Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

13-11-2014

Quando si pensa a metalli pericolosi la nostra mente verte sempre verso il piombo o il mercurio. Poco però si è detto del tungsteno, metallo che secondo i ricercatori della Exeter University potrebbe aumentare; anzi, raddoppiare il potenziale rischio di ictus. A differenza di piombo e mercurio non è di certo un metallo che troviamo di frequente nelle tubature dell'acqua o negli alimenti, tuttavia sono molti gli oggetti di uso quotidiano che lo contengono. Per esempio, secondo gli scienziati, con l’aumento della tecnologia potrebbe essere in costante aumento anche l’utilizzo del tungsteno, che potrebbe causare danni alla maggior parte degli adulti di “domani”, considerando che già i bambini di “oggi” sono ormai quotidianamente a contatto con questo tipo di metallo. «Mentre attualmente l’esposizione umana al tungsteno è ancora molto bassa, è destinata ad aumentare – spiega la Dottoressa Jessica Tyrrell, autrice principale della ricerca – Non siamo ancora sicuri del perché alcuni membri della popolazione abbiano livelli più elevati di questo metallo. Un passo importante nella comprensione e prevenzione dei rischi che può comportare per la salute, sarà quello di comprendere il meccanismo con cui [il tungsteno] riesce a penetrare nei nostri corpi». Durante lo studio, pubblicato su PLoS One, sono stati analizzati i dati provenienti dal Nutrition Examination Survey, e riferiti a più di 8.500 partecipanti di età compresa tra i 18 e 74 anni. L’analisi è durata circa 12 anni.
Il fatto che il tungsteno sia associato all’ictus non è da sottovalutare se si considera che secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), è attualmente la seconda causa di morte nel mondo occidentale, successiva solo alle malattie cardiache. Ma non solo: è anche una delle principali cause di disabilità e perdita di memoria. Se tutto questo appare già spiacevole, il lato peggiore del problema è che il tungsteno è un fattore di rischio per le persone al di sotto dei 50 anni di età. Il pericolo quindi si presenta sia esponendo il proprio organismo a dosi più o meno elevate di tungsteno, sia quando lo stesso metallo viene erroneamente veicolato in particelle sottili in terreni agricoli adiacenti a industrie.
«Il rapporto tra tungsteno e ictus può essere solo la punta dell’iceberg. Ci sono molte nuove sostanze che si fanno strada nell’ambiente: stiamo accumulando un cocktail chimico complesso nei nostri corpi. Attualmente, nessuna ricerca ha chiarito come questi composti potrebbero interagire sulla la salute umana», conclude il dr. Nicholas Osborne, coautore della ricerca. Il tungsteno sembra trovarsi in particolar modo nei computer, telefoni cellulari, vecchie lampadine, gioielli e alcuni tipi di prodotti militari. Come spesso accade, la tecnologia – che da un lato può facilitare lo svolgimento della vita quotidiana – frequentemente viene elaborata in maniera distruttiva nei confronti dell’ambiente e dell’essere umano. Ci sarebbe quindi da chiedersi: la nostra, possiamo davvero considerarla evoluzione tecnologica?

