Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

03-10-2014

C’è un virus piuttosto comune e diffuso chiamato citomegalovirus (CMV) che pare possa contribuire allo sviluppo della devastante malattia di Alzheimer. Questo è quanto hanno scoperto i ricercatori statunitensi del Rush University Alzheimer’s Disease Center di Chicago, i quali hanno condotto uno studio scoprendo che vi era un’associazione tra le risposte immunitarie dei pazienti con CMV e i segni della malattia di Alzheimer. Lo studio, che tuttavia non ha trovato un legame di causa/effetto tra l’infezione da CMV e l’Alzheimer, e necessita di ulteriori approfondimenti, ha comunque suggerito che situazioni infiammatorie per il cervello provocate dall’infezione possano portate a modifiche cerebrali, come quella osservata nella ricerca. Queste modifiche sarebbero alla base del risultante declino cognitivo e la sua evoluzione nella malattia di Alzheimer. Poiché, come detto, il legame causa/effetto per questo specifico virus non è stato trovato, i ricercatori ipotizzano che anche altri virus potrebbero potenzialmente avere lo stesso impatto sul cervello. Se dunque la possibilità di essere stati contagiati dal virus CMV è un fattore di rischio per l’Alzheimer, il problema diviene serio dato che sono moltissime le persone che lo contraggono. Il citomegalovirus si trasmette per mezzo dei fluidi corporei, compresi i rapporti sessuali.
In questo studio, pubblicato sul The Journal of Infectious Diseases, la dottoressa Julie Schneider e colleghi hanno analizzato campioni di sangue e liquido cerebrospinale provenienti da persone che avevano fatto parte di uno studio – Aging-and-dementia study – durante la propria vita. Tutti i pazienti, al momento dello studio, erano deceduti ed erano stati affetti dalla malattia di Alzheimer o era probabile che ne fossero affetti. Le analisi hanno mostrato che in 37 dei pazienti erano presenti gli anticorpi contro il CMV, mentre 22 non li avevano. Dei pazienti con gli anticorpi, l’80% presentavano alti livelli di un noto bio-marcatore (o marker) dell’infiammazione nel liquido cerebrospinale. Al contrario, coloro che non avevano gli anticorpi contro il virus non presentavano questo marcatore. Secondo Nell Lurain, professore di immunologia presso la Rush University e coautore dello studio, tale netta differenza sostiene l’idea che il CMV può causare specificamente un’infiammazione legata al morbo di Alzheimer.
I pazienti con più alti livelli di anticorpi contro il CMV sono stati anche trovati avere un maggior numero di cellule cerebrali con le proteine tau aggregate, chiamati grovigli neurofibrillari, che sono stati collegati alla malattia di Alzheimer. Come accennato, sono in molti ad avere nel proprio organismo il virus CMV, senza che neanche lo sappiano. Infatti, i sintomi dell’infezione spesso si manifestano soltanto nelle persone con un sistema immunitario indebolito. Il virus, che può infettare il cervello e il midollo spinale, ha dimostrato di aumentare l’infiammazione cerebrale. Ed è proprio questa infiammazione che si ritiene possa contribuire allo sviluppo dell’Alzheimer, e forse anche altre malattie che causano la degenerazione delle cellule nervose, o neurodegenerative.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23661800

