Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

28-12-2014

La sclerosi multipla (SM), la malattia degenerativa del sistema nervoso centrale che colpisce principalmente i muscoli e la loro funzione, ma anche l’equilibrio, la vista e le funzioni mentali, potrebbe trovare un degno avversario in un elemento naturale: la vitamina D che, secondo un nuovo studio, può rallentarne la progressione e ridurne la gravità. Lo studio, pubblicato sulla versione online di JAMA Neurology, è stato condotto dai ricercatori della Harvard School of Public Health (HSPH), coordinati dal prof. Alberto Ascherio. Qui, il team di ricerca ha scoperto che nei pazienti in fase iniziale della malattia presentavano bassi livelli di vitamina D. Questo fattore è stato ritenuto altamente predittivo sia della gravità della SM che della velocità di progressione. Per questo motivo, i risultati dello studio suggeriscono che i pazienti nelle fasi iniziali della sclerosi multipla possono allontanare i sintomi della malattia aumentando la loro assunzione di vitamina D. «Dato che bassi livelli di vitamina D sono comuni – spiega il prof. Ascherio – e possono essere facilmente e in modo sicuro aumentati con la supplementazione orale, questi risultati possono contribuire all’ottenere risultati migliori per molti pazienti affetti da SM».
Per questo nuovo studio, i ricercatori hanno analizzato i dati di 465 pazienti affetti da SM di 18 Paesi europei, Israele e Canada che si erano iscritti al trial BENEFIT (Betaseron in Newly Emerging Multiple Sclerosis for Initial Treatment) tra il 2002 e il 2003, che mirava a confrontare l’efficacia di un trattamento precoce, rispetto a quello tardivo, con interferone beta-1b nel trattamento della malattia. Da questi dati, i ricercatori hanno esaminato i livelli di vitamina D dei pazienti riportati nelle misure prese al momento della comparsa dei sintomi e a intervalli regolari per un periodo correlato di 24 mesi. Allo stesso modo sono stati valutati i sintomi della malattia e la progressione nel corso di un periodo di cinque anni. L’analisi ha permesso di scoprire che i pazienti con sclerosi multipla in fase iniziale che avevano adeguati livelli di vitamina D presentavano un tasso inferiore del 57% di nuove lesioni cerebrali, un tasso di recidiva inferiore al 57%, e un incremento annuo inferiore del 25% nel volume delle lesioni rispetto ai partecipanti con bassi livelli di vitamina D. Oltre a questo, tra i pazienti con adeguati livelli di vitamina D vi era stata un’inferiore perdita di volume cerebrale, che è un importante fattore predittivo di disabilità. In linea generale, i risultati suggeriscono che la vitamina D ha un potente effetto protettivo sul processo sottostante alla sclerosi multipla. A motivo di ciò, i ricercatori ritengono che sia importante sottolineare l’importanza di avere corretti livelli di questa vitamina che, specie nel mondo occidentale, sono piuttosto bassi. «I benefici della vitamina D sembrano essere additivi a quelli dell’interferone beta-1b, un farmaco che è molto efficace nel ridurre l’attività della SM – sottolinea Ascherio – I risultati del nostro studio indicano che l’identificazione e la correzione dell’insufficienza di vitamina D dovrebbe diventare parte dello standard di cura per i pazienti con sclerosi multipla di nuova diagnosi».

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24445558

 

