenire l’obiettivo di un farmaco per combattere le metastasi del cancro, se ulteriori studi confermeranno questi risultati. «Le cellule tumorali erano sempre le stesse – sottolinea Hai – ma abbiamo avuto diversi ospiti. I tumori primari erano simili in termini di dimensioni, ma solo nell’ospite in grado di esprimere l’ATF3 (il gene dello stress) le cellule del cancro hanno metastatizzano in modo efficiente. Questo suggerisce che la risposta allo stress da parte dell’ospite può aiutare il cancro a metastatizzare». «Se il corpo è in perfetto equilibrio, non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, questo cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio», conclude Hai.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Journal+of+Clinical+Investigation+Tsonwin+Hai

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3696548/

10-10-2014

Che il cancro sia una malattia provocata dall’inquinamento e dalle sofisticazioni del cibo, non è più solo un sospetto. Una ricerca dimostra che tumori distinti, carcinomi e lesioni cancerose erano casi rarissimi fino alla Rivoluzione Industriale. “Nelle società industrializzate, il cancro è la seconda causa di morte dopo le malattie cardiovascolari. Ma nell’antichità, era estremamente raro” dichiarano gli egittologi e biomedici Michael Zimmerman e Rosalie David dell’Università di Manchester, al termine di una indagine che è risalita dalle mummie egizie fino alle soglie dell’epoca moderna. “In una società antica che non conosceva gli interventi chirurgici, le prove di un cancro dovrebbero conservarsi in tutti i casi” dichiara il professor Zimmerman. E invece, le mummie egizie analizzate assieme alla sua collega David non hanno rivelato alcuna traccia di tumori. “L’assenza virtuale di tumori maligni nelle mummie” afferma Zimmerman “indica la loro rarità nel mondo antico, dimostrando che i fattori che provocano il cancro sono limitati alle società affette dall’industrializzazione moderna”. Zimmerman e David hanno proseguito le loro ricerche analizzando la letteratura medica antica e medioevale e altri resti fossili, ma i risultati sono stati molto modesti. Anche tra i greci, che furono i primi a descrivere malattie oggi identificabili come cancerose, i casi erano rarissimi. Solo verso la metà del Seicento i testi medici cominciarono a definire la malattia che sarebbe diventata di lì a breve prevalente. “Non c’è nulla nell’ambiente naturale che possa provocare il cancro”, conclude la dottoressa David, ma sono le condizioni innaturali create dall’uomo ad aver alimentato questa malattia. C’è di che riflettere.

 

http://www.manchester.ac.uk/discover/news/article/?id=6243

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20814420

http://www.nature.com/nrc/journal/v10/n10/full/nrc2914.html

10-10-2014

A differenza di precedenti studi che suggerivano come il rame potesse essere un elemento utile per il cervello, una nuova ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) suggerisce invece che l’assorbimento quotidiano di particelle di rame possa far insorgere l’Alzheimer. A mettere in dubbio l’utilità per il cervello di questo metallo sono i risultati ottenuti dal dottor Rashid Deane e colleghi dell’Università di Rochester Medical Center (URMC), Dipartimento di neurochirurgia, che mostrano come il rame possa accumularsi nel cervello e distruggere la barriera ematoencefalica – la barriera protettiva del cervello – con un conseguente accumulo della nota proteina tossica beta amiloide, che il cervello non riesce più a eliminare. Lo studio, condotto su modello animale e su cellule cerebrali umane, ha permesso di osservare gli effetti del rame sul cervello di un gruppo di topi che sono stati alimentati con acqua contenente questo elemento. L’acqua è una delle più comuni fonti di assunzione di rame per via dell’uso di tubi prodotti con questo metallo: lo scorrere dell’acqua all’interno porta con sé particelle del metallo che vengono poi assorbite dall’organismo bevendo l’acqua. Altre fonti di rame sono i cibi come frutta, verdura e carne rossa, e anche l’ambiente stesso. Dopo aver fatto bere l’acqua per tre mesi, i ricercatori hanno scoperto che il rame si era diffuso attraverso il sangue e si era accumulato nei vasi che alimentano il cervello. Non solo: i ricercatori hanno scoperto che il rame aveva interrotto la funzione di LRP1, attraverso un processo di ossidazione. Questo processo, a sua volta, inibisce la rimozione delle placche beta amiloide dal cervello. Il fenomeno è stato osservato sia nelle cellule dei topi che in quelle del cervello umano. «E’ chiaro che, nel tempo, l’effetto cumulativo del rame è quello di mettere in pericolo i sistemi con cui la placca beta amiloide viene rimossa dal cervello», conclude Rashid Deane.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23959870