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3719902/

03-10-2014

Numerosi studi epidemiologici hanno dimostrato che una dieta ricca di sale è associata ad un aumentato rischio di cancro gastrico. L. Timothy Cover e colleghi della Vanderbilt University hanno dimostrato che troppo sale nella dieta, in combinazione con infezione da ulcera causata da batterio Helicobacter pylori, aumenta notevolmente il rischio di cancro. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Infection and Immunity. Nello studio, i ricercatori hanno infettato gerbilli della Mongolia, una sottofamiglia di roditori, con H. pylori. Un gruppo di gerbilli ha ricevuto una dieta normale, l’altro, una dieta ricca di sale. Alla fine dell’esperimento i ricercatori hanno analizzato i tessuti dello stomaco degli animali. Tutti gli animali del gruppo che ha consumato una dieta ricca di sale, hanno sviluppato un cancro, rispetto al 58% del gruppo che ha consumato una dieta regolare. Sembra che per lo sviluppo del cancro gastrico sia richiesta la presenza di una particolare oncoproteina batterica, nota come CagA, che è prodotta dall’H. pylori.
Il cancro gastrico non si è sviluppato negli animali con la dieta ricca di sale che sono stati infettati con un mutante H. pylori che non producono CagA. In studi precedenti, Cover e altri avevano dimostrato che la coltura di H.pylori in un ambiente ad alto sale aumenta la produzione di CagA. ”Questa è stata una delle forze trainanti che ci hanno spinto ad intraprendere gli studi in corso”, spiega Cover. I ricercatori fanno notare che, mentre non esistono studi che hanno esaminato le relazioni tra una dieta ricca di sale e l’infezione con H. pylori che esprime cagA, ”in varie parti del mondo che hanno alti tassi di cancro gastrico, vi è un’alta prevalenza di CagA + ceppi e una gran parte della popolazione consuma una dieta ricca di sale”. I ricercatori hanno anche rilevato livelli significativamente più elevati di infiammazione gastrica nei gerbilli con H. pylori che hanno consumato una dieta ricca di sale, rispetto a quelli che hanno consumato una dieta regolare e questa condizione è rilevante per molti tipi di cancro. Essi hanno inoltre dimostrato che la trascrizione di varie citochine infiammatorie, come l’interleuchina 1-beta, sono elevate nel primo gruppo rispetto al secondo, suggerendo che questi fattori possono contribuire all’aumento di infiammazione e rischio aumentato di cancro gastrico se accompagnati ad una dieta ricca di sale “conclude Cover. Almeno il 50 per cento degli esseri umani sono infettati con H. pylori, almeno il 90 per cento di loro non ha sintomi.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21482684

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3191986/

Giovedì, 02 Ottobre 2014 06:55

LA MENOPAUSA NELLA DONNA E' COLPA DELL'UOMO.

02-10-2014

A far entrare in menopausa una donna a un certo punto della sua vita sarebbero i comportamenti dell’uomo, che fanno parte dell’istinto di selezione naturale che spingerebbe il maschio a prediligere i rapporti sessuali con le femmine più giovani: un pò come dire che la donna, sentendosi accantonata, a un certo punto smette di essere fertile perché non serve più a questo scopo. I maschi dunque fautori inconsapevoli dell’entrata in menopausa, più o meno precoce, delle femmine. Questo quanto suggerito da un biologo e genetista evolutivo, dottor Rama Singh, che ha condotto uno studio insieme ai colleghi Jonathan Stone e Richard Morton della canadese McMaster University, pubblicato su PLoS Computational Biology. Come accennato, secondo i ricercatori, nel corso del tempo i maschi umani hanno mostrato una preferenza per le donne più giovani nella scelta della propria compagna: un comportamento che sarebbe stato dettato dalla necessità di riproduzione e dalla selezione naturale che favorisce la ricerca di “soggetti” sani e più geneticamente promettenti. «In un certo senso è come l’invecchiamento, ma è diverso perché è un processo “tutto-o-niente” che è stato accelerato per via dell’accoppiamento preferenziale», spiega Singh.
Secondo gli autori dello studio, il processo della menopausa sarebbe dunque stato innescato dalle scelte di riproduzione maschile. Ma, come spesso accade, altri esperti non si sono detti d’accordo con questa teoria; secondo loro, infatti, il processo è l’esatto contrario: i maschi avrebbero scelto di accoppiarsi con donne più giovani semplicemente perché quelle più anziane erano meno fertili. Quale sarà la verità? E, nel caso, è davvero così importante?

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Rama+Singh%2C+Jonathan+Stone%2C+Richard+Morton+Plos+Computational+Biology

