Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

23-12-2014

Arriva da Siena e dal gruppo di ricerca del professor Giovanni Grasso del Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Neuroscienze dell’Università senese, la scoperta che potrebbe aprire la strada ad una nuova e rivoluzionaria cura dei tumori. In particolare del retinoblastoma, cancro degli occhi che colpisce i bambini di età tra zero e tre anni e che vede nel policlinico “Le Scotte” di Siena un centro di eccellenza e un punto di riferimento nazionale per la sua cura. "Dopo anni di ricerche – spiega il professor Giovanni Grasso - abbiamo la dimostrazione inequivocabile che l’acido ascorbico, a tutti più noto come Vitamina C, è in grado di uccidere, a dosi elevate, le cellule di retinoblastoma. Lo studio, effettuato su cellule derivate da questo tumore, stabilizzate e in linea continua, è stato pubblicato dal Journal of Clinical and Experimental Ophthalmology". Per il momento si tratta di una sperimentazione in laboratorio, su cellule trattate in vitro. Ma le aspettative sono reali. "Si tratta di risultati di laboratorio che dovranno necessariamente trovare un riscontro “clinico” - continua il dottor Domenico Mastrangelo, curatore della ricerca coadiuvato da Lauretta Massai – mediante la verifica dell’efficacia delle alte dosi di vitamina C". "I dati sperimentali ottenuti in vitro e la presenza, presso l’azienda ospedaliera senese del centro di riferimento nazionale per la diagnosi e cura del retinoblastoma, potrebbero rendere più che realistica la possibilità che la verifica dell’efficacia clinica della Vitamina C ad alte dosi, per via endovenosa, possa esser fatta sui piccoli pazienti colpiti dal tumore". 
Gli studi e i risultati senesi trovano riscontro anche in sperimentazioni portate avanti fuori dai confini italiani. "In America, studi clinici su pazienti affetti da cancro pancreatico, - continua il dottor Mastrangelo - dimostrano che, anche a dosi elevate, la vitamina C è altamente tollerabile per via endovenosa. In più, a dosi elevate essa agisce come un pro-ossidante, generando acqua ossigenata, altamente tossica solo per le cellule tumorali, che sono sprovviste dell’enzima (la catalasi) in grado di metabolizzare e distruggere l’acqua ossigenata. L’acqua ossigenata non metabolizzata danneggerebbe (ossidandole) tutte le strutture della cellula tumorale, portandola a morte". A questo punto manca soltanto la prova sul campo. "Questa scoperta, se convalidata da studi clinici, può rappresentare una vera e propria rivoluzione nell’ambito della terapia del retinoblastoma e forse anche di altri tumori", conclude il dottor Mastrangelo.

 

http://omicsonline.org/megadoses-of-ascorbate-as-a-new-chemotherapeutic-approach-in-uveal-melanoma-2155-9570.1000315.php?aid=21605

http://www.scirp.org/journal/PaperInformation.aspx?PaperID=38668#.VJa7foAA

03-05-2015

Spesso ci siamo trovati a parlare degli effetti collaterali di alcuni farmaci di uso comune, spesso abusati, e dei loro sostituti naturali. Abbiamo visto quanto possano far male i farmaci FANS, ad esempio, e come la curcuma possa essere una valida alternativa nel trattamento dell’artrite. Oggi voglio invece porre l’attenzione su un altro farmaco molto diffuso, anche qui in Italia, l’aspirina. L’aspirina è un farmaco utilizzato anche nella prevenzione degli ictus e degli attacchi cardiaci, perché, agendo su alcuni particolari enzimi, riesce ad evitare la formazione dei coaguli di sangue. Secondo una recente ricerca pubblicata sul Journal of the American College of Cardiology, l’organo ufficiale della più importante associazione di cardiologi statunitensi, e condotta dai ricercatori statunitensi del Baylor College of Medicine di Houston, il 10% delle persone che assumono regolarmente aspirina per prevenire ictus e attacchi cardiaci in realtà non ne avrebbe bisogno. Non solo, i rischi correlati supererebbero i benefici. Questo perché, se da un lato il farmaco impedisce la formazione di trombi, dall’altro, invece, espone le persone a un rischio maggiore di emorragie.
Secondo un altro studio randomizzato, l’uso dell’acido acetilsalicilico a basso dosaggio può essere efficace, è vero, per la prevenzione di eventi cardiovascolari, ma provocare danni a livello gastroduodenale. Anche a basse dosi. Ancora, in un altro studio pubblicato sulla rivista Heart, alcuni ricercatori olandesi hanno osservato 27.939 operatori sanitari di sesso femminile, con un’età media di 54 anni, che facevano uso di aspirina. Nel complesso, l’uso di aspirina è stata associata ad un ridotto rischio di malattie cardiovascolari e di cancro del colon-retto ma, nella maggior parte delle donne, in particolare quelle al di sotto dei 65 anni, il rischio di sanguinamento gastrointestinale ha superato i benefici. Quando si tratta di alternative all’aspirina, un possibile contendente naturale è il Pycnogenol, un potente composto estratto dal pino marittimo francese. Sembra che al suo interno siano contenuti oltre quaranta antiossidanti.
In uno studio condotto nel 1999, il picnogenolo ha dimostrato di possedere un’efficacia superiore all’aspirina nell’inibire l’aggregazione piastrinica nei fumatori. I dati ricavati dall’esperimento hanno dimostrato un’inibizione della reattività di aggregazione piastrinica dopo la somministrazione di 100 mg Pycnogenol in 22 accaniti fumatori tedeschi. Lo stesso risultato ottenuto somministrando 500 mg di aspirina, ma con minori effetti collaterali. Alte dosi di Picnogenolo (200 mg), poi, hanno dimostrato di mantenere l’efficacia fino a oltre 6 giorni. In questo caso, la sostanza naturale si è rivelata essere più efficace dell’aspirina nel ridurre l’aggregazione piastrinica. Più efficace, più a lungo, a minor dosi e soprattutto senza il rischio di provocare i sanguinamenti causati dall’uso del farmaco. Altri studi hanno dimostrato come il picnogenolo riduca il rischio di una serie di malattie e disturbi, apparentemente non correlati, il cui tratto comune è però un livello inadeguato di antiossidanti.
Sono diverse le evidenze che attribuiscono a questa sostanza proprietà terapeutiche utili contro l’ipertensione. Non solo: il picnogenolo si è dimostrato utile contro le infiammazioni, ma anche contro i sintomi della menopausa. Uno studio italiano, condotto dall’Università di Chieti-Pescara e pubblicato su Panminerva Medica, suggerisce che l’integratore Pycnogenol possa rappresentare una base molto efficace, quale supplemento giornaliero alimentare per le donne in menopausa, per alleviare i sintomi di questa particolare condizione. Senza contare ovviamente le comprovate proprietà cardiovascolari e la capacità di abbassare la pressione sanguigna.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19788350