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24244278

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3823878/

13-11-2014

Negli Stati Uniti d’America gli errori chirurgici costituiscono un vero e proprio affare per le cliniche. Lo dice un nuovo studio pubblicato sul Journal of American Medical Association (JAMA) che afferma, senza mezzi termini, che quando un intervento non va a buon fine, “gli ospedali triplicano i loro profitti”. Numeri alla mano, i nosocomi americani incasserebbero, secondo il report, un guadagno extra di 30.500 dollari, dovuti a prestazioni mediche legate a complicanze chirurgiche. Il dato agghiacciante è che molti errori chirurgici sarebbero potenzialmente prevenibili ma non si riesce a scongiurarli, sostiene il board dei medici che ha partecipato allo studio. “Alcuni chirurghi hanno amplificato i loro profitti fino a 44.000 dollari per paziente”, hanno riferito i ricercatori del Boston Consulting Group e Texas Health Resources, mentre Barry Rosenberg, co-autore dello studio e partner del Boston Consulting Group, non lesina critiche: “è scioccante, folle e perverso che gli ospedali vengano finanziariamente ricompensati nonostante danneggino i pazienti, mentre scarseggiano i premi per gli ospedali che lavorano duramente per migliorare la sicurezza del paziente e ridurre gli errori chirurgici”. Lo studio, che ha analizzato 34.256 procedure chirurgiche ospedaliere effettuate nel 2010 presso 12 ospedali gestiti da Texas Health Resources ha messo a nudo questa triste realtà. Tanto per avere un’idea, nel 1999, l’Istituto di Medicina ha pubblicato un rapporto affermando che gli errori ospedalieri uccidono quasi 100.000 americani all’anno. Da allora, nonostante più di un decennio di sforzi per migliorare la sicurezza del paziente, gli errori medici e le complicazioni sono effettivamente peggiorati.
Nel 2008, undici errori medici hanno provocato 895.936 morti, secondo un’analisi pubblicata dall’esperto Carolyn Dean. Nel complesso, si stima che 15 milioni di americani subiscano, ogni anno, un danno post chirurgico, secondo l’Istituto for Healthcare Improvement. Qual è allora la soluzione a questo disagio? Secondo la Texas Health Resources basterebbe un maggiore controllo sui pazienti che hanno subìto interventi chirurgici istruendo, magari, vere e proprie liste. Un’altra soluzione è data dal taglio delle premialità agli ospedali che hanno commesso errori chirurgici. Quando Medicare ha annunciato diversi anni fa che non avrebbe pagato le cure se i pazienti avessero sviluppato infezioni, problemi o danni conseguenti all’intervento chirurgico, gli episodi di infezioni, danni e problemi post operatori è sceso drasticamente. Questo fa capire che il sistema disincentivo-incentivo deve essere equilibrato e che bisogna, senza dubbio, premiare la sicurezza e bacchettare gli errori e le superficialità.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23592104

http://www.advisory.com/daily-briefing/2013/04/17/jama-study-surgeries-more-profitable-when-complications-arise

13-11-2014

Vi svegliate ogni mattina con l’odore del caffè che si espande per casa e con la vostra bella tazzina fumante pronta ad essere bevuta? Ebbene questa non sarebbe una sana abitudine, almeno a detta di un team di scienziati della Uniformed Services University of the Health Sciences, nel Maryland. I ricercatori, guidati dal neuro-scienziato Steven Miller, hanno valutato il diverso effetto che ha il caffè nell’arco della giornata in relazione ai livelli di cortisolo (popolarmente conosciuto come l’ormone dello stress) presenti nel corpo. A seconda che i livelli di questo ormone siano alti o bassi, gli effetti della caffeina sarebbero diversi: benefici o dannosi. Il momento migliore per bere caffè è, a detta dei ricercatori, a metà mattina, tra le 9:30 e le 11:30 o, più indicativamente, un paio d’ore dopo essersi svegliati. In questo momento della giornata si può godere maggiormente degli effetti benefici della caffeina, dato che i livelli di cortisolo sono bassi.
Al contrario appena alzati questo ormone sarebbe al suo picco, dovremmo quindi essere in grado di svegliarci senza bisogno di assumere nessuna sostanza. Bere del caffè in questa fase della giornata potrebbe non solo non servire affatto a svegliarci ma, nel peggiore dei casi, rischia di far assuefare l’organismo alla caffeina rendendoci “dipendenti” e quindi desiderosi di consumare di più questa bevanda o di ambire ad un gusto sempre più forte. Per lo stesso motivo è sconsigliato bere caffè all’ora di pranzo e tra le 17:30 e le 18:30. Lo stesso Miller però fa una precisazione importante: quelle date sono indicazioni di massima, c’è infatti da tenere ben presente che i livelli di cortisolo sono variabili da persona a persona e dunque anche gli orari in cui bere o non bere il caffè non sono in realtà uguali per tutti.