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3767519/

10-10-2014

La formazione e la possibile rottura dell’aneurisma dell’aorta addominale è spesso causa di morte – che avviene a causa dell’emorragia interna conseguente. La presenza di questa condizione si accerta per mezzo dell’ecografia, e una volta accertata è bene seguire alcune regole di vita per evitare una improvvisa rottura; tuttavia la soluzione migliore resta sempre la prevenzione. E per prevenire la formazione dell’aneurisma basterebbe assumere molta frutta. Questo quanto suggerisce un nuovo studio pubblicato su Circulation e condotto dai ricercatori svedesi del Karolinska Institutet di Stoccolma, i quali hanno analizzato i dati relativi a oltre 80mila persone di età compresa tra i 46 e gli 84 anni, che sono stati seguiti per 13 anni.
Durante il periodo di follow-up si sono verificati 1.100 casi di aneurisma dell’aorta addominale, con 222 casi di rottura. L’analisi condotta dal dottor Otto Stackelberg e colleghi ha permesso di rilevare che chi comprendeva buone quantità di frutta nella propria dieta aveva un significativo ridotto rischio di aneurisma addominale e rottura. Nella fattispecie, chi mangiava più di due porzioni di frutta fresca al giorno (esclusi i succhi di frutta) presentava un rischio di formazione dell’aneurisma ridotto del 25% e un rischio di rottura ridotto del 43%, rispetto a coloro che assumevano meno di una porzione di frutta al giorno. Rispetto invece a coloro che non assumevano alcuna porzione di frutta al giorno il rischio – per coloro che ne mangiavano due – scendeva del 31% nella formazione e del 39% per la rottura. «Un elevato consumo di frutta può aiutare a prevenire molte malattie vascolari – spiega il dottor Stackelberg nel comunicato KI – e il nostro studio suggerisce che un più basso rischio di aneurisma dell’aorta addominale è tra questi benefici».
L’effetto protettivo nei confronti del rischio aneurisma, secondo i ricercatori, sarebbe offerto dall’azione antinfiammatoria offerta dagli antiossidanti contenuti nella frutta. Ma, tra i vegetali, pare sia solo la frutta a offrire questi vantaggi: le verdure, che contengono anch’esse molti antiossidanti, mancherebbero tuttavia di quella specifica qualità che offre questa protezione, per cui dallo studio non è emerso alcun vantaggio nella riduzione del rischio per questo tipo di condizione. «Le verdure rimangono importanti per la salute – specifica tuttavia Stackelberg – Altri studi hanno scoperto che mangiare più frutta e verdura può ridurre il rischio di malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, ipertensione e alcuni tipi di cancro». Sebbene lo studio non abbia dimostrato una relazione di causa/effetto, i ricercatori suggeriscono di portare più frutta nella propria dieta, poiché comunque non può che apportare benefici alla salute.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23960255