http://well.blogs.nytimes.com/2014/12/15/aspirin-risks-outweigh-benefits-for-younger-women/?_r=2

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10498385

08-01-2015

E’ la vitamina del Sole, così chiamata perché è proprio grazie all’astro splendente che il nostro organismo, attraverso la pelle, riesce a sintetizzarla e produrla. E se già sappiamo quanto la vitamina D sia utile per la salute delle ossa, forse non sapevamo che è fondamentale anche per altri processi fisiologici come la proliferazione cellulare o quelli che interessano muscoli, occhi, cuore e polmoni. Ma, la vitamina del Sole non si ferma qui: pare infatti che sia d’aiuto anche ai malati e, in particolare, alle donne affette da carcinoma mammario (o cancro del seno). Tutto questo, secondo un nuovo studio pubblicato su Anticancer Research e condotto dai ricercatori della Facoltà di Medicina dell’Università della California a San Diego (UCSF), in cui si mostra che adeguati livelli di vitamina D possono far aumentare di ben il doppio le probabilità di sopravvivere alla malattia. Per contro, carenze di questa stessa vitamina sono state collegate a un alto rischio di sviluppare un tumore del seno, in particolare nelle donne in premenopausa.
Il dott. Cedric F. Garland – professore del Department of Family and Preventive Medicine – e colleghi hanno eseguito un’analisi statistica di cinque studi sulla 25-idrossivitamina D, ottenuti al momento della diagnosi nella paziente e durante il follow-up per una media di nove anni. In totale, gli studi includevano 4.443 pazienti con cancro al seno. «I metaboliti della vitamina D aumentano la comunicazione tra le cellule attivando una proteina che blocca la divisione cellulare aggressiva – spiega il prof. Garland – Finché i recettori della vitamina D sono presenti, la crescita del tumore è impedita e la richiesta di sangue trattenuta. I recettori della vitamina D non si perdono fino a quando un tumore è molto avanzato. Questa è il motivo della migliore sopravvivenza nei pazienti i cui livelli ematici di vitamina D sono alti». I dati raccolti hanno rivelato che le donne con un alto livello ematico di vitamina D presentavano un livello medio di 30 nanogrammi per millilitro (ng/ml) di 25-idrossivitamina D nel loro sangue. A differenza, il gruppo con bassi livelli di vitamina D aveva in media 17 ng/ml. Non a caso, il livello medio nei pazienti con cancro al seno negli Stati Uniti è di 17 ng/ml. I ricercatori, per prudenza ricordano che altri studi clinici randomizzati e controllati saranno necessari per confermare i risultati, tuttavia ritengono che i medici dovrebbero prendere in considerazione l’aggiunta di vitamina D nella cura standard di una paziente con cancro al seno e poi monitorare attentamente la paziente. «Non c’è ragione per attendere ulteriori studi per incorporare supplementi di vitamina D in regimi di cura standard, in quanto una dose sicura di vitamina D necessaria per raggiungere elevati livelli sierici superiori a 30 nanogrammi per millilitro è già stata stabilita», conclude Garland.
Ricordiamo che le linee guida attuali raccomandano l’apporto giornaliero di vitamina D in misura delle 600-800 UI (Unità Internazionali), tuttavia ci sono esperti che ritengono che per prevenire malattie come il cancro sono necessari dosaggi che vanno dalle 2.000 alle 4.000 UI. Ma ci sono anche specialisti che per contrastare una grave carenza arrivano a prescrivere perfino 50.000 UI; altri ritengono però che con 10.000 UI al giorno si possa danneggiare i reni. Quale che sia la verità, è indubbio che la carenza di vitamina D è una realtà, spesso dovuta alla tutta moderna abitudine di restare per troppo tempo rintanati in case e uffici anziché prendere un pò di sano Sole – con cognizione di causa, ovviamente.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24596354

