Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

01-11-2014

La cannella è nota per il suo utilizzo quale aromatizzante in cucina, ma nasconde un aspetto di sé che potrebbe rivelarsi utile per le donne che soffrono della Sindrome dell’Ovaio Policistico, o PCOS, e che di norma hanno anche problemi di fertilità. A suggerire di poter sfruttare l’azione regolarizzante il ciclo mestruale della cannella è un piccolo studio preliminare condotto dai ricercatori del Columbia University Medical Center di New York, in cui si mostra come un gruppo di donne affette da PCOS che aveva assunto degli integratori di cannella abbia ottenuto quasi il doppio di cicli mestruali regolari, rispetto alle donne che hanno assunto un placebo. Oltre a ciò, le donne che avevano assunto l’integratore a base di cannella, hanno riferito di gravidanze spontanee durante il periodo di follow-up. «C’è molto interesse circa i rimedi naturali per questa condizione – spiega il dottor Daniel Kort, principale autore dello studio – Questo può essere un qualcosa che possiamo fare con una sostanza del tutto naturale che può aiutare un grande numero di pazienti». La sindrome dell’ovaio policistico colpisce dal 5% al 10% delle donne in età fertile e si ritiene che tra le cause vi possa essere una insensibilità all’insulina. Tra i sintomi più evidenti vi è un’irregolarità del ciclo mestruale e una spesso conseguente infertilità; manifestazioni di acne, un diradamento dei capelli con, per contro, un aumento della presenza di peli sul viso o sul corpo. Allo stato attuale il trattamento della PCOS avviene per mezzo di farmaci – tra cui quelli per il diabete – la dieta, e trattamenti naturali come l’omeopatia.
Lo studio ha visto il coinvolgimento di un gruppo di donne affette da PCOS, poi suddivise a caso a ricevere rispettivamente o 1.500 mg di un integratore a base di cannella o un placebo. Nello specifico, le donne che hanno completato il processo erano 16 per il gruppo “cannella” e 5 per il gruppo “placebo”. Dopo 6 mesi di test, le donne che avevano assunto la cannella mostravano un miglioramento significativo nella regolarità e nel tempo del ciclo mestruale, con una media di quasi quattro periodi mestruali, rispetto al gruppo di controllo. Due donne del gruppo cannella hanno poi riferito gravidanze spontanee dopo tre mesi di trattamento, ossia sono rimaste incinte senza ulteriori aiuti. «La sindrome dell’ovaio policistico è una delle cause più comuni per cui le donne non hanno cicli mestruali regolari – sottolinea Kort – Ma le conseguenze cliniche più avanti nella vita sono veramente grandi: da un aumento del rischio di diabete e intolleranza al glucosio al cancro dell’endometrio. Molte donne possono andare avanti tutta la vita senza cicli mestruali regolari, e non si preoccupano necessariamente di questo fino a che non vogliono avere bambini». I ricercatori fanno notare che non è ancora chiaro il perché esattamente la cannella può funzionare nel regolare i cicli mestruali nelle donne con PCOS, ma si sa che questa spezie può migliorare la capacità del corpo di elaborare il glucosio e l’insulina. A supporto di ciò è un precedente studio che mostra come la cannella riduca la resistenza all’insulina nei pazienti diabetici. Altra nota è che, sebbene si sia dimostrato che l’assunzione della cannella agisce sul ciclo mestruale e favorisce la fertilità, non si è dimostrato un rapporto di causa/effetto. Al di là di ciò, tuttavia, il trattamento con la cannella è molto economico e di facile messa in pratica, in più non sortisce effetti collaterali degni di nota.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24813595