08-01-2015

Nel nostro organismo sono presenti (o dovrebbero esserlo) diversi minerali. Tutte sostanze che di norma assumiamo attraverso il cibo o l’acqua. Questi minerali sono classificati in base alle loro caratteristiche e alla loro presenza nel corpo: tra questi vi sono i minerali macro, gli elettroliti e i minerali traccia. Uno di questi ultimi è lo zinco, un minerale traccia di fondamentale importanza per il buon funzionamento dell’organismo e per la salute – dato che è anche un buon rimedio preventivo per molte malattie. In genere lo zinco è presente nel corpo umano in quantità superiori a qualsiasi altro oligoelemento, a parte il ferro. In un adulto se ne trovano circa due-tre grammi, ed è rintracciabile negli organi, nei tessuti, nelle ossa, nei fluidi e nelle cellule. Come detto, si può assumere attraverso gli alimenti: tra cui quelli ad alto contenuto di proteine, in particolare proteine animali. Nonostante le fonti di zinco non manchino, si stima che circa la metà della popolazione mondiale potrebbe essere a rischio assunzione di zinco insufficiente.
Ma qual è il ruolo principale di questo minerale, e perché è così fondamentale? La domanda se la sono posti anche i ricercatori indiani Kuljeet Kaur, Rajiv Gupta, Shubhini A. Saraf e Shailendra K. Saraf, i quali hanno svolto una revisione sistematica i cui risultati sono stati pubblicati su Comprehensive Reviews in Food Science and Food Safety, a cura dell’Institute of Food Technologists (IFT). L’articolo, dal titolo “Zinco, il minerale della vita”, riporta i risultati dell’analisi di numerosi studi condotti sullo zinco e dimostra come questo minerale sia non solo un elemento vitale in vari processi fisiologici, ma anche una sorta di farmaco che aiuta nella prevenzione di molte malattie. E una sua carenza può, per contro, essere coinvolta in altrettante malattie. Per esempio, si è stabilito che lo zinco era carente nel sangue dei pazienti con l’Alzheimer e la malattia di Parkinson (Brewer, ed altri 2010). In uno studio su modello animale è stato osservato che lo zinco si comporta come un antidepressivo (Nowak ed altri, 2005). E poi svolge un ruolo di primo piano nella regolazione della pressione arteriosa. A questo proposito, si è poi trovato che maschi e femmine metabolizzano lo zinco in modo diverso quando soffrono di ipertensione (TUBEK, 2007). Una carenza di zinco nel fegato è stata accertata non solo in coloro affetti da cirrosi epatica, ma anche in una meno avanzata malattia epatica alcolica e non alcolica (Bode e altri, 1998). Una lieve carenza di zinco durante la gravidanza potrebbe causare aumento della morbilità materna, alterazione del senso del gusto, gestazione prolungata, difficoltà e inefficienza del travaglio, sanguinamento atonico (o emorragia post-parto) e un aumento del rischio per il feto (Jameson, 1993). Il minerale poi è molto importante nella sintesi, nella conservazione e nella secrezione dell’insulina (Chausmer 1998). Bassi livelli di zinco hanno oltremodo dimostrato di svolgere un ruolo nei pazienti diabetici con condizioni associate a malattie come la malattia coronarica e diversi fattori di rischio connessi, tra cui l’ipertensione e livelli elevati di trigliceridi (Singh e altri, 1998). Lo zinco potrebbe anche ridurre la durata di una grave polmonite e il tempo di degenza in ospedale (Brooks, 2004). Infine, gli studi analizzati mostrano una correlazione tra una carenza di zinco nei pazienti geriatrici e una ridotta attività della ghiandola del timo e gli ormoni timici, una diminuita risposta alle vaccinazioni e una riduzione dell’immunità (Haase e Rink, 2009). Una sua carenza è stata anche collegata con una più difficile e ritardata guarigione delle ferite. Lo zinco e stato poi trovato essere fondamentale per la guarigione delle ulcere gastriche, soprattutto in fase iniziale (Kennan e Morris, 1993; Andrews e Gallagher-Allred, 1999; Watanabe, 1995). Ecco dunque come sia importante assicurarci che la nostra dieta sia corretta e fornisca adeguate dosi di minerali fondamentali per il buon funzionamento dell’organismo: tra questi vi è appunto lo zinco, non dimentichiamolo.
Tra le principali fonti alimentari di zinco troviamo le ostriche, i cereali, il germe di grano, il fegato di vitello, il formaggio tipo grana, altri carni bovine, ovine e suine, i funghi, il cacao, le noci e il tuorlo d’uovo. E’ tuttavia bene tenere presente che i cibi che contengono fibre e fitati (Sali dell’acido fitico) come i cereali, proteine del latte (come la caseina) o elevate quantità di calcio, ne possono ridurre l’assorbimento da parte dell’organismo.

 