 

http://www.telegraph.co.uk/news/newstopics/howaboutthat/10430303/Best-time-to-drink-a-cup-of-coffee-10.30am.html

http://www.universityherald.com/articles/5427/20131107/drink-cup-strong-coffee-9-30am-11-30am-benefits.htm

Martedì, 11 Novembre 2014 08:50

L'ALCOL CI RENDE AGGRESSIVI: ECCO PERCHE'.

11-11-2014

Sull’alcol, come per altre forme di “droga”, il dibattito è sempre aperto. Se c’è chi sostiene che bere moderato può anche far bene, dall’altra parte c’è chi sostiene che l’alcol (o etanolo) fa sempre male – se lo si assume come bevanda. Per questo motivo, le cose non sono sempre chiare e i cittadini spesso non sanno bene quale sia il comportamento da adottare. In questi casi, il buonsenso dovrebbe comunque sempre prevalere. Se dunque assumere alcol è sempre un rischio, è evidente che questo rischio è in qualche modo dose-dipendente: qualche goccia – letteralmente – può essere tollerata e, magari avere anche qualche effetto terapeutico; un eccesso è sempre deleterio, sia per il fisico che per la mente. In quest’ultimo caso, è stato un nuovo studio tedesco ad aver indagato sugli effetti dell’alcol sul comportamento e sul perché, spesso, le persone diventano aggressive.
Lo studio, pubblicato su Deutsches Ärzteblatt, la rivista ufficiale della German Medical Association, è stato condotto dai ricercatori Anne Beck e Andreas Heinz del Department of Psychiatry and Psychotherapy, Charité – Universitätsmedizin Berlin. Gli autori hanno studiato le cause dei casi di aggressione alcol-correlati, analizzando i fattori sociali, psicologici e neurobiologici che contribuiscono al legame tra consumo di alcol e un aumento dell’aggressività. I dati raccolti nello studio riportano che nel 2011 quasi uno su tre atti violenti in Germania sono stati commessi sotto l’influenza dell’alcol (31,8%). Secondo gli scienziati il consumo di alcol riduce il controllo cognitivo e restringe la percezione: questi fattori possono portare a un aumento della propensione a comportamenti violenti in determinate situazioni. A concorrere poi in questo processo vi sono anche altri fattori come le aspettative personali circa l’effetto dell’alcol e una storia di precedenti scontri violenti. L’alcol agisce anche in maniera differente in uomini e donne, con i primi che sono più soggetti a tenere comportamenti violenti. I ricercatori ritengono che l’alcol nei maschi rafforzi la convinzione che la violenza e l’aggressione siano accettabili forme di interazione sociale. Altri fattori che incidono sulla propensione agli atti violenti, scatenati dall’influenza dell’alcol, sono le condizioni ambientali vissute nella prima infanzia, come per esempio la discriminazione e l’esclusione sociale. I ricercatori sottolineano tuttavia che solo una minoranza di persone che bevono alcol diventano aggressive. E, infine, che l’abuso di alcol e la dipendenza insieme costituiscono la seconda causa di suicidio più comunemente diagnosticata (15-43%). In definitiva, bere alcol non è una scelta vincente sia per gli effetti negativi sulla salute che sulla mente.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Alcohol-Related+Aggression%E2%80%94Social+and+Neurobiological+Factors