01-11-2014

Un team di ricercatori americani ha scoperto che un composto anticancro presente in verdure crocifere come cavoli, cavolfiori e broccoli, protegge i roditori da dosi letali di radiazioni. Il composto, chiamato 3,3-di-indolilmetano e conosciuto più semplicemente come “DIM”, ha già dimostrato di essere sicuro negli esseri umani. I ricercatori hanno pensato di utilizzarlo come scudo per proteggere i tessuti sani dei pazienti affetti da cancro, dai danni da radioterapia o ridurre gli effetti collaterali. La squadra, della Georgetown University Medical Center (GUMC) a Washington, riporta le sue conclusioni nel nuovo numero online della rivista Proceedings of National Academy of Sciences (PNAS). Uno dei ricercatori, Eliot Rosen, professore di oncologia, biochimica e biologia cellulare e molecolare alla Georgetown Comprehensive Cancer Center, dice: Il “DIM è stato studiato come agente di prevenzione del cancro per anni, ma questa è la prima indicazione che il DIM può anche agire come un protettore dalle radiazioni”.
Per lo studio, il team ha esposto i ratti a dosi letali di raggi gamma e poi ha trattato alcuni di loro con una iniezione giornaliera di DIM per 2 settimane, mentre gli altri non sono stati trattati. Il Prof. Rosen, che descrive i risultati come “sensazionali”, dice: “Tutti i ratti non trattati sono morti, ma ben oltre la metà degli animali DIM-trattati sono rimasti vivi 30 giorni dopo l’esposizione alle radiazioni”. La squadra ha testato il trattamento anche sui topi, con gli stessi risultati. Inoltre, ha trovato che i topi trattati hanno mostrato una minore perdita di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine nel sangue, che sono tipici effetti collaterali nei pazienti oncologici trattati con la radioterapia.
I risultati suggeriscono che il DIM potrebbe avere due usi: può proteggere i tessuti sani in malati di cancro sottoposti a radioterapia e potrebbe anche offrire protezione in caso di un disastro nucleare. I ricercatori hanno anche scoperto che non aveva importanza se il trattamento era iniziato 24 ore prima o 24 ore dopo l’esposizione alle radiazioni, in quanto l’effetto protettivo di DIM era lo stesso. La Georgetown University ha depositato un brevetto per l’utilizzo di composti DIM e DIM-correlati, per la protezione dalle radiazioni. Nel 2006, il Prof. Rosen e il suo team hanno pubblicato uno studio in cui mostrano che un altro composto trovato in verdure crocifere, chiamato I3C, migliora la riparazione del DNA nelle cellule e impedisce alle cellule di diventare cancerose.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24127581

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3831962/

30-10-2014

Siete tra quelli che non riescono a fare a meno di uno dei biscotti più noti al mondo? Grazie allo studio di un gruppo di neuroscienziati del Connecticut College (New London – USA), ora è dimostrato (almeno sui topi di laboratorio), come il biscotto Oreo sembrerebbe dare dipendenza quanto una droga. I ricercatori hanno testato gli effetti dei famosi biscotti al cioccolato e alla crema al latte sui ratti con risultati sorprendenti: secondo quanto riferisce il Daily Mail, gli Oreo colpiscono le stesse zone del piacere cerebrali della cocaina, creando lo stesso effetto di assuefazione. I topi, dopo averli provati, continuano a desiderarli nello stesso modo in cui fanno altre cavie dopo aver ricevuto una dose di cocaina. Ma questo potrebbe valere anche per molte altre tipologie di alimenti. Secondo il neuroscienziato Joseph Schroeder “la ricerca sostiene la teoria che gli alimenti ricchi di grassi e zuccheri stimolano il cervello nello stesso modo in cui fa la droga”. E se pensate che siete gli unici a preferire la crema al latte interna al biscotto Oreo, vi sbagliate: nello studio è infatti emerso che anche i ratti preferiscono mangiare prima la crema al latte interna, rispetto ai due biscotti al cioccolato in cui è racchiusa.