http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/1541-4337.12067/full

https://www.sciencedaily.com/releases/2014/07/140718114541.htm

30-04-2015

Alcuni studi suggeriscono che l’acetil-L-carnitina (ALC) può ritardare l’insorgenza della malattia di Alzheimer e della demenza, secondo quanto riportato nella Prescription for Dietary Wellness di Phyllis A. Balch. Inoltre, in caso di malattia già diagnosticata, ALC può contribuire a rallentare la sua progressione e migliorare il funzionamento mentale. Infatti, gli studi sperimentali e clinici dimostrano che ALC può avere una “significativa capacità di rallentare e perfino invertire, gli effetti dell’invecchiamento sul cervello”, scrive il dottor Russell Blaylock L. in Health and Nutrition Secrets. Ma esattamente, come funziona ALC? In Mind Boosters, il Dott. Ray Sahelia ritiene che i malati di Alzheimer possono trarre beneficio da ALC che è in grado di attraversare la barriera emato-encefalica, dove aiuta la formazione dell’acetilcolina, una sostanza chimica del cervello e aiuta a rigenerare i neuroni danneggiati dai radicali liberi. I risultati di numerosi studi di sostegno alla teoria del Dr. Sahelia, compresa l’analisi al microscopio elettronico della regione dell’ippocampo del cervello, hanno dimostrato la capacità di ALC di invertire il deterioramento legato all’età, dei mitocondri. Inoltre, secondo il professor Gary Null, diverse autopsie dimostrano che le persone affette da Alzheimer hanno sperimentato il 25-40 per cento in meno di ALC transferasi rispetto alle persone senza il morbo di Alzheimer. In altre parole, forse per questo, la supplementazione ALC è così vantaggiosa per i pazienti di Alzheimer che sono carenti di L-carnitina.
Naturalmente, i vantaggi della capacità di rigenerarsi del cervello, vanno ben oltre il morbo di Alzheimer e rendono ALC un trattamento promettente anche per i pazienti che hanno avuto l’ictus. Somministrato subito dopo l’ictus, ALC può effettivamente ridurre il livello di danno cerebrale causato dal flusso di sangue interrotto, secondo uno studio animale italiano riportato dal dottor Russell Blaylock L. in Health and Nutrition Secrets. Anche se non è possibile somministrare subito ALC ad un paziente colpito da ictus, si è verificato che la sua supplementazione aiuta il paziente nel recupero di varie abilità. Inoltre, ALC può anche essere utile nel trattamento della sindrome di Down, anche se si tratta di una malattia congenita, piuttosto che un danno dell’età o trauma-correlato. In uno studio di 90 giorni, l’integrazione di ALC ha migliorato sia la memoria visiva che l’attenzione di soggetti con Sindrome di Down. Se gli integratori ALC possono aiutare a normalizzare l’attività mentale di persone con danni neurologici o deterioramento, possono anche aumentare le capacità intellettuali di persone sane? Molti esperti hanno cercato di rispondere a questa domanda. In Mind Boosters, il Dr. Sahelia scrive: “L’acetil-L-carnitina è un antiossidante coinvolto nell’utilizzazione di energia all’interno delle cellule. Una dose di 500 mg al mattino prima della colazione, nel giro di due o tre ore può indurre chiarezza visiva e mentale. ALC migliora l’apprendimento spaziale, la memoria a lungo termine e l’apprendimento”.

 

https://www.naturalnews.com/015553_mental_health_Alzheimers.html#ixzz2FSlbH61Q

 

23-04-2015

Studi di laboratorio ed epidemiologici hanno indicato che gli acidi grassi omega-3 e colecalciferolo (vitamina D3) sono in grado di inibire la proliferazione di diverse cellule tumorali. In questo studio le cellule di epato-blastoma umano (HepG2) sono state trattate sia con vitamina D3 solamente, sia in combinazione con olio di pesce. I risultati hanno dimostrato che la proliferazione cellulare HepG2 è stata inibita mediante l’utilizzo di colecalciferolo e olio di pesce in modo dose-dipendente. Quando le cellule HepG2 sono state trattate con vitamina D3 in combinazione con olio di pesce, si è riscontrato che quest’ultimo ha aumentato l'effetto antiproliferativo della vitamina D3 sulla crescita delle cellule HepG2 rispetto al trattamento con l’utilizzo soltanto del colecalciferolo. In conclusione, la vitamina D3 potrebbe essere utilizzata per trattare il carcinoma epatocellulare (HCC). Tuttavia sappiamo che il principale effetto collaterale di alte dosi di questa vitamina è l’ipercalcemia, che ne limita l'utilizzo. Ma ora grazie a questo studio, è stato dimostrato che la vitamina D3 viene rafforzata dall’utilizzo contemporaneo dell’olio di pesce, pertanto, una minore concentrazione di colecalciferolo potrebbe essere utilizzato per trattare il carcinoma epatocellulare in presenza di acidi grassi omega-3 per ridurre il rischio di ipercalcemia causata da elevate concentrazioni di questa vitamina.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19667153

 