02-10-2014

Esistono in commercio prodotti dimagranti, venduti come integratori alimentari, che spesso promettono miracoli. Tra i tanti, ci sono quelli che tra gli ingredienti principali contengono i chicchi di caffè verde che, secondo quanto reclamizzato, aiuterebbero a bruciare i grassi. Un nuovo studio, però, afferma che questo ingrediente non aiuta a bruciare i grassi – e dunque prevenire l’aumento di peso – anche se assunto in dosi elevate. A onor del vero, c’è da dire che le sostanze contenute nei chicchi di caffè – come i polifenoli – sono state promosse da diversi studi, per via delle loro proprietà antiossidanti. Chi beve caffè in quantità adeguate pare infatti essere meno a rischio di malattie come l’ipertensione, il diabete di tipo 2, l’obesità e altri disturbi ancora che rientrano in quella che viene definita Sindrome metabolica. Tuttavia, questo è il primo studio ad aver analizzato l’effetto dell’acido clorogenico (CGA) da solo, un polifenolo del caffè che è l’ingrediente principale di decine di integratori alimentari spacciati come prodotti dimagranti. I ricercatori dell’University of Western Australia – dottor Vance Matthews, dottor Kevin Croft e colleghi – hanno condotto uno specifico studio su modello animale i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista ACS’ Journal of Agricultural and Food Chemistry. Quanto scoperto dagli scienziati è che il polifenolo ritenuto il principio attivo contro l’accumulo di grasso in realtà non lo limita. Gli speciali modelli utilizzati fungevano da riflesso per quanto potrebbe accadere sugli esseri umani. Ai modelli, suddivisi in due distinti gruppi, è stata fatta seguire in un caso una dieta ad alto contenuto di grassi soltanto e, nell’altro caso, la stessa dieta ad alto contenuto di grassi più dosi elevate di CGA. I risultati, dopo i test, hanno mostrato che non vi era alcuna differenza nell’accumulo di grasso tra i due gruppi, ossia tutti i modelli hanno accumulato grasso, per cui il polifenolo non avrebbe sortito gli effetti decantati. Ma non solo, oltre a questo, infatti, i topi che avevano assunto anche il CGA sono stati trovati avere maggiori probabilità di sviluppare disturbi che preludono al diabete di tipo 2 e avevano accumulato lipidi all’interno delle cellule del fegato. «Questo studio suggerisce che alte dosi di supplementazione con CGA in una dieta ricca di grassi non protegge contro le caratteristiche della sindrome metabolica nei topi con obesità indotta dalla dieta», concludono i ricercatori. Queste conclusioni suggeriscono che il polifenolo oltre a non essere efficace nel ridurre l’accumulo di grasso, può anche essere in alcuni casi dannoso.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Vance+Matthews%2C+Kevin+Croft+Journal+of+Agricultural+and+Food+Chemistry

01-10-2014

La cosiddetta HRT (TOS), o terapia ormonale sostitutiva, che molte donne intraprendono durante il corso della propria vita per sopperire a una carenza ormonale, potrebbe essere rischiosa per altri versi, specie se si tratta di una combinazione estrogeno-progestinica. Ad aver posto l’accento sul rischio di meningioma, uno dei più comuni tumori cerebrali, è uno studio condotto dai ricercatori del Danish Cancer Research Centre e pubblicato sull’European Journal of Cancer, i quali hanno scoperto che le donne che seguono una TOS hanno un rischio aumentato del 30%. Quelle, poi, che seguono questa terapia da più di 10 anni si ritrovano ad avere fino al 70% una maggiore probabilità di sviluppare questo tumore. Secondo il dottor L. Andersen e colleghi, i risultati dello studio dimostrano che più tempo una donna segue questa terapia, più aumenta il rischio. I risultati, oltre a ciò, spiegherebbero anche il perché questo tipo di tumore è più frequente nelle donne e perché vi è stato un aumento dei casi negli ultimi anni. Le donne che sviluppano il meningioma, poi, sono a maggiore rischio di cancro del seno. Per non alimentare allarmismi, i ricercatori ricordano che i meningioma sono nell’85% dei casi benigni, tuttavia possono causare tutta una serie di sintomi che vanno dal mal di testa, alle vertigini e perdita dell’equilibrio, convulsioni e perdita dell’udito. Le donne che dunque seguono una terapia ormonale sostitutiva dovrebbero sottoporsi a screening periodici per scongiurare questo rischio.