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3820993/

11-11-2014

Non solo noci, ma anche mandorle, nocciole, anacardi, pinoli, noci pecan e del Brasile, pistacchi ecc. Mangiare uno o più di questi tipi di frutta a guscio è risultato essere inversamente proporzionale al rischio di cancro al pancreas – indipendentemente dagli altri potenziali fattori di rischio. Buone notizie, dunque. Anche perché i mesi autunnali e invernali che coincidono con le feste natalizie sono in genere proprio quelli in cui aumenta il consumo di frutta secca e a guscio. Abbiamo perciò un motivo in più per portare in tavola questo genere di alimento che, tra le altre cose, è un ottimo aiuto nella prevenzione dell’ossidazione dell’organismo e delle malattie cardiovascolari – come suggerito da numerosi studi. Ma, di certo, l’azione preventiva sul rischio di cancro al pancreas ha il suo peso, dato che questo tipo di tumore ancora oggi è uno tra i più temibili, con la sua alta percentuale di mortalità.
Per questo studio i ricercatori del Dipartimento di Medicina, Brigham and Women’s Hospital e della Harvard Medical School di Boston hanno esaminato l’associazione tra il consumo di noci e il rischio di tumore del pancreas in 75.680 donne che facevano parte del “Nurses’ Health Study” (NHS), con nessuna precedente storia di cancro. L’analisi dei dati ha evidenziato come vi fosse una significativa riduzione del rischio di cancro del pancreas nelle donne che consumavano circa 28 g di frutta a guscio, due o più volte a settimana, rispetto a quelle che consumavano meno o per nulla frutta secca. «La riduzione del rischio – sottolinea il dottor Ying Bao, autore principale dello studio – era indipendente dai fattori di rischio stabiliti o presunti per il cancro del pancreas tra cui l’età, l’altezza, l’obesità, l’attività fisica, il fumo, il diabete e altri fattori dietetici».
A dispetto di coloro che ancora credono che le noci (inteso come la frutta secca in genere) fanno ingrassare, lo studio ha anche evidenziato che le donne che mangiavano maggiori quantità di frutta a guscio pesavano meno delle altre – per cui, anche se l’aumento di peso fa accrescere il rischio di cancro del pancreas, non è questo il caso. «Le donne del nostro studio di coorte che hanno consumato la maggior parte delle noci tendono a pesare di meno», conferma infatti il dott. Bao. E, oltre a ciò, una recente analisi riguardo questo studio di coorte, pubblicato online sul British Journal of Cancer, ha associato il consumo di noci a un rischio inferiore di aumento di peso e obesità. Mangiare frutta a guscio, infine, è stato associato a un ridotto rischio di diabete mellito, che è un noto fattore di rischio per il cancro del pancreas. Questa ulteriore conferma non fa altro che aggiungere peso al corpo di evidenze che la frutta a guscio fa bene, e non è soltanto buona da mangiare.

 

http://www.americanpistachios.org/about-apg/news/women%E2%80%99s-study-suggests-eating-tree-nuts-reduces-pancreatic-cancer-risk