10-04-2015

Secondo uno studio recente, consumare troppo ferro e manganese può aumentare il rischio di malattia di Parkinson. Persone che hanno assunto quantità elevate di ferro e manganese, hanno una probabilità doppia di sviluppare la malattia rispetto a individui che ne hanno fatto uno scarso uso.
Sia il ferro che il manganese, ad alte dosi sono neurotossine. Lo studio ha coinvolto 250 persone affetti da malattia di Parkinson e 388 senza la malattia. I ricercatori hanno confrontato i gruppi particolarmente riguardo agli alimenti e supplementi consumati. Quelli che assumevano ferro dietetico in quantità hanno mostrato 1.7 volte più probabilità di sviluppare Parkinson rispetto ai soggetti a basso consumo di ferro. Inoltre, chi aveva consumato un quantitativo superiore alla norma sia di ferro che di manganese aveva 1.9 volte più probabilità di sviluppare Parkinson rispetto ai soggetti a basso consumo di ferro.
Il ferro e il manganese possono contribuire allo stress ossidativo, che si verifica quando le cellule rilasciano delle sostanze tossiche denominate radicali liberi come componente del consumo di energia e del metabolismo normali. Lo stress ossidativo può provocare il deterioramento delle cellule cerebrali che producono la dopamina - le stesse cellule danneggiate dalla malattia del Parkinson. Alimenti quali spinaci, legumi, noci e i cereali integrali sono ricchi sia in ferro che manganese. La carne rossa ed il pollame contengono molto ferro. I ricercatori hanno precisato che i benefici legati al consumo di questi alimenti superano i rischi legati alla malattia del Parkinson e precisano che la gente non dovrebbe eliminare questi minerali dalla loro dieta. Abbiamo bisogno di ferro e manganese, anche se una quantità elevata non è necessariamente migliore.

COMMENTO

Sebbene il ferro sia necessario per la salute umana, troppo ferro può essere devastante. Oltre al ferro eccedente che può derivare da supplementi a base di ferro, un sovraccarico di ferro , o emocromatosi, è la malattia ereditata più comune. Nell’emocromatosi ereditaria i depositi di ferro compaiono praticamente in ogni organo principale, specialmente nel fegato, pancreas e cuore, con conseguente danno completo e diffuso dell’organo. Inoltre, si sa da 30 anni che il ferro è associato all’infezione. Quando è presente ferro in eccesso, i meccanismi antibatterici normali del corpo sono compromessi severamente. Il ferro eccedente può anche generare quantità voluminose di radicali liberi. 
Per la medicina tradizionale l’unica soluzione ad un sovraccarico di ferro è donare mezzo litro di sangue ogni due settimane. Ciò non è una soluzione molto efficace e può richiedere molti anni e fino a 50 flebotomie prima che funzioni terapeuticamente. Dosare il ferro semplicemente nel siero non è il test più indicativo perché il ferro sierico sarà frequentemente normale. L’analisi più utile per valutare i livelli corporei di ferro è il dosaggio della ferritina nel siero. In caso di livelli elevati di ferritina nel siero, non si devono effettuare flebotomie terapeutiche. Un semplice estratto dalla crusca di riso, denominato acido fitico o inositolo esafosfato, o IP6, è molto efficace come chelante del ferro senza alcun effetto tossico. Il manganese è simile al ferro in quanto può essere nocivo a livelli eccessivi. Un eccesso di manganese abbassa la serotonina e la dopamina ed i livelli elevati di manganese sono trovati spesso negli individui violenti o aventi difficoltà nell’apprendimento. Nonostante la sua potenzialità pericolosa per generare problemi importanti di salute, l’attenzione medica nei confronti della sua tossicità è minima.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12796527?dopt=Abstract