10-10-2014

La cosiddetta “T4” è il principale ormone prodotto dalle cellule tiroidee della ghiandola tiroide. Chiamata L-tiroxina o tetraiodo-L-tironina, insieme agli altri ormoni tiroidei come il T3 presiede al buon funzionamento del metabolismo – ma non solo. Come per tutta la vita, anche in gravidanza la corretta funzione della tiroide e della relativa secrezione degli ormoni è fondamentale per il benessere della persona. Ma in questo specifico caso pare lo sia anche per la salute del nascituro. Le donne che mostrano infatti una debolezza tiroidea in gravidanza avrebbero quasi 4 volte maggiori probabilità di dare alla luce un bambino con disturbo dello spettro autistico. A sostenerlo è un nuovo studio pubblicato sul The Annals of Neurology e condotto dai ricercatori del Nantz National Alzheimer Center. Il team è stato coordinato dal prof. Gustavo Roman, il quale ritiene come sia sempre più evidente che l’autismo nella maggior parte dei casi sia causato da fattori ambientali, e non dalla genetica. Questo collegamento, tra una ridotta presenza di T4 e l’autismo, è emerso dopo l’attenta analisi dei dati relativi a più di 4.000 madri olandesi e dei loro figli. L’analisi ha permesso ai ricercatori di ritenere che sempre più i disturbi dello spettro autistico possono essere causati da una carenza di ormoni tiroidei materni. Questo tipo di ormoni è stato dimostrato già da precedenti studi avere una fondamentale importanza per la migrazione delle cellule del cervello del feto durante lo sviluppo embrionale. I ricercatori hanno altresì scoperto che più vi era carenza di T4 nella madre, più i bambini mostravano pronunciati sintomi di autismo. Tuttavia, una leggera o media carenza non produceva sintomi significativi nei bambini.
Secondo gli esperti, la possibile causa del deficit ormonale è una carenza di iodio nella dieta, poiché sia l’ormone T4 che T3 contengono tale elemento. Normalizzare la presenza di iodio dovrebbe pertanto promuovere una maggiore efficienza della tiroide e una produzione adeguata di ormoni. Per individuare il nesso tra una carenza di T4 e l’autismo, i ricercatori hanno prelevato dei campioni di sangue intorno alla tredicesima settimana di gravidanza. A 6 anni dalla nascita del bambino, alle madri partecipanti allo studio è stato chiesto di descrivere le caratteristiche comportamentali ed emozionali dei loro bambini, utilizzando protocollo di psicologia standardizzato. A seguito di ciò, i ricercatori hanno identificato 80 potenziali bambini autistici. Delle partecipanti, 159 madri sono state identificate come gravemente carenti in T4 e 136 sono state identificate come leggermente carenti. Rispetto alle donne con una normale presenza di ormoni tiroidei, le madri con grave carenza di T4 avevano una media di 3,89 maggiori probabilità di avere un bambino autistico. Il consiglio è dunque quello di tenere sott’occhio l’attività ormonale tiroidea durante la gravidanza.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23943579

10-10-2014

I benefici dell’allattamento al seno: dopo la recente notizia che protegge le donne dal rischio di Alzheimer, ecco che allattare pare protegga anche dal rischio di cancro al seno – specie se non si ha il vizio del fumo. Il dottor Emilio Gonzalez-Jimenez e colleghi dell’Università di Granada in Spagna hanno condotto uno studio su 504 pazienti donne affette da carcinoma mammario e di età compresa tra i 19 e i 91 anni. Di tutte le pazienti sono state analizzate le cartelle cliniche e i ricercatori hanno esaminato i dati relativi ai possibili fattori di rischio, tra cui l’età in cui hanno ricevuto la diagnosi di cancro, la storia famigliare di cancro, l’obesità, il vizio del fumo e l’abuso di alcol, per quanto tempo hanno allattato al seno o meno, e altri fattori circa lo stile di vita seguito. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Clinical Nursing, e mostrano che alle donne che avevano partorito e che avevano allattato al seno le era stato diagnosticato il cancro al seno in età più avanzata, a prescindere dalla storia famigliare di casi di cancro. In più, le non-fumatrici che hanno allattato per periodi di più di 6 mesi tendevano a essere oggetto di diagnosi di cancro al seno molto più tardi nella vita, con una media di 10 anni più tardi rispetto a coloro che avevano allattato per un periodo più breve – anche se non fumatrici. Per contro, le donne che fumavano sono state oggetto di diagnosi di cancro al seno in età più giovane e non hanno ottenuto alcun beneficio significativo anche se sono state allattate al seno per un lungo periodo. Ecco dunque ancora una volta come allattare al seno sia una scelta vincente; questo studio, tra gli altri, dimostra come il fumo possa interferire e rovinare anche i possibili benefici che derivano da pratiche salutari come l’allattamento al seno.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23937211