11-11-2014

Camminare fa bene, ormai lo sappiamo. Spesso però non ce lo ricordiamo: in special modo quando cerchiamo di parcheggiare l’auto il più vicino possibile al posto in cui dobbiamo recarci, per poi magari restare seduti per quasi tutta la giornata lavorativa e poi, una volta a casa, sdraiarci sul divano a guardare la Tv. Insomma, alla fine della giornata di passi ne abbiamo fatti davvero pochi. Ma questi pochi passi possono portarci a grandi passi verso malattie gravi come quelle cardiovascolari e, infine, anche alla demenza. A ciò possiamo rimediare dedicando anche soltanto 20 minuti al giorno a muovere le gambe facendoci una bella camminata.
Questo semplice movimento, spiega il dottor Jay Van Gerpen, neurologo della Mayo Clinic a Jacksonville, può mettere in moto il flusso sanguigno che arriva al cervello promuovendo la salute di questo, prevenendo le malattie degenerative come Alzheimer e Parkinson e, infine, migliorandone i sintomi. Tutto questo, il dottor Van Gerpen e colleghi, lo stanno verificando di persona su un gruppo di pazienti affetti dalla malattia di Parkinson. L’intento è proprio quello di verificare se rimediando all’immobilizzazione dovuta alla malattia si possano avere effetti positivi sul cervello, evitando il declino mentale e muscolare. Camminare è una finestra sul cervello, sostiene Van Gerpen, che ricorda che camminare regolarmente aiuta non solo a preservare le funzioni del cervello nelle persone sane, ma protegge anche contro ulteriori danni causati dalla demenza e malattie come l’Alzheimer e il Parkinson. A questo proposito, il dott. Van Gerpen cita uno studio pubblicato su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) e condotto dai ricercatori dell’Università di Pittsburgh in cui si è scoperto che nei camminatori le dimensioni dell’ippocampo, la regione del cervello che controlla i nuovi ricordi, erano aumentate. Nello specifico, si è potuto rilevare un aumento del 2% del volume ippocampale dopo un anno di camminate di 40 minuti tre volte alla settimana che, volendo, diventano 20 minuti per 6 giorni a settimana. Lo studio ha coinvolto 120 adulti con un’età media di 66 anni, poi suddivisi a caso in due gruppi da 60. Tutti i partecipanti non avevano sviluppato la demenza. Gli appartenenti al primo gruppo sono stati avviati a un programma di stretching, mentre quelli del secondo gruppo a un programma di camminate. I risultati delle analisi comparate hanno permesso di rilevare un aumento del volume dell’ippocampo negli appartenenti al gruppo di camminatori, a differenza di quelli del gruppo stretching che non mostrava cambiamenti in questa regione del cervello. Di norma questa zona del cervello negli adulti si riduce dall’1% al 2% circa all’anno, aumentando il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer, fa notare Van Gerpen.
Una passeggiata quotidiana può dunque avere conseguenze positive per la demenza che, secondo Van Gerpen, si sta propagando a un tasso da epidemia. Tra gli altri, «la demenza è legata a obesità, ipertensione e diabete – sottolinea Van Gerpen – Tutte queste condizioni alterano il flusso di sangue al cervello. Quando il flusso di sangue in una grande vena del cervello si blocca, una persona subisce un ictus. Quando i piccoli vasi si bloccano, il tessuto cerebrale muore. E questo magari non si nota in quel momento». Camminare, conclude il neurologo, riduce il rischio di danni alle piccole vene o vasi, e in più ritarda la possibile comparsa di demenza, proteggendo le funzioni dell’organismo e del cervello. Insomma, camminare fa proprio bene.

 

http://medicalxpress.com/news/2013-11-daily-dementia.html

11-11-2014

I trattamenti tramite antipsicotici sono associati ad una riduzione del volume di materia grigia. Le immagini, a lungo attese, di 14 anni di risonanze magnetiche (MRI) risultanti dagli studi del dottor Nancy Andreasen su 211 pazienti, documentano un restringimento progressivo del volume di tessuto cerebrale nei pazienti a cui sono stati prescritti antipsicotici la prima volta che hanno sperimentato un episodio di psicosi. La scoperta, pubblicata su The Archives of General Psychiatry mostra un rapporto diretto di causa tra il dosaggio, la durata dell'esposizione agli antipsicotici e il restringimento del cervello:

• Ad una più lunga esposizione corrisponde un più piccolo volume del tessuto del cervello ed un aumento di volume del fluido cerebrospinale.

• Dopo aver controllato gli effetti di altri 3 fattori predittivi, un trattamento di maggiore intensità tramite un antipsicotico è stato associato con indicatori di una riduzione generalizzata e specifica dei tessuti del cervello.

• Un trattamento antipsicotico continuato è stato associato a volumi inferiori di materia grigia. La diminuzione progressiva del volume di materia bianca era più evidente nei i pazienti che hanno ricevuto più trattamenti con antipsicotici.