http://www.neurology.org/content/60/11/1761.abstract

20-11-2017

La superficialità con cui un prodotto erboristico, solo perché a contenuto vegetale, è liquidato come innocuo, è molto comune sia tra i consumatori che tra i venditori. Ma sappiate che bisogna stare molto attenti a quello che si assume, soprattutto se si è in cura farmacologica. L'International Journal of Clinical Practice ribadisce il concetto importante dell'interazione tra integratori e farmaci raccomandando la consultazione e la comunicazione tempestiva al medico di qualsiasi erba o integratore vegetale si assuma durante la cura. Non è vero che un integratore non ha nessun effetto solo perché di base naturale: se ha un minimo di effetto sull'organismo (e lo hanno altrimenti non sarebbero neanche venduti per questo o quel disturbo) allora il suo uso deve essere comunicato. 
Per favorire una maggior chiarezza su quest'argomento davvero poco toccato, è stato messo a disposizione un documento da Catherine Ulbricht, farmacista al Massachusetts General Hospital di Boston, pubblicato sulla rivista Alternative and Complementary Therapies: c'è tutto quello che la scienza al momento sa di queste interazioni. Per esempio, la scienza sa che chi è in cura con anticoagulanti (pensiamo soprattutto agli anziani) non dovrebbe assolutamente assumere aglio o zenzero che facilitano il sanguinamento. Se c'è bisogno di un intervento, questo tipo di integrazione deve essere sospesa per almeno 10 giorni prima. La scienza sa che chi soffre di diabete deve abbandonare le integrazioni a base di liquirizia, cannella e semi di lino. Essi agiscono attivamente sui livelli di glucosio e possono annullare l'attività dei farmaci per il diabete. Alcune erbe, poi, hanno un'azione i cui effetti sono riconducibili a quelli di un ormone, quindi devono essere prese con cautela. Esse sono la soia e il trifoglio, ad esempio. Ma le erbe non hanno sempre un effetto pericoloso interagendo con i farmaci. Tante permettono di ridurre gli effetti collaterali e ne rendono possibile un dosaggio inferiore. E' proprio questo aspetto su cui si sta studiando e i risultati li vedremo nei prossimi anni.

 

http://www.sciencedaily.com/releases/2012/05/120501134119.htm

http://www.alphagalileo.org/ViewItem.aspx?ItemId=119788&CultureCode=en

20-12-2014

Secondo lo studio, pubblicato sul Journal of National Cancer Institute, il cancro del fegato è una delle principali cause di morte per cancro nel mondo. Circa l’85% dei tumori del fegato si verifica nei paesi in via di sviluppo, con il 54% nella sola Cina. La vitamina E è una vitamina liposolubile considerata un potente antiossidante. Inoltre, numerosi studi hanno indicato che la vitamina E può anche prevenire danni al DNA. Wei Zhang, Shanghai Cancer Institute, Renji Hospital, Shanghai Jiaotong University School of Medicine e colleghi, hanno cercato di determinare l’associazione tra assunzione di vitamina E e rischio di cancro al fegato. I ricercatori hanno esaminato i dati di 132.837 persone in Cina che hanno partecipato allo Shanghai Women’s Health Study, e al the Shanghai Men’s Health study. I due studi sono stati condotti congiuntamente dallo Shanghai Cancer Institute e Vanderbilt University. I dati sulle abitudini alimentari dei partecipanti sono stati raccolti tramite sondaggi e interviste alle persone. Ai partecipanti allo studio è stato chiesto quanto spesso hanno consumato alcuni degli alimenti più popolari nelle aree urbane di Shanghai e se hanno assunto integratori vitaminici. Essi hanno poi confrontato il rischio di cancro al fegato tra i partecipanti che hanno assunto vitamina E ed i partecipanti che hanno sperimentato bassa assunzione di vitamina E. L’analisi ha incluso 267 pazienti affetti da cancro al fegato che sono stati diagnosticati con la malattia entro due anni dalla registrazione allo studio. Assunzione di vitamina E dalla dieta e utilizzo di integratori sono stati entrambi collegati ad un ridotto rischio di sviluppare il cancro al fegato. Secondo i ricercatori, questo collegamento era coerente tra i partecipanti con e senza malattia epatica auto-riferita o con una storia familiare di cancro al fegato. La squadra ha evidenziato: “Abbiamo trovato una chiara relazione dose-risposta inversa tra assunzione di vitamina E e rischio di cancro al fegato. Il messaggio da portare a casa è che l’alta assunzione di vitamina E sia da dieta che da integratori è legato a un minor rischio di cancro al fegato, in persone di mezza età o anziani dalla Cina”.

 

http://jnci.oxfordjournals.org/content/early/2012/07/17/jnci.djs339.long

http://www.sciencedaily.com/releases/2012/07/120717162627.htm

Mercoledì, 15 Novembre 2017 09:48

L'OLIO DI PESCE POTREBBE CURARE LA LEUCEMIA.