15-12-2014

I pazienti affetti da fibromialgia (FMS) hanno diffuso dolore cronico e stanchezza. Supplementi di vitamina D possono ridurre il dolore e possono essere una conveniente alternativa o aggiunta ad altri trattamenti, secondo i ricercatori. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PAIN. Oltre al dolore e alla fatica, gli individui con diagnosi di fibromialgia possono avere disturbi del sonno, rigidità mattutina, scarsa concentrazione e occasionalmente sintomi mentali da lievi a gravi, come ansia o depressione. La condizione può avere un impatto significativo sulla qualità della vita del paziente, con conseguente perdita di occupazione e/o ritiro dalla vita sociale. Non esiste una cura e nessun trattamento che affronta tutti i sintomi, ma alcuni di essi possono essere alleviati con la terapia fisica, terapia cognitivo-comportamentale, terapia farmacologica temporanea (come amitriptilina, duloxetina, o pregabaline) e terapie multimodali. Il Calcifediol (noto anche come calcidiolo, 25-idrossicolecalciferolo, o di 25-idrossivitamina D (OH) D) è un preormone prodotto nel fegato dall’enzima colecalciferolo (vitamina D3). Il Calcifediol viene quindi convertito in calcitriolo (1,25 – (OH) 2D3), che è la forma attiva della vitamina D. La concentrazione di calcifediol nel sangue è considerata il migliore indicatore dello stato della vitamina D.
I ricercatori hanno ipotizzato che la supplementazione di vitamina D potrebbe ridurre il grado di dolore cronico vissuto da pazienti affetti da fibromialgia, con bassi livelli di calcifediol e potrebbe anche migliorare altri sintomi. ”Bassi livelli ematici di calcifediol sono particolarmente comuni nei pazienti affetti da fibromialgia con dolore grave. Il ruolo del calcifediol nella percezione del dolore cronico è un argomento ampiamente discusso poichè manca una chiara evidenza del ruolo della supplementazione di vitamina D nei pazienti con fibromialgia“, dice il principale autore dello studio Florian Wepner, MD, del Dipartimento di Ortopedia gestione del dolore, a Vienna. “Abbiamo quindi deciso di stabilire se aumentando i livelli di Calcifediol in questi pazienti potrebbe alleviare il dolore e causare un generale miglioramento nei disturbi concomitanti”. In uno studio randomizzato controllato, 30 donne affette da fibromialgia con bassi livelli sierici di Calcifediol, sono state suddivise in un gruppo di trattamento e un gruppo di controllo. L’obiettivo per il gruppo di trattamento era quello di raggiungere i livelli sierici di Calcifediol tra 32 e 48ng/ml, durante 20 settimane, con integratori orali di colecalciferolo. Livelli di Calcifediol sono stati valutati dopo cinque e 13 settimane e la dose è stata rivista sulla base dei risultati. I livelli di Calcifediol sono stati misurati di nuovo, 25 settimane dopo l’inizio della supplementazione, dopo che il trattamento è stato interrotto, e dopo ulteriori 24 settimane senza supplementazione.
Dopo ventiquattro settimane senza supplementazione, una marcata riduzione del livello di dolore percepito si è verificata nel gruppo sottoposto a trattamento. Tra la prima e la venticinquesima settimana di supplementazione, il gruppo trattato è migliorato significativamente su una scala di controllo del funzionamento fisico, mentre il gruppo placebo è rimasto invariato. Il gruppo di trattamento ha anche registrato risultati migliori sull’Impact Questionnaire Fibromalgia (FIQ), per quanto riguarda la ” fatica del mattino”. Tuttavia, non ci sono stati cambiamenti significativi nella depressione o sintomi d'ansia. “Crediamo che i dati presentati in questo studio sono promettenti. Nella fibromialgia i sintomi sono molto vasti e complessi e non possono essere spiegati da una carenza di vitamina D, da sola. Tuttavia, la supplementazione di vitamina D può essere considerata come un trattamento sicuro e un’alternativa estremamente conveniente o aggiunta al trattamento farmacologico e terapie fisiche, comportamentali, e multimodali “, dice Wepner. “I livelli di vitamina D devono essere monitorati regolarmente nei pazienti FMS, soprattutto nella stagione invernale”.