08-10-2014

Insomma, il caffè fa bene o fa male? Diciamo che le prove a favore della sua azione benefica sono molte e tutte supportate da evidenze scientifiche, per cui in linea di massima si potrebbe affermare che fa bene. Tuttavia, come per tutto ciò che assumiamo, è la quantità che può fare la differenza. Per fare un esempio, anche la semplice acqua fa bene, se però ne beviamo oltre misura può far male. Detto ciò, quello che hanno scoperto i ricercatori dell’Università della Carolina del Sud, coordinati dal dottor Steven Blair, è che nelle persone con un’età inferiore ai 55 anni che bevevano circa 28 tazze di caffè a settimana, aumentava del 56% il rischio di morte prematura per tutte le cause – il che significa per tutta una serie di diversi fattori, o malattie.
Lo studio, apparso sulla rivista Mayo Clinic Proceedings, ha analizzato i dati clinici relativi a oltre 40mila persone che avevano compilato questionari personali o da parte di medici. I partecipanti avevano un’età compresa tra i 20 e gli 87 anni, e l’analisi ha coperto gli anni tra il 1979 e il 1998. Durante il periodo di follow-up, oltre 2.500 partecipanti sono deceduti. I risultati finali mostrano che coloro che bevevano gradi quantità di caffè erano più a rischio comportamenti poco salutari come il vizio del fumo, e mostravano anche di avere sia polmoni che cuore meno sani. L’impatto negativo sulla salute ce l’avevano le persone più giovani, anche con consumi di caffè più bassi, tuttavia questo effetto diveniva significativo solo quando le quantità aumentavano fino a circa 28 tazze a settimana. Qui, l’effetto sulla mortalità arrivava a far aumentare il rischio del 56%.
Le donne sotto i 55 anni pare se la vedessero peggio di tutti, con un rischio doppio di morte per tutte le cause, rispetto alle non bevitrici di caffè. «L’esatto meccanismo tra caffè e mortalità deve ancora essere chiarito – spiega Xuemei Sui, coautore dello studio – Il caffè è ricco di caffeina, che ha il potenziale di stimolare il rilascio di adrenalina, inibire l’attività dell’insulina, e aumentare la pressione del sangue. Il comportamento relativo al pesante consumo di caffè potrebbe aggiungersi agli effetti di altri comportamenti non salutari, come dormire fino a tardi, e seguire una dieta povera». E’ dunque chiaro che uno stile di vita poco sano, come la sedentarietà, una dieta scorretta e vizi come il fumo possano far aumentare il rischio, andando a sommarsi agli effetti di un abuso di altre sostanze. Se il caffè possa pertanto divenire un potenziale rischio dipende probabilmente proprio dalla quantità che se ne assume – come detto all’inizio – e anche e soprattutto dallo stile generale di vita che seguiamo, in tutto e per tutto.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23953850