28-04-2015

La cura per la leucemia potrebbe passare per uno studio approfondito delle proprietà benefiche dell'olio di pesce. Un team di scienziati della Penn State University ha scoperto che un composto contenuto all'interno dell'olio di pesce è in grado di colpire le cellule staminali leucemiche. In una sperimentazione su modello murino, il composto Delta-12-prostaglandin J3 ha mostrato di poter eliminare le staminali correlate alla leucemia mieloide cronica. Il composto deriva dall'EPA, l'acido eicosapentaenoico, un acido grasso omega-3 presente in buone percentuali nel pesce e nell'olio di pesce.
“Nel passato le ricerche sugli acidi grassi hanno dimostrato i benefici degli acidi grassi sulla salute del sistema cardiovascolare e sullo sviluppo del cervello, in particolare nei bambini, ma noi abbiamo dimostrato che alcuni metaboliti di omega-3 hanno la capacità di uccidere selettivamente le cellule staminali che causano la leucemia nei topi”, ha detto Prabhu. ”La cosa importante è che i topi sono stati completamente guariti della leucemia, senza ricadute”. Nello specifico, il composto ha eliminato le staminali responsabili del cancro alla milza e al midollo osseo dei topi oggetto di analisi attraverso l'attivazione del gene p53, quello preposto all'apoptosi, la morte cellulare programmata. Al momento, la terapia antitumorale utilizzata in caso di leucemia punta al mantenimento di un numero basso di cellule leucemiche, ma non è in grado di sconfiggere la malattia in quanto non ha come obiettivo le cellule staminali leucemiche, pronte a dividersi e a creare altre cellule tumorali. “I pazienti devono prendere i farmaci continuamente. Se si fermano, la malattia recidiva perché le cellule staminali leucemiche sono resistenti ai farmaci”, ha dichiarato Robert Paulson, professore associato di scienze veterinarie e biomediche che ha co-diretto lo studio.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24312486

Mercoledì, 15 Novembre 2017 09:38

TUTTI I BENEFICI DELLA SILIMARINA.

02-05-2015

La silimarina viene estratta dai semi di cardo mariano, una pianta biennale comune nei terreni incolti dell'Europa meridionale. La silimarina è in realtà costituita da tre flavonoidi: la silicristina, la silidianina e la silibina. Quest'ultima è di gran lunga la più attiva. La silimarina viene utilizzata nel trattamento di un gran numero di disturbi epatici, comprese la cirrosi, la steatosi alcolica, l'intossicazione epatica o l'epatite virale. Protegge gli epatociti dai danni causati dalle radiazioni, dal sovraccarico di ferro, dalle tossine, dal virus dell'epatite virale o dall'ischemia. Avrebbe anche degli effetti benefici sull'insulino-resistenza e un'azione anticancro. L'estratto di cardo mariano viene utilizzato nella medicina tradizionale da oltre 2.000 anni, soprattutto nel trattamento dell'ittero. In Europa viene ora utilizzato come protezione supplementare quando i pazienti assumono farmaci noti che causano problemi al fegato. Le proprietà epatoprotettive della silimarina sono ampiamente documentate, anche se i suoi meccanismi di azione non sono ancora chiaramente spiegati. Agisce direttamente sugli epatociti, rendendo più difficile l'assorbimento delle tossine, stimolando il loro smaltimento e promuovendo la rigenerazione del tessuto epatico. 

POTENTI PROPRIETA’ ANTIOSSIDANTI

La silibina neutralizza efficacemente diversi radicali liberi, tra cui i radicali idrossilici e perossilici e lo ione ipoclorito. Nonostante sia un'importante difesa antibatterica, è anche estremamente pericolosa e deve essere rapidamente "disarmata". In presenza di ferro, favorisce la creazione del radicale idrossile, che può attaccare direttamente il DNA. L'effetto antiossidante della silibina è stato osservato nelle cavie affette da intossicazione acuta da etanolo o paracetamolo. Questi due componenti inducono alla perossidazione, che si traduce in una notevole diminuzione di glutatione nel fegato. Un trattamento con la silimarina o con la silibina protegge gli animali dallo stress ossidativo prodotto nel fegato dall'etanolo o dal paracetamolo. 
La silibina protegge i globuli rossi e stabilizza le loro membrane, inibendo la perossidazione lipidica. La silimarina e la silibina sembrano inoltre esercitare la loro attività antiossidante non solo neutralizzando i radicali liberi, ma anche agendo sui loro sistemi enzimatici associati al glutatione. Aumentano l'attività degli enzimi superossido dismutasi e quella del glutatione perossidasi nei globuli rossi. La silimarina normalizza l'attività rallentata della SOD e l'immunoreattività alterata nei linfociti di pazienti affetti da cirrosi epatica alcolica. 
Un'altra proprietà interessante della silibina e della silimarina è il coinvolgimento nella regolazione del contenuto di glutatione in diversi organi. Si è così constatato come la silimarina può aumentare del 35% i livelli di glutatione nel fegato delle cavie. Tale incremento viene selettivamente prodotto nel fegato, nell'intestino e nello stomaco. Infine, la silibina protegge dalle lesioni tissutali causate dal ferro. Un sovraccarico di ferro è pericoloso poiché esso catalizza diversi radicali liberi, con una conseguente perossidazione dei lipidi di membrana. Il fegato è il primo luogo in cui il ferro esercita le sue attività distruttive. Le attività antiossidanti della silibina proteggono dalla tossicità del ferro. Inoltre, un certo numero di dati scientifici suggerisce che la silibina agisce come un chelante del ferro, legandosi al ferro libero e facilitando pertanto la sua rimozione da parte della bile. 