La scoperta conferma gli studi sugli animali:

• "La plausibilità che un trattamento antipsicotico a lungo termine abbia una conseguente riduzione del volume generale cerebrale è ulteriormente convalidata da recenti studi controllati sui macachi".

• "Questi risultati sono coerenti con i precedenti studi MRI che suggeriscono che gli antipsicotici producono cambiamenti nel cervello umano, misurabili con tecniche di neuroimaging dal vivo".

Il meccanismo con cui questi farmaci causano danni al cervello, è stato spiegato da Dott. Andreasen in un'intervista al The New York Times:

• "questi farmaci bloccano l'attività di base dei gangli (formazioni nervose). La corteccia prefrontale non riceve l'input di cui ha bisogno e viene arrestata dai farmaci. Ciò riduce i sintomi psicotici. E provoca anche una lenta atrofia della corteccia prefrontale".

• "Un'altra cosa che abbiamo scoperto è che più sono i farmaci che vengono somministrati e più si perdono i tessuti cerebrali".

 

http://www.psychologytoday.com/blog/mad-in-america/201102/andreasen-drops-bombshell-antipsychotics-shrink-the-brain

11-11-2014

Il rischio rappresentato da alcuni antidepressivi fra i più popolari nei primi mesi di gravidanza non è da sottovalutare, ha avvertito un esperto. Il Professor Stephen Pilling ha infatti dichiarato di aver rilevato delle evidenze che suggeriscono che i farmaci antidepressivi possono raddoppiare il rischio di nascite con difetti cardiaci. I farmaci antidepressivi vengono usati da una donna su sei in età fertile. I produttori, ovviamente, negano ogni legame con le malformazioni fetali. Il Professor Stephen Pilling ha parlato di otto mamme che hanno avuto bambini con gravi difetti cardiaci dopo l’assunzione di un antidepressivo comunemente usato (inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina), durante la gravidanza. Attualmente, le linee guida di prescrizione mettono in guardia in particolare contro la paroxetina, all’inizio della gravidanza, ma il ricercatore dell’Istituto Nazionale per la Salute e la Cura (NICE), suggerisce che il consiglio d’uso sta per essere aggiornato. “I dati disponibili indicano che vi è un rischio associato agli antidepressivi: facciamo un bel pò di fatica a scoraggiare le donne dal fumare o dal bere anche piccole quantità di alcol in gravidanza, eppure non possiamo ancora dire la stessa dei farmaci antidepressivi, che portano rischi simili, se non maggiori”, ha dichiarato. Quando Anna Wilson, una donna di Ayrshire, ha eseguito la consueta ecografia alla ventesima settimana, i medici hanno capito che suo figlio aveva avuto un serio problema di cuore e avrebbe avuto bisogno di cardiochirurgia immediata alla nascita. Il piccolo David Wilson avrà bisogno di un ulteriore intervento chirurgico prima dell’età scolare. Ora, a soli otto mesi, David è già stato collegato alle macchine per le prime cinque settimane della sua vita; avrà bisogno di più interventi chirurgici a cuore aperto prima che inizi la scuola e i medici sostengono che comunque non potrà vivere oltre i 40 anni. “Ha un sacco di sofferenza davanti a lui“, ha detto la madre. “Sappiamo che è una certezza e questo è terribile“. Quattro anni prima di rimanere incinta, alla signora Wilson è stato prescritto il Citalopram dal suo medico di famiglia, perché soffriva di ansia. Il suo medico le ha detto che andava bene continuare a utilizzare il farmaco anche se stava cercando di avere un bambino, ma dopo la nascita di David si sarà chiesto che cosa potrebbe aver causato la sua patologia cardiaca? “Abbiamo fatto incontrare i genitori con un cardiologo presso uno degli appuntamenti per l’ecografia ed egli ha spiegato che, per quanto ne sapeva, non c’erano fattori ambientali coinvolti e non poteva essere evitato“, ha aggiunto la madre.
Il Prof. Pilling è certo che la guida all’uso di alcuni farmaci antidepressivi sarà ora riscritta e prenderà in considerazione la prova che gli antidepressivi SSRI (inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina), come gruppo, sono legati ai difetti cardiaci. Il rischio di ogni bambino di nascere con un difetto cardiaco è di circa di 2 su 100, ma l’evidenza suggerisce che se la madre li ha assunti in gravidanza il rischio aumenta a circa 4 su 100. Il Professor Stephen Pilling ha commentato: “Non credo che questo valga la pena di assumersi il rischio“. Tra l’altro, il ricercatore sostiene fermamente che le donne non soffrono di depressione più grave se sono in gravidanza e, per questo motivo, con il farmaco stanno assumendo anche un rischio inutile. “Per le donne che soffrono di depressione da lieve a moderatamente depresso, tali rischi, nella maggior parte dei casi, sono davvero inutili“, ha aggiunto. “Non solo quando una donna è incinta c’è questo rischio: penso debba essere pensato anche per una donna che potrebbe rimanere incinta. Ed ecco che si parla della grande maggioranza di età compresa tra 15 e 45 anni“. La Signora Wilson non potrà mai sapere con certezza che cosa ha causato il difetto cardiaco di David, ma ha dichiarato che se avesse saputo che c’era anche un piccolo rischio associato al farmaco, avrebbe smesso di prenderlo. “Se la patologia di David fosse stata evitabile e non è stato impedito, è davvero, davvero terribile. Se qualcuno mi avesse dato la possibilità di scelta, in gravidanza, e non avesse minimizzato il pericolo, avrei smesso di prendere quelle medicine in un lampo”. La Lundbeck, azienda produttrice del Citalopram, in una recente revisione della documentazione scientifica ha concluso che il farmaco “non sembra essere associato ad un maggiore rischio di malformazioni fetali e la decisione di non prescrivere antidepressivi a una donna depressa può generare maggiori rischi rispetto all’esposizione al farmaco del suo feto“.