 

http://www.dailymail.co.uk/news/article-2462624/Oreos-addictive-cocaine-Connecticut-College-scientists.html

30-10-2014

Cellulari e rischi per la salute, argomento delicato e ancora non del tutto chiarito dalla scienza ufficiale che non ha ancora preso una posizione univoca. Intanto, arriva una nuova conferma a sostegno della pericolosità dell’inquinamento elettromagnetico per la salute umana. Una ricerca condotta dalla Sackler Faculty of Medicine dell’Università di Tel Aviv ha riscontrato infatti una connessione tra l’utilizzo dei telefonini e l’aumento del rischio di ammalarsi di cancro. “Quando un mio amico, un giorno, mi ha segnalato come sul libretto d’istruzioni del mio cellulare c’era scritto di tenerlo a un centimetro e mezzo dal corpo, non ci volevo credere. Sono andato a controllare ed ho visto che era effettivamente così. Da lì la curiosità ha preso il sopravvento ed ho cominciato a verificare se era una precauzione che riguardava esclusivamente il mio cellulare o se era un problema diffuso. Ho scoperto che, per esempio, modelli di smartphone appetibili e presenti sul mercato, avevano stampato sul libretto di istruzioni di tenerli addirittura a due centimetri e mezzo dal corpo. Per avere un’idea di quanti siano due centimetri e mezzo, vi dico che corrispondono alla costola del mio libro che è di 350 pagine. Chiaramente nessuno sano di mente terrebbe il proprio cellulare a questa distanza e il problema è proprio che nessuno lo fa e, cosa più importante, nessuno lo sa”! Queste le parole di Riccardo Staglianò, giornalista di Repubblica e autore di Toglietevelo dalla testa, quando venne intervistato da “Il Cambiamento” su questo libro inchiesta riguardante gli effetti nocivi dei telefonini.
Oggi abbiamo una nuova conferma: i telefonini rischiano di aumentare l’incidenza del cancro. Questo risultato è frutto di una ricerca sviluppata dalla Sackler Faculty of Medicine dell’Università di Tel Aviv e condotta da Yaniv Hamzany. Le analisi sono state finalizzate a cercare nella saliva degli utenti indizi che collegassero l’uso frequente dei telefonini allo sviluppo maggiore di tumori. Il ragionamento che è stato fatto è: dal momento che quando parliamo al cellulare, posizioniamo l’apparecchio vicino all’orecchio (e quindi vicino alla ghiandola salivare) è possibile che la saliva “registri” un aumento dell’insorgenza del cancro. Dalle rilevazioni effettuate, si è potuto verificare come la saliva dei soggetti che utilizzano spesso il telefonino, mostra segnali di maggiore stress ossidativo rispetto alla saliva dei soggetti che lo utilizzano molto di meno. Lo stress ossidativo è un processo che danneggia tutti gli aspetti di una cellula umana – DNA compreso – mediante lo sviluppo di tossici radicali perossidi ed è considerato uno dei maggiori fattori di rischio per il cancro. I risultati della ricerca sono stati diffusi su Antioxidants and Redox Signaling.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Yaniv+Hamzany+Antioxidants+and+Redox+Signaling