PROPRIETA’ ANTINFIAMMATORIE.

Come gli altri flavonoidi, la silibina è in grado di inibire la produzione di ossido nitrico che, in quantità eccessive, è altamente distruttivo. Attiva l'infiammazione cronica e favorisce una produzione maggiore di radicali liberi. La silibina può rallentare la formazione di prostaglandine pro-infiammatorie (PGE-2). Tuttavia, dati scientifici dimostrano che questo meccanismo si verifica solo ad alte concentrazioni. Contrariamente riduce, anche a basse concentrazioni, la produzione di leucotrieni, componenti infiammatori pericolosi. L'elevata capacità della silibina di ridurre i livelli di leucotrieni è particolarmente vantaggiosa dal punto di vista clinico per il trattamento di vari disturbi infiammatori e, in particolare, per evitare i calcoli biliari, nonché le lesioni del fegato o del tessuto renale. 

STIMOLA LA RIGENERAZIONE DEL FEGATO

La capacità della silimarina di favorire la rigenerazione del tessuto epatico può essere spiegata dal fatto che stimola la sintesi proteica nel fegato lesionato. Esperimenti in vivo e in vitro condotti su fegati di cavie dai quali erano state prelevate delle porzioni, dimostrano che la silibina produce un significativo aumento nella formazione dei ribosomi per la sintesi del DNA, come di quella delle proteine. La silibina agisce sorprendentemente sulla sintesi proteica solo quando il fegato subisce delle lesioni. 

PROTEGGE DALL’EPATITE CAUSATA DA TOSSINE O FARMACI.

In caso di avvelenamento da Amanita phalloides, indipendentemente dal trattamento utilizzato, eccetto quello con la silimarina, il tasso di mortalità è generalmente compreso tra il 22 e il 40%. È ancora più elevato quando si verifica nei bambini. In assenza di trattamento, questo fungo distrugge il fegato. La silimarina riduce i danni al fegato causati dall'avvelenamento da Amanita phalloides e riduce significativamente la mortalità. In uno studio retrospettivo condotto su pazienti affetti da avvelenamento da Amanita phalloides, la gravità del danno epatico era strettamente legata al tempo trascorso tra l'ingestione e il trattamento con la silibina. Più l'intervallo era breve, meno gravi erano le lesioni. La silibina è stata iniettata per via endovenosa a una dose media di 33mg/kg al giorno per circa 81,6 ore. I 18 pazienti compresi in questo studio sono sopravvissuti, tranne uno che aveva ingerito una dose elevata di Amanita phalloides per suicidarsi. Studi condotti sugli animali suggeriscono che l'estratto di cardo mariano può avere un effetto protettivo contro molte altre sostanze tossiche, dal toluene a farmaci come il paracetamolo. 

PROTEGGE DALL’EPATITE VIRALE CRONICA E CIRROSI

La silimarina ha la capacità di bloccare la fibrosi, un processo che contribuisce allo sviluppo della cirrosi nelle persone affette da un'infiammazione del fegato dovuta a una malattia precedente, a un abuso di alcool o a un'epatite. In uno studio clinico, 170 pazienti con cirrosi alcolica e non, sono stati seguiti da due a sei anni e hanno assunto per via orale 140 mg di silimarina o un placebo tre volte al giorno. Dopo quattro anni di trattamento, il tasso medio di sopravvivenza è stato significativamente maggiore tra i pazienti trattati con la silimarina rispetto al gruppo campione. Tuttavia, non è stata osservata nessuna differenza significativa nei marcatori chimici. 
Uno studio in doppio cieco controllato con placebo della durata di due anni, condotto su 200 soggetti con cirrosi alcolica, non ha dimostrato alcuna riduzione della mortalità dovuta all'integrazione con un estratto di cardo mariano. Altri studi in doppio cieco che hanno coinvolto soggetti cirrotici, hanno dimostrato miglioramenti nei risultati dei test epatici. Studi clinici preliminari in doppio cieco condotti su soggetti con epatite virale cronica hanno dimostrato che il cardo mariano può apportare un significativo miglioramento di sintomi quali affaticamento, riduzione dell'appetito, disturbi intestinali e dei valori dell'infiammazione del fegato negli esami del sangue. È stato condotto uno studio in doppio cieco su pazienti con epatite cronica persistente o aggressiva, con o senza cirrosi. Essi sono stati seguiti da tre a dodici mesi e trattati con la silimarina. Il trattamento non ha prodotto alcun segno di miglioramento del funzionamento del fegato. Tuttavia, l'esame istologico ha rivelato un miglioramento dell'infiammazione portale, alterazioni del parenchima e necrosi. 
Uno studio in doppio cieco controllato con placebo, di 21 giorni, che ha coinvolto 57 persone con epatite virale acuta, ha constatato miglioramenti significativi nel gruppo che aveva assunto l'estratto di cardo mariano. La somministrazione di 140 mg di silimarina o di un placebo tre volte al giorno dimostra che la proporzione di pazienti in cui l'AST (transaminasi) si normalizza è maggiore nel gruppo trattato (82%) rispetto al gruppo campione (52%). I livelli di bilirubina nel 40% dei pazienti si normalizzavano, contro l'11% nel gruppo campione. Uno studio in doppio cieco condotto su pazienti con epatite virale acuta, dimostra che il trattamento con la silimarina riduce le complicanze, la lunghezza della degenza ospedaliera e favorisce la guarigione. 
Uno studio clinico randomizzato è stato condotto su 106 soldati finlandesi affetti da epatopatia alcolica moderata (ALT e AST <200 U/ml), ma il funzionamento anormale del fegato persisteva dopo una cessazione totale del consumo di alcol nel corso di un mese. I soggetti sono stati trattati per quattro settimane con 420 mg al giorno di silimarina o un placebo. Al termine di questo periodo, i livelli medi di ALT e AST sono diminuiti del 30,1% e 40,8%, rispettivamente in pazienti che assumevano la silimarina, contro un aumento del 5,4% e 2,8% nel gruppo placebo. Non c'era alcuna differenza significativa nei livelli di bilirubina. Altri due studi simili hanno prodotto risultati analoghi. Tuttavia, uno studio randomizzato controllato con placebo della durata di tre mesi e condotto su 116 persone, dimostra poco o nessun beneficio aggiuntivo. Questi risultati possono spiegare il fatto che la maggior parte dei partecipanti avevano ridotto il loro consumo di alcol e quasi la metà di loro avevano completamente smesso di bere. 