 

http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0959804913004346

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Hormone+replacement+therapy+increases+the+risk+of+cranial+meningioma

01-10-2014

Il morbo di Alzheimer è caratterizzato da una riduzione del volume del cervello e da grovigli di proteine amiloidi che impediscono la comunicazione efficiente tra i neuroni, alterando chimica e segnalazione elettrica. Fortunatamente, negli ultimi dieci anni, sono state identificate molte sostanze nutrienti naturali (curcumina, resveratrolo, vitamina D3) che attraversano la barriera emato-encefalica per contrastare la riduzione del volume cerebrale e combattere i grumi proteici che minacciano la conservazione della memoria e benessere cognitivo. Secondo i ricercatori della University of Oxford, trattamento con alte dosi di vitamine del gruppo B, possono rallentare l’atrofia di specifiche regioni del cervello che sono una componente fondamentale del processo di malattia di Alzheimer e comunemente associate con il declino cognitivo. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Proceedings della National Academy of Sciences. Precedenti studi hanno determinato che livelli elevati di proteina nota come omocisteina sono responsabili di un significativo aumento del rischio di depressione e di sviluppo della demenza. L’omocisteina è un composto tossico che è elevato nel sangue a causa di una dieta ricca di proteine animali e contribuisce inoltre ad un aumentato rischio di malattia cardiovascolare. Elevati livelli di omocisteina persistono quando l’assunzione delle vitamine del gruppo B, acido folico e B12 è limitata e comunemente aumentano a causa di una dieta ricca di proteine animali e carente di frutta e verdura. Per condurre lo studio, gli scienziati hanno valutato 156 pazienti anziani con decadimento cognitivo lieve. Ottanta partecipanti hanno ricevuto una combinazione di vitamina B12 (500 mcg), B-6 (20 mg) e acido folico per un periodo di due anni, mentre un secondo gruppo ha ricevuto pillole placebo. I ricercatori hanno scoperto che coloro che hanno assunto la vitamina B, hanno dimostrato significativamente meno restrizione del cervello, rispetto al gruppo placebo. L’autore dello studio, il dottor David Smith ha osservato che il trattamento della malattia di Alzheimer con vitamina B ha dimostrato di arrestare potenzialmente l’avanzamento della patologia e dei sintomi, senza farmaci tossici o effetti collaterali. Il dottor Smith ha concluso: “I risultati dello studio rendono evidente la necessità di uno screening precoce dei primi segni di declino cognitivo a partire dall’età di 50. Inoltre il nostro studio dimostra che le persone con un livello di omocisteina sopra 10mcmol/l, che sono circa la metà di tutte le persone di età superiore ai 65 anni, potenzialmente possono beneficiare di ridotto restringimento del cervello, assumendo alte dosi di B6, B12 e acido folico“. Uomini e donne sopra i 35 anni dovrebbero verificare annualmente i loro livelli di omocisteina e valutare la necessità di assumere dosi elevate di vitamina B per ridurre drasticamente il rischio di sviluppare demenza e malattia cardiovascolare.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23690582

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3677457/

01-10-2014

Il Giappone è noto come il paese della longevità. Molti nel mondo adottano la dieta giapponese, composta da abbondanti pietanze a base di prodotti del mare, e questa indiscutibilmente è un’ottima idea. Il fatto di essere una nazione con il maggior numero di longevi non può essere una risposta completa. Ma come può una persona molto anziana dipendere esclusivamente dai parenti ed essere da questi accudita? I medici giapponesi sono molto preoccupati per questo problema perchè la maggior parte delle persone anziane giapponesi non sono in grado di prendersi cura di se stessi nel corso della giornata senza assistenza negli ultimi anni della loro vita. Il dottor Nakamura e i suoi colleghi dell’Università di Kyoto hanno condotto uno studio finalizzato a ottimizzare una dieta da attuare durante l’età media della vita, intesa a migliorare le loro capacità motorie e di essere autosufficienti anche in età molto avanzata. Nell’ambito di questa ricerca il dottor Nakamura ha analizzato le indicazioni sanitarie e i pasti di circa 2.300 persone per molti anni (circa 20). Ha valutato l’equilibrio di pesce, frutti di mare, uova, carne, nella loro alimentazione.
Il risultato della ricerca ha evidenziato: coloro che avevano, nella loro abitudine alimentare, mangiato carne due volte alla settimana risultavano autosufficienti e con buona deambulazione, al contrario di coloro che non ne avevano mangiato o ne avevano mangiato solo raramente. Gli scienziati dell’equipe diretta dal dottor Nakamura hanno stabilito che il consumo moderato di carne magra, con il suo apporto di proteine, aiuta le persone a mantenere la massa muscolare idonea all’organismo in età molto avanzata, quindi, favorisce il mantenimento di tutte le funzioni fisiche del corpo.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Yasuyuki+Nakamura+Gerontology

Mercoledì, 01 Ottobre 2014 13:07

TE' VERDE CON LIMONE E' PIU' UTILE ALLA SALUTE.