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3835155/

08-10-2014

Ancora buone notizie per i golosi del bruno nettare: il cioccolato o, meglio, il suo componente principale, il cacao. Secondo un nuovo studio pubblicato sulla versione online della rivista scientifica Neurology, gustarsi fino a due tazze di cioccolata al giorno aiuta a mantenere sano e giovane il cervello, ma soprattutto attivo. Lo studio, condotto dai ricercatori statunitensi della Harvard Medical School di Boston, ha coinvolto 60 adulti con un’età media di 73 anni – in genere la fascia in cui si manifestano maggiormente i segni del declino cognitivo legato all’età. Tutti i partecipanti non avevano ricevuto al basale diagnosi di demenza, tuttavia 17 di questi presentavano un insufficiente afflusso di sangue al cervello. Durante il periodo di follow-up, i volontari hanno bevuto due tazze di cacao caldo al giorno, per 30 giorni. Durante questo periodo non hanno consumato cioccolato in altre forme. Dopo di che sono stati avviati a una serie di test per misurare la memoria, la capacità di pensiero e le performance cognitive. La quantità di afflusso di sangue al cervello veniva contemporaneamente misurata per mezzo di ultrasuoni. Le analisi condotte durante lo studio hanno mostrato che nelle persone con insufficiente afflusso di sangue al cervello, constatato all’inizio di questo, avevano ottenuto un miglioramento nel flusso dell’8,3%, rispetto a coloro che presentavano un afflusso nella norma. Queste stesse persone che avevano una compromissione dell’afflusso di sangue hanno anche mostrato miglioramenti nei test di memoria di lavoro: i tempi di risposta erano passati dai 167 secondi dell’inizio dello studio a 116 alla fine. Da notare che i partecipanti con scarso afflusso di sangue al cervello presentavano anche danni in alcune aree cerebrali, rilevate per mezzo di risonanza magnetica. Per osservarne meglio gli effetti, la metà dei partecipanti allo studio ha assunto cioccolata calda ricca di flavanoli – le sostanze antiossidanti – mentre l’altra metà cioccolata povera in flavanoli: non ci sono state tuttavia differenze tra i due gruppi nei risultati. Questo risultato, secondo i ricercatori, potrebbe essere spiegato con l’intervento di un altro componente attivo nel cacao che sortiva un altro effetto benefico o perché bastano piccole quantità di flavanoli per ottenere questo stesso benefico effetto. «Stiamo imparando di più sul flusso di sangue nel cervello e il suo effetto sulla capacità di pensiero – ha spiegato il dottor Farzaneh Sorond, neurologo e principale autore dello studio – Come le diverse aree del cervello hanno bisogno di più energia per completare i loro compiti, hanno anche bisogno di maggiore flusso di sangue. Questa relazione, denominata accoppiamento neurovascolare, può svolgere un ruolo importante nelle malattie come il morbo di Alzheimer». Insomma, gustarsi cioccolato può essere non soltanto un piacere, ma anche un modo per fare il pieno di carburante per il cervello.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23925758

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3885215/

08-10-2014

Soffrire di artrite, già di per sé non è una bella cosa, se poi si scopre che si è anche a rischio di trombosi venosa profonda, con la formazione di coaguli potenzialmente fatali, ecco che le cose si complicano non di poco. Uno studio condotto dai ricercatori della China Medical University e pubblicato sull’Annals of the Rheumatic Diseases è partito dalla constatazione che tra l’11% e il 30% delle persone che sviluppano la trombosi venosa profonda (TVP) o un coagulo di sangue nelle gambe o nei polmoni (noto come embolia polmonare) muoiono entro 30 giorni dalla diagnosi. Detto ciò, hanno seguito quasi 24 milioni di residenti a Taiwan, tra il 1998 e il 2010, al fine di scoprire se vi fosse un collegamento tra l’artrite reumatoide e i coaguli di sangue potenzialmente fatali.
Durante il periodo di follow-up, 29.238 persone hanno sviluppato l’artrite reumatoide. I dati clinici sono poi stati inseriti nel registro nazionale del National Health Insurance Database (NHIRD). A titolo di confronto, quale gruppo di controllo, questi casi sono stati abbinati con quasi 117mila persone sane della stessa età e sesso. I dati raccolti dal dottor Wei-Sheng Chung e colleghi hanno mostrato che i pazienti con artrite reumatoide avevano maggiori probabilità di avere altre condizioni di base come ipertensione, diabete, colesterolo alto, insufficienza cardiaca e fratture, rispetto a quelli nel gruppo di confronto. Tuttavia, anche dopo aver tenuto conto di questi influenti fattori di rischio, così come l’età dei pazienti, quelli con l’artrite reumatoide avevano ancora significative maggiori probabilità di sviluppare coaguli di sangue potenzialmente fatali. In linea generale, i risultati suggeriscono che chi soffriva di artrite reumatoide aveva da 3 a 6 volte maggiori probabilità di sviluppare una trombosi venosa profonda e 2 volte più probabilità di sviluppare un’embolia polmonare, rispetto a quelli senza la condizione. La condizione, poi, era maggiormente influente nella fascia di età sotto i 50 anni, piuttosto che in quella dai 51 ai 65 o oltre. Lo studio, scrivono gli autori, «dimostra che il rischio di trombosi venosa profonda ed embolia polmonare è significativamente aumentato nei pazienti con artrite reumatoide rispetto a quelli della popolazione generale [senza la condizione]».

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Wei-Sheng+Chung%20Annals%20of%20the%20Rheumatic%20Diseases

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