SILIMARINA E INSULINORESISTENZA

Un team di ricercatori presso l'Ospedale di Monfalcone a Gorizia, in Italia, ha trattato quotidianamente 60 pazienti diabetici per 12 mesi con 600 mg di silimarina o un placebo. I pazienti erano affetti da diabete non insulino-dipendente e cirrosi alcolica. Sono stati trattati con insulina per almeno due anni. L'insulinoresistenza è elevata quasi permanentemente nei pazienti affetti da diabete non insulino-dipendente e cirrosi del fegato. 
I ricercatori hanno voluto utilizzare la silimarina per le sue proprietà antiossidanti e la sua lunga storia di utilizzo nel trattamento di disturbi epatici. Dopo 12 mesi di trattamento, i risultati sono stati sorprendenti. Anche se il glucosio a digiuno è aumentato leggermente durante il primo mese di trattamento, i suoi livelli sono poi diminuiti gradualmente e significativamente, passando da una media di 190 mg/dl a 174 mg/dl. Mentre una tale riduzione dei livelli di zucchero nel sangue può aumentare il rischio di ipoglicemia, nei pazienti trattati con la silimarina non è aumentato il numero di episodi leggeri o gravi di ipoglicemia, suggerendo che la silimarina stabilizza il glucosio nello stesso tempo in cui lo diminuisce. 
Il trattamento con la silimarina ha apportato anche altri vantaggi: il tasso di zucchero nell'urina è passato da una media di 37 grammi per litro a 22 grammi per litro. I livelli di emoglobina glicata sono diminuiti in modo significativo, indicando un miglioramento complessivo del controllo glicemico. Il loro fabbisogno di insulina giornaliera media è diminuito nel corso dello studio, da 55 UI al giorno a 42 UI. Inoltre, il tasso di SGOT (transaminasi glutammico ossalacetica nel siero sanguigno) e SGPT (transaminasi glutammico piruvica nel siero sanguigno) sono significativamente diminuiti nei pazienti trattati con la silimarina, a conferma che la funzione epatica era migliorata. I livelli ematici di malondialdeide, un marcatore di lesioni radicali, sono diminuiti, avvicinandosi a quelli dei soggetti sani. Nessuno di questi benefici è stato osservato nel gruppo placebo. 

INIBISCE LA CRESCITA E LA PROLIFERAZIONE DELLE CELLULE TUMORALI

Studi epidemiologici hanno dimostrato che una dieta ricca di flavonoidi sembrava diminuire il rischio di un certo numero di tumori, compresi quelli al seno e alla prostata. Un recente studio in vitro ha dimostrato che la silibina è in grado di arrestare la crescita delle cellule tumorali nella prostata, probabilmente inibendo diverse protein-chinasi. In questo studio, la silibina ha trasformato una percentuale significativa di cellule maligne in cellule prostatiche normali e differenziate. Alcuni ricercatori statunitensi hanno già riferito che la silimarina rallenta lo sviluppo delle cellule tumorali umane. In uno studio di colture cellulari, i ricercatori hanno determinato che la silimarina inibisce i recettori epidermici delle cellule del fattore di crescita, un tipo di recettore della tirosin-chinasi che promuove lo sviluppo tumorale. I ricercatori hanno concluso che il trattamento con la silimarina ha portato a una forte e significativa inibizione della crescita e della proliferazione cellulare.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/8080448

http://www.chiro.org/nutrition/ABSTRACTS/Silymarin_Protection_Against_Hepatic_Lipid_Peroxidation.shtml