 

http://www.bbc.com/news/health-23005367

http://www.dailyrecord.co.uk/lifestyle/health-fitness/could-taking-anti-depressants-early-pregnancy-2019979

Martedì, 11 Novembre 2014 08:39

L'ASPARTAME CAUSA IL CANCRO.

11-11-2014

Lo sapevi che una lattina di una qualsiasi bibita al giorno aumenta il rischio di leucemia, mieloma multiplo e linfomi non-Hodgkin? Secondo i nuovi risultati, del più importante studio sul potenziale cancerogeno dell’aspartame nell’uomo, una soda al giorno può aumentare il rischio di leucemia negli uomini e nelle donne e di mieloma e di linfoma non-Hodgkin negli uomini. È importante sottolineare che questo è lo studio più completo, a lungo termine, mai realizzato su questo argomento, nel senso che ha un peso considerevole rispetto alle precedenti ricerche le quali non sembravano mostrare alcun rischio. Per questo studio, i ricercatori hanno analizzato i dati del Nurses’ Health Study e dell’Health Professionals Follow-Up Study per un periodo di 22 anni. Sono stati studiati un totale di 77.218 donne e 47.810 uomini. Oltre alla vastità, ciò che rende questo studio superiore ad altri rapporti precedenti è l’accuratezza con cui è stata valutata l’assunzione di aspartame. Ogni due anni, i partecipanti ricevevano un dettagliato questionario alimentare e la loro dieta veniva rivalutata ogni quattro anni. I precedenti studi i quali non hanno trovato alcun legame con il cancro registrarono l’assunzione di aspartame solo in un determinato periodo di tempo, un errore molto grave in termini di precisione. I risultati combinati di questo nuovo studio hanno dimostrato che una sola lattina da 330 ml di una bevanda diet al giorno comporta:

• Un rischio di contrarre la leucemia del 42% superiore negli uomini e nelle donne (analisi combinata).