 

https://www.elsevier.com/about/press-releases/research-and-journals/vitamin-d-supplements-reduce-pain-in-fibromyalgia-sufferers

 

25-12-2014

Una nuova ricerca ha dimostrato che il magnesio è importante per il corretto utilizzo della vitamina D nel corpo, aumentandone l’efficacia e proteggendo l’organismo da malattie cardiache e cancro al colon di quasi il 500% e dalla morte complessiva di oltre il 100%. Questo significa che tutti coloro che hanno livelli bassi di magnesio ottengono meno benefici dalla loro vitamina D rispetto a quanto si pensi. Tre principali enzimi responsabili dell'attivazione, stoccaggio e trasporto di vitamina D all’interno dell’organismo sono tutti dipendenti dal magnesio. Ciò significa che non importa quanta vitamina D si assume, perché il corpo non può correttamente utilizzarlo se siete carenti di magnesio. D'altra parte, un apporto elevato di magnesio aumenta i livelli di vitamina D nell’organismo. Un ampio studio americano ha appena dimostrato che gli adulti con un apporto di magnesio superiore a 420 mg al giorno avevano meno probabilità di essere carenti di vitamina D, rispetto a quelli con assunzioni inferiori del 66%. Inoltre, coloro che hanno preso almeno 100 mg al giorno di magnesio supplementare avevano un 70% in meno di rischio di essere carenti di vitamina D. Se il magnesio può migliorare lo status di vitamina D, può anche accrescere gli effetti benefici di questa vitamina? Le ultime ricerche hanno confermato la capacità del magnesio di aumentare l’efficacia della vitamina D apportando ulteriori benefici all’organismo.
I ricercatori hanno osservato più di 12.000 americani adulti per un periodo di 18 anni. Durante questo periodo, quelli con livelli elevati di vitamina D (> 40 ng/ml) avevano il 13% meno di probabilità di morire per qualsiasi causa se assumevano basse quantità di magnesio (264 mg/giorno), ma avevano il 30% meno di probabilità di morire se assumevano elevate quantità di magnesio (> 264 mg/giorno). In altre parole, un apporto di magnesio più elevato (quasi il doppio) aumentava l'effetto protettivo della vitamina D contro la morte da tutte le cause. Questo effetto era ancora più impressionante per quanto riguardava le malattie cardiache fatali. Quelli con elevati livelli di vitamina D, ma bassi livelli di magnesio avevano solo il 9% meno di rischio di morte per malattie cardiache. Ma quelli con livelli elevati di vitamina D e magnesio avevano una riduzione del rischio del 43%. Il magnesio ha già dimostrato in studi precedenti di ridurre fortemente il rischio di cancro al pancreas e al colon. Quest'ultima ricerca può spiegare il perché. Anche se non statisticamente significativo (a causa delle dimensioni molto ridotte del campione), una maggiore assunzione di magnesio ha potenziato l'effetto protettivo della vitamina D del 480% contro la mortalità da cancro del colon. In conclusione, se vogliamo aumentare i benefici della vitamina D, è necessario disporre di un apporto ottimale di magnesio, che, in questo nuovo studio, è definita intorno ai 420 mg al giorno.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23981518

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22854408

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22438075

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20022893

 

15-04-2016

Gli aminoacidi a catena ramificata (BCAA, Branched Chain Amino Acids) sono tre aminoacidi essenziali - isoleucina, valina, leucina - con importanti funzioni plastiche. Largamente utilizzati dal muscolo a scopo energetico, i BCAA rivestono un ruolo importante anche nel metabolismo muscolare in caso di attività fisica intensa. Assunti con gli alimenti e assorbiti dall'intestino, sono convogliati al fegato dove non subiscono trasformazioni metaboliche, dato che gli epatociti sono privi degli enzimi necessari ad avviare la loro metabolizzazione. In caso di esercizio muscolare, i BCAA vengono rilasciati dal fegato e trasportati tramite il sangue ai muscoli. Qui gli enzimi BCAA-aminotransferasi li trasformano in alfa chetoacidi che, ad opera del complesso BCKA-deidrogenasi, perdono il gruppo carbossilico e vengono convertiti in acetil-CoA e quindi in glucosio. Quest’ultimo processo può verificarsi sia nel muscolo (l’esercizio induce il potenziamento della BCKA-deidrogenasi, normalmente scarsa nel tessuto muscolare) che nel fegato. Sembra che la sensazione di fatica sia dovuta all'aumento della concentrazione di triptofano nel SNC. L’assunzione di BCAA prima di un impegno fisico intenso e protratto, può migliorare il rendimento grazie alla loro capacità di ostacolare il passaggio di triptofano nel cervello, attraverso un meccanismo di competizione nell'utilizzo di trasportatori di aminoacidi nella barriera emato-encefalica. Il ruolo dei BCAA prevede anche la capacità di contrastare il calo dei livelli di glutammina plasmatica essenziale per la stabilità del pH sanguigno, che si verifica durante uno sforzo intenso. Il ricorso a una loro regolare assunzione è indicato durante i periodi di allenamento intenso, per evitare il rischio di una sindrome da sovrallenamento.