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/1345204

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2813578

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/7498660

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/6862461

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/9468229

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2707520?dopt=Citation

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Journal+of+Hepatology%2C+1997%3B+26%3A+871-9

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Proc+Natl+Acad+Sci+USA+1999%3B+96%3A+7490S

23-04-2015

Noci brasiliane, frutti di mare e carne aumentano la fertilità femminile. Secondo quanto affermano alcuni ricercatori australiani, in forza all’University of Adelaide, il consumo di questi prodotti aumenterebbe le possibilità di concepimento grazie agli antiossidanti in essi contenuti. Nello specifico i benefici per la fertilità femminile sono offerti dal selenio, secondo quanto riferiscono i ricercatori, presente in ampia misura nelle noci brasiliane. Questo oligoelemento favorirebbe uno stato di salute migliore per quanto riguarda i follicoli ovarici, responsabili dell’ovulazione nelle donne. Come ha spiegato l’autrice principale dello studio, la Dr. Melanie Ceko, University of Adelaide: “Sospettiamo che il selenio giochi un ruolo chiave come antiossidante durante le ultime fasi dello sviluppo follicolare, aiutando a generare un ambiente sano per l’uovo”.
Durante lo studio i ricercatori hanno puntato a individuare quali fossero le aree ovariche nelle quali si collocava con esattezza il selenio, già ritenuto un elemento importante nella fertilità maschile. Le analisi hanno riguardato in seguito anche la proteina GPX1, la quale contiene a sua volta selenio. La presenza di questo oligoelemento è risultata maggiore, così come quella della proteina GPX1, nei follicoli ovarici giudicati in salute: “Il selenio è un oligoelemento essenziale che si trova nei cibi ricchi di proteine come carne, frutti di mare e frutta secca col guscio. Si rivela importante per molte funzioni biologiche come la risposta immunitaria, la produzione di ormoni tiroidei e agisce come antiossidante, aiutando l’organismo a disintossicarsi dai componenti chimici dannosi. Sappiamo da qualche tempo che il selenio è importante per la fertilità maschile, ma finora nessuno aveva ricercato come questo elemento potesse essere coinvolto in una salutare riproduzione nelle donne”.

 

http://www.dailymail.co.uk/health/article-2839367/How-Brazil-nuts-boost-woman-s-fertility-Natural-antioxidant-nuts-red-meat-seafood-improves-chances-conceiving.html

 

09-11-2017

L'indio è un minerale traccia molto raro, che porta il numero 49 nella tavola periodica degli elementi. Apparentemente l'indio non è presente nella catena alimentare. Si trovano tuttavia delle tracce nell'organismo umano fino all'età di 30 anni e queste scompaiono in seguito. Le utilizzazioni nutrizionali di solfato di indio, forma idrosolubile e biodisponibile dell'indio, sono state l'oggetto di numerosi brevetti fra il 1980 e il 1999 in ragione dei tanti benefici che sembra apportare la supplementazione. Inoltre, dal 1999 questa forma di indio è “generalmente riconosciuta come sicura” (G.R.A.S.) dall'amministrazione americana:

- L'indio sembra esercitare un effetto stimolante e ringiovanente sulla ghiandola pituitaria e sull'ipotalamo, i direttori d'orchestra della produzione ormonale. Questa particolarità unica influenza una cascata di una trentina di ormoni.

- L'indio migliora l'utilizzazione nell'organismo degli altri elementi in traccia. Per il Dr. Henry Schroeder questa biodisponibilità è accresciuta più del 140%.

- Uno studio realizzato nel 2000 a Budapest (Ungheria) condotto su 100 volontari (uomini e donne, giovani e vecchi, malati e sani ) ha permesso di recensire più di 40 effetti benefici associati a supplementazione, al primo posto dei quali c'è un importante miglioramento dell'energia e del benessere.

- Risultati preliminari in animali e uomini sembrano indicare una netta riduzione (42%) del numero dei tumori maligni (roditori) e una riduzione molto importante (75% in tre mesi ) negli uomini con livelli di PSA superiori a 30.

- Negli sportivi ungheresi di alto livello l'indio ha permesso di accelerare l'eliminazione dell'acido lattico, facilitando così lo sforzo continuo e il recupero.

Questi risultati devono essere confermati, ma hanno suscitato un grande interesse nei terapeuti alternativi e un gran numero (più di 1.000) di rapporti anedottici sembrano avvalorarlo. Se l'indio avesse un decimo delle proprietà che gli attribuiscono questi aneddoti, sarebbe un supplemento nutritivo straordinario.
Una cosa però è sicura: il solfato di indio si può utilizzare senza rischio.

 

https://www.amazon.com/Indium-Missing-Trace-Mineral-Discovered/dp/B0006RWN7A

https://www.eastparkresearch.com/ProductDetails.asp?ProductCode=BK-W-INE

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