01-10-2014

Nuove ricerche sulle proprietà salutari del tè verde hanno fatto emergere che questo è molto più utile per la salute se abbinato a succo di agrumi, soprattutto limone. La ricerca è stata finanziata dal National Institute of Health degli USA. I risultati delle ricerche hanno dimostrato che aggiungendo al tè verde succhi con alto contenuto di vitamina C, si provocava un aumento delle “catechine” che vengono meglio assorbite nel tratto gastrointestinale. (La catechina è un potente antiossidante).
Il Dottor Ferruzzi, responsabile della ricerca, ha affermato che le catechine necessitano di un ambiente acido per essere meglio assimilate ma, nonostante ciò, una gran parte di esse non vengono assorbite completamente. Si è poi constatato che il limone aiuta e mantenere e assorbire l’80% delle catechine. Gli effetti sull’organismo di questo aumento delle catechine (fino a cinque volte più della norma) sono una maggiore protezione dell’organismo da attacco cardiaco, ictus, cancro. Il Dottor Ferruzzi ha aggiunto, inoltre, che ciò è valido anche per il tè nero. Questo è un fatto positivo, in quanto molti preferiscono il tè nero per il suo sapore particolare maggiormente aromatico. E’ comunque da sottolineare che il quantitativo di catechine contenute nel tè nero è inferiore di quelle contenute nel tè verde.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20161530

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2802066/

Lunedì, 29 Settembre 2014 19:12

CAFFE' IN ECCESSO PROVOCA DANNI AL CUORE.

29-09-2014

Gli scienziati e ricercatori italiani hanno condotto una serie di test e studi sugli effetti provocati dal consumo di un eccessivo numero di caffè sul muscolo cardiaco. La dottoressa Anna Mattioli, responsabile delle ricerche, ha annunciato i risultati delle ricerche a Barcellona in occasione del congresso della Società Europea di Cardiologia. I test e le analisi hanno dimostrato che i pazienti con cardiopatia, come l’aritmia atriale, avevano ricevuto le dosi di sostanze antiossidanti, necessarie all’organismo, principalmente attraverso la caffeina e non altri prodotti come le verdure, l’olio d’oliva, la frutta, il vino. Coloro che abitualmente facevano un largo uso di caffè avevano più frequentemente problemi cardiaci rispetto a coloro che consumavano caffè in minor misura. Infatti avevano una più alta percentuale della patologia di fibrillazione atriale. In questa malattia gli atri superiori del muscolo cardiaco risultano tremanti e le fasi di riempimento e svuotamento del sangue risultano irregolari a differenza del normale riempimento e svuotamento degli atri che si verifica in un cuore sano. In questi pazienti di solito si ha un battito cardiaco più accelerato, respirazione irregolare, senso di forte affaticamento, con conseguente aumento del rischio di ictus. La dottoressa Anna Mattioli afferma, nel suo rapporto, che queste ricerche hanno dimostrato come alte dosi di caffeina (tre o più tazze di caffè al giorno) aumentano il rischio di fibrillazione atriale nei pazienti che non avevano avuto malattie cardiache in precedenza.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18607243

Lunedì, 29 Settembre 2014 19:11

CURCUMA PER PREVENIRE IL MORBO DI PARKINSON.

29-09-2014

Alcuni ricercatori riuniti in team, guidati dal prof. Ahmad Basir dell’Università del Michigan (USA), hanno dimostrato con diversi esperimenti che la curcumina è efficace per la prevenzione contro il morbo di Parkinson. La curcumina è la sostanza principale della curcuma, spezia molto utilizzata in gastronomia ed è presente nel curry. Il primo stadio dell’insorgenza del morbo di Parkinson, malattia debilitante, è la coalescenza nell’organismo umano della proteina alfa-sinucleina composta da 140 amminoacidi. La curcumina può aiutare a prevenire l’incollaggio della proteina, e accelerando il suo movimento ne impedisce la coalescenza.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22267729

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3308736/

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