ESERCIZI DI ENDURANCE E DI POTENZA

Recenti ricerche indicano che l'assunzione di BCAA contribuisce alla riduzione della fatica nel SNC durante esercizi a lungo termine. La teoria sulla "fatica centrale" (central fatigue hypothesis) formulata da Eric Newsholme, biochimico della Oxford University, ipotizza il ruolo dell'aumento della serotonina cerebrale (5-HT) nel deterioramento della performance sportiva. Sembra infatti che l'incremento delle concentrazioni di 5-HT cerebrali possa danneggiare le funzioni del SNC, portando a un affaticamento prematuro, caratterizzato da sonnolenza, malumore e difficoltà nel portare a termine l'allenamento. Secondo Newsholme, la teoria della "fatica centrale" presuppone che alti livelli di triptofano libero (fTRP) nel siero, associati a bassi livelli di aminoacidi ramificati (alto rapporto fTRP:BCAA), potrebbero essere elementi implicati nella causa dell'affaticamento durante esercizi di resistenza prolungata. Newsholme suggerisce che i livelli sierici di BCAA diminuiscono durante esercizi di resistenza, poichè vengono utilizzati per la produzione di energia. Questo fenomeno è stato evidenziato in particolare in attività aerobiche di lunga durata, ma anche in attività anaerobiche quale il tennis. La somministrazione di BCAA può essere indicata anche per aumentare l'intensità e la durata degli allenamenti.

PERFORMANCE MENTALI

La pratica sportiva spesso richiede allenamenti prolungati e ad alta intensità, durante i quali è necessario mantenere riflessi e prontezza mentale. In questi casi il rapporto fTRP:BCAA può aumentare, come documentato da Struder in uno studio su giocatori di tennis durante un torneo. Blomstrand ed altri, hanno dimostrato che la supplementazione di BCAA migliora le performance mentali nei giocatori di calcio dopo una partita e nei maratoneti dopo una gara. Lo sforzo psicologico, calcolato con la scala di Borg (RPE, Rating of Perceived Exertion), valuta la soglia di percezione di esaurimento fisico dell’atleta, in particolare le performance cognitive. Blomstrand riporta che la supplementazione di BCAA, rispetto al placebo, ha ridotto l’RPE e l’affaticamento mentale in ciclisti durante una gara di 60 minuti al 70% del VO2 max (corrispettiva percentuale di apporto di ossigeno massimo), seguito da altri 20 minuti di esercizio al massimo livello.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/14971434

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/9623632

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/8878139

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16365096

Sabato, 23 Settembre 2017 08:48

POCO FERRO NEL SANGUE? SI RISCHIA L'ICTUS.