• Un rischio di contrarre il mieloma multiplo del 102% superiore (solo negli uomini).

• Un rischio di contrarre il linfoma non-Hodgkin del 31% superiore (solo negli uomini).

Questi risultati sono basati su modelli multivariabili di rischio relativo, il tutto rapportato a partecipanti che non bevevano diet soda. Non si sa come mai, solo gli uomini che bevevano una maggiore quantità di soda mostrassero un aumento del rischio di mieloma multiplo e linfoma non-Hodgkin. La maggior parte delle ricerche precedenti, le quali non mostrarono alcun legame tra aspartame e cancro sono state criticate per esser state troppo brevi e troppo imprecise nella valutazione a lungo termine. Il fatto che si dimostra un legame positivo con il cancro non dovrebbe essere una sorpresa, perché in uno studio precedente, effettuato su animali (900 ratti per tutta la loro vita) mostrò risultati molto simili: l’aspartame aumentò esponenzialmente il rischio di linfomi e leucemia sia nei maschi che nelle femmine. Vi è ora, più che mai, la ragione di evitare completamente l’aspartame nella vostra dieta quotidiana. Per coloro che vorrebbero tornare a bere le “salutari” bibite zuccherate, questo studio ha qualcos’altro da dirvi: gli uomini che consumano una o più bibite zuccherate al giorno aumentano del 66% il rischio di beccarsi un linfoma non-Hodgkin.

 

http://healthyposts.wordpress.com/2013/02/14/aspartame-linked-to-leukemia-lymphoma-in-groundbreaking-study/

11-11-2014

Secondo la Mayo Clinic, l’eccessivo consumo di alcol e l’uso frequente di alcuni antidolorifici, se combinati, può portare a danni renali e disfunzione renale acuta. I ricercatori dell’Università del Texas hanno voluto determinare se un basso o moderato uso di antidolorifici e il consumo di alcol può avere effetti sui reni. Per il loro studio, i ricercatori hanno analizzato i dati del 2003-2004 del National Health and Nutrition Examination Survey, che ha coinvolto più di 10.000 partecipanti. Il sondaggio ha chiesto ai partecipanti informazioni circa il loro consumo di alcol, le condizioni di salute e l’uso di paracetamolo(il Paracetamolo è comunemente usato per ridurre il dolore in molte condizioni, quali mal di testa, dolori muscolari e artrite. Viene anche usato per ridurre la febbre). I risultati hanno rivelato che il 2,6% dei 10.000 partecipanti ha riferito di fare uso di moderate quantità di alcol in combinazione con il paracetamolo. Di questi partecipanti, l’1,2% ha riportato disfunzioni renali. L’utilizzo di paracetamolo e basso consumo di alcol non sono stati considerati come singoli fattori di rischio per danno renale. Ma insieme, i ricercatori hanno trovato che hanno causato un aumento del rischio del 123%. “Anche se individualmente non può essere dannoso assumere dosi terapeutiche di paracetamolo e una quantità moderata di alcol, la loro combinazione può essere potenzialmente pericolosa”, fanno notare i ricercatori. Harrison Ndetan, della Parker University e ricercatore principale dello studio, sostiene che questi risultati sono particolarmente preoccupanti per i giovani adulti: “Il dolore è il sintomo più comune tra le persone ed è anche più di frequente auto-trattato con paracetamolo”. I ricercatori fanno notare che i medici che curano i pazienti che sono propensi a usare il paracetamolo per il trattamento del dolore, dovrebbero avvertirli dei rischi potenziali.

 

http://consumer.healthday.com/diseases-and-conditions-information-37/misc-kidney-problem-news-432/tylenol-alcohol-a-bad-mix-says-study-681768.html

http://foundationformenshealth.org/reuters/article.cfm?article=20131119epid002&cat=epid

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