20-12-2014

Che il ferro sia importante per molti processi vitali dell’organismo è fatto risaputo. Per esempio, questo minerale è necessario per il processo di sintesi dell’emoglobina, la proteina che trasporta l’ossigeno alle cellule. Ma è anche essenziale per la sintesi della mioglobina e del collagene. Da non ultimo, è fondamentale nei processi di respirazione cellulare e nel metabolismo degli acidi nucleici. Un aspetto di cui forse non tutti erano a conoscenza è che il ferro ha un coinvolgimento anche nei casi di ictus. Aspetto che è stato evidenziato da uno studio ad opera dei ricercatori dell’Imperial College di Londra in cui si afferma che la carenza di ferro può aumentare il rischio di ictus rendendo il sangue più viscoso. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista PLoS One, potrebbero in ultima analisi essere un reale mezzo di prevenzione per una condizione che colpisce ogni anno oltre 15 milioni di persone nel mondo. Di queste, circa 6 milioni non sopravvivono all’evento, mentre circa 5 milioni rimangono disabili in modo permanente.
Trai vari tipi di ictus, quello più comune è l’ictus ischemico: evento che si verifica quando l’afflusso di sangue al cervello viene interrotto da piccoli grumi che si formano all’interno dei vasi. Il sangue, divenuto pertanto viscoso a causa di diversi fattori è il responsabile dell’accadimento. Tra i vari fattori che possono rendere il sangue viscoso vi sarebbe dunque anche la carenza di ferro che è stato dimostrato per mezzo di diversi studi essere molto diffusa in tutto il mondo, con un incidenza su circa 2 miliardi di persone. Sebbene questa carenza fosse ritenuta un fattore di rischio di ictus ischemico sia negli adulti che nei bambini, gli scienziati non avevano ancora ben compreso il perché. Oggi, il team di ricercatori dell’Imperial ha scoperto che la carenza di ferro aumenta la viscosità di piccole cellule del sangue chiamate piastrine, che danno vita alla coagulazione del sangue quando si attaccano insieme. Anche se un legame tra carenza di ferro e piastrine collose è stato scoperto quasi 40 anni fa, il suo ruolo fino a ora era stato trascurato. Per metterci per così dire una pezza, i ricercatori hanno studiato un gruppo di 497 pazienti affetti da una malattia rara chiamata Teleangectasia Emorragica Ereditaria (HHT), che spesso causa una dilatazione dei vasi sanguigni nei polmoni, che si presentano simili a vene varicose. Ora, dato che di norma i vasi sanguigni dei polmoni agiscono come un filtro per rimuovere i piccoli coaguli di sangue prima che questo vada nelle arterie, accade che nei pazienti con vasi sanguigni polmonari anomali, il sangue sia in grado di bypassare il filtro portando gli eventuali coaguli fino al cervello. E qui avviene il patatrac.
I risultati dei test hanno permesso di scoprire che i pazienti con una carenza di ferro avevano anche maggiori probabilità di essere vittime di un ictus. Inoltre, i ricercatori hanno esaminato le piastrine in laboratorio scoprendo che quando venivano trattate con una sostanza che innesca la coagulazione, le piastrine delle persone con bassi livelli di ferro si raggruppavano in modo più rapido. «Poiché le piastrine nel sangue si legano di più insieme quanto maggiore è la carenza di ferro, pensiamo che questo possa spiegare perché essere a corto di ferro può portare all’ictus, anche se molta più ricerca sarà necessaria per dimostrare questo legame – spiega la dott.ssa Claire Shovlin del National Heart and Lung Institute all’Imperial College London –. Il prossimo passo è quello di verificare se siamo in grado di ridurre le probabilità di avere un ictus trattando la carenza di ferro dei pazienti ad alto rischio. Saremo in grado di osservare se le loro piastrine diventano meno appiccicose. Ci sono molti ulteriori passi da un coagulo che blocca un vaso sanguigno allo sviluppo finale dell’ictus, quindi non è ancora chiaro quanto siano importanti le piastrine viscose nel processo globale. Vogliamo certamente incoraggiare ulteriori studi per indagare su questo link». Teniamo dunque sotto controllo i nostri livelli di ferro nel sangue che, oltre a essere appunto importante per numerosi processi vitali, può essere una misura preventiva nei confronti dell’ictus che, comunque sia, non si sa mai.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24586400

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3929507/

 

23-09-2017

L’uso medicinale delle foglie d’olivo (Olea europaea) risale a migliaia di anni fa. Infatti, è la prima erba medicinale citata nella Bibbia (Ezechiele 47:12): “il frutto sarà alimento e la foglia medicina”. Esistono anche prove che le antiche civiltà egiziana e mediterranea hanno utilizzato le foglie per trattare varie problematiche di salute. Tradizionalmente, la pianta dell’olivo è stata usata come:

• Diuretico.
• Ipotesivo.
• Emolliente.
• Lassativo.
• Detergente della pelle.
• Nel trattamento delle infezioni urinarie.
• Calcoli della colecisti.
• Asma bronchiale.
• Diarrea.

La diverse parti della pianta d’olivo sono stati utilizzati dalla medicina naturale in tutto il mondo per:

- lo stomaco e le malattie intestinali;
- trattare le infezioni del tratto urinario;
- via orale come un antinfiammatorio.

I benefici cardiovascolari dell’oleuropeina non sono una novità. L’oleuropeina è stata isolata negli anni ‘50 da Panizzi e coll., che avevano stabilito che era uno dei princìpi primari responsabili del gusto amaro delle olive e delle foglie. Inoltre avevano determinato che l’oleuropeina era il principio attivo responsabile dell’azione ipotensiva dell’estratto delle foglie, fungendo da antiossidante e aiutando a rilassare e dilatare i vasi sanguigni. Ciò che quest’ultima ricerca aggiunge, tuttavia, è la conferma dell’efficacia di questo rimedio tradizionale e stabilisce un dosaggio efficace: 1.000 mg d’estratto al giorno. I partecipanti che assumevano la metà di quella quantità, ovvero 500 mg/die non hanno realizzato alcun calo notevole della loro pressione sanguigna. I dati epidemiologici ottenuti da altri studi clinici indicano che l’oleuropeina può anche svolgere un ruolo nella prevenzione delle malattie cardiovascolari limitando la formazione delle placche arteriose, inibendo l’ossidazione dell’LDL. Altri studi hanno indicato che gli estratti di foglie d’olivo possono anche possedere proprietà spasmolitiche, vasodilatatrici e antiaritmiche. Ma l'utilità dell’estratto di foglie di olivo non finisce qui. È stato anche dimostrato che può essere un potente agente antivirale ad ampio spettro, attivo contro tutti i virus testati, tra cui:

- Rhinovirus
- Mixovirus.
- Herpes simplex di tipo 1 e 2.
- Herpes zoster.
- Poliovirus (sierotipo 1, 2 e 3).
- Due ceppi di virus della leucemia.
- Numerosi ceppi di virus influenzali e para-influenzali.

Uno studio del 2005 pubblicato sulla rivista Antiviral Research dimostra che gli estratti di foglie d’olivo potrebbero essere utilizzati come un antivirale naturale sicuro ed efficace. Studi in vitro hanno dimostrato che l'estratto di foglie d’olivo è un agente antimicrobico efficace contro una varietà di agenti patogeni che causano infezioni intestinali o respiratorie, tra cui:

- Salmonella typhi;
- Vibrio;
- Stapholycoccus aureus, compresi i ceppi resistenti alla meticillina;
- Klebsiella pneumoniae
- Escherichia coli.

E, se tutto questo non bastasse, le foglie d’olivo hanno anche poteri antiossidanti, proprietà antinfiammatorie, antifungine e antidiabetiche, hanno un impatto positivo sulla tiroide e la capacità di inibire la crescita del cancro. La pressione alta è un problema serio che può uccidervi o mettervi in pericolo, e non dovrebbe essere ignorata. Di solito uccide le persone lentamente, nel corso del tempo, ma valori elevati di pressione arteriosa può sicuramente causare un ictus. Normalmente, la pressione alta scende abbastanza rapidamente e facilmente affrontando questi due fattori importanti:

- Eliminazione di cereali e zuccheri. Questo abbasserà i livelli di insulina e normalizzerà la pressione sanguigna in circa il 75 per cento delle persone.

- Attività fisica. Un'ora di esercizio fisico al giorno sembra essere un fattore importante per i benefici a lungo termine di chi soffre di pressione alta.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18729245

https://articles.mercola.com/sites/articles/archive/2008/09/25/olive-leaf-extract-lowers-blood-pressure.aspx

http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0166354205000677

20-12-2014

Bere acqua con una concentrazione relativamente elevata di magnesio protegge contro la frattura dell’anca, secondo i risultati di un nuovo studio. I ricercatori hanno studiato le variazioni nei livelli di calcio e magnesio nell’acqua potabile tra zone diverse, in quanto presumono che queste sostanze svolgono un ruolo nello sviluppo della resistenza dell’osso. Essi volevano verificare se ci fosse una correlazione tra le concentrazioni di magnesio e di calcio presenti nell’acqua potabile e l’incidenza di frattura dell’anca. I risultati dello studio indicano che il magnesio protegge contro frattura dell’anca sia gli uomini che le donne. I ricercatori non hanno trovato alcun effetto protettivo dalla presenza di calcio. Nessuno ha mai esaminato il rapporto tra calcio/magnesio e fratture dell’anca, in questo modo. “L’effetto protettivo del magnesio è stato sorprendente, ma la correlazione tra calcio e magnesio presenti nell’acqua e frattura dell’anca, è molto complessa. Quindi più ricerca è necessaria per ottenere un risultato più affidabile del rapporto tra acqua potabile e fratture dell’anca e per ottenere un quadro migliore del meccanismo biologico del corpo“, dice Cecilie Dahl.
Questo progetto è unico nel suo genere per due motivi: i ricercatori dell’Istituto norvegese di sanità pubblica hanno creato un registro di tutte le fratture dell’anca in Norvegia e una mappa che mostra la copertura delle varie aziende di servizi pubblici di acqua in Norvegia. I ricercatori hanno raccolto dati da tre fonti: un precedente progetto sull’acqua potabile in Norvegia (Trace Metals Project), il registro della popolazione nazionale con gli abitanti in Norvegia dal 1994 fino al 2000 e il registro delle fratture dell’anca in Norvegia. Questi dati sono stati collegati per avere una visione completa delle fratture dell’anca e le zone con più alte e più basse concentrazioni di calcio e magnesio nell’acqua. I ricercatori hanno seguito circa 700.000 uomini e donne e registrato circa 5.500 fratture dell’anca tra gli uomini e 13.600 fratture dell’anca nelle donne, in questo periodo.

 

http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S8756328213002354

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Nationwide+data+on+municipal+drinking+water+and+hip+fracture%3A

 

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