30-10-2014

Utilizzare prodotti contenenti ftalati, come oggetti in plastica, ma anche profumi e cosmetici comunemente in commercio, aumenta la possibilità di sviluppare il diabete di tipo 2. Anche con quantità minime. E il rischio aumenta notevolmente con l'avanzare dell'età. A rivelarlo è uno studio pubblicato sulla rivista scientifica "Diabetes Care", condotto da alcuni ricercatori svedesi dell'Università di Uppsala su un campione di oltre 1.000 persone di un'età pari o superiore ai 70 anni, in cui si evidenzia come quantità anche minime di queste sostanze nel sangue possano in realtà provocare danni seri all'organismo umano. Che gli ftalati presenti in molti prodotti di uso quotidiano – come profumi, oli e cosmetici di vario tipo - non fossero proprio un toccasana per la nostra salute era cosa risaputa, ma oggi il problema si complica, perché riguarda una malattia potenzialmente pericolosa come il diabete. "Gli ftalati – come si legge sul sito italiano del Centro Italiano d'Informazione sugli Ftalati dedicato proprio a questi componenti - sono sostanze chimiche organiche prodotte dal petrolio e sono i plastificanti più comuni al mondo. Sono una famiglia di sostanze chimiche usate da oltre 50 anni, principalmente per rendere morbido e flessibile il cloruro di polivinile (PVC). Benché i vari tipi utilizzati oggi abbiano delle similitudini strutturali, ognuno ha prestazioni diverse. Gli ftalati hanno l'aspetto di un olio vegetale chiaro e hanno poco o nessun odore".
Ma c'è di più: "Non tutti gli ftalati sono utilizzati come plastificanti per il PVC. Alcuni di essi impediscono allo smalto per unghie di sfaldarsi, consentono al profumo di durare più a lungo o rendono più forti e più resistenti alla rottura le impugnature degli attrezzi. Altri aiutano gli adesivi, i sigillanti, i pigmenti delle vernici e molti altri materiali a svolgere meglio la propria funzione". Insomma, gli ftalati sono praticamente ovunque! La dottoressa Monica Lind, professore associato di medicina ambientale presso la Sezione di Medicina del Lavoro e Ambientale dell'Università di Uppsala, con il professore di medicina Lars Lind, ha condotto una serie di esami sui livelli di glicemia e insulina dei pazienti in diversi momenti della giornata, per rintracciare eventuali tossine ambientali, incluse le sostanze che si formano quando il corpo entra in contatto con gli ftalati. Risultato? I ricercatori hanno scoperto una stretta connessione tra la presenza ematica di alcuni ftalati e una maggiore prevalenza di diabete di tipo 2. E questo è stato confermato anche dopo la regolarizzazione di alcuni fattori che avrebbero potuto sfalsare il risultato, come l'obesità, i grassi nel sangue, il vizio del fumo e l'esercizio fisico. Ma non è tutto, perché – secondo quanto emerso dallo studio - le persone che mostravano elevati livelli di queste sostanze nel sangue registravano un rischio doppio di sviluppare il diabete di tipo 2, rispetto a coloro che avevano livelli più bassi di ftalati. "Nonostante i nostri risultati devono essere confermati da altri studi, supportano l'ipotesi che alcune sostanze chimiche ambientali possono contribuire allo sviluppo del diabete – ha commentato la dottoressa Lind nel comunicato UU – Tuttavia, per scoprire se gli ftalati sono veramente fattori di rischio per il diabete, sono necessari ulteriori studi che mostrano associazioni analoghe. Oggi, oltre il presente studio, c'è solo un piccolo studio su donne messicane. Ma altri studi sperimentali sono necessari per osservare quali meccanismi biologici sono alla base di queste connessioni". Insomma, alcune cose andranno senz'altro confermate da altri studi, ma nel dubbio è meglio evitare gli ftalati e acquistare prodotti privi di sostanze derivanti dal petrolio!

 

http://www.dailystar.co.uk/news/latest-news/344702/Bedroom-powers-boosted-by-a-chocolate-nibble

http://elitedaily.com/women/chocolate-boosts-mens-sexual-performance-for-up-to-six-hours/

30-10-2014

L’idea di buttare giù una qualche pillola per aumentare le prestazioni sessuali non vi alletta? Bene, se invece vi alletta di più assaporare un buon pezzo di cioccolato fondente può essere che si possa esserne soddisfatti allo stesso modo. Secondo uno studio durato sette anni, e commissionato da una azienda produttrice di cioccolato, la belga “Acticoa”, mangiare cioccolato fondente può davvero favorire le prestazioni sessuali maschili (e non solo maschili, ovviamente) grazie all’azione benefica sull’elasticità e l’afflusso di sangue nelle aree vitali dovuta gli antiossidanti contenuti nel cacao. I risultati di questo studio, condotto in nove Paesi, sono stati presentati dall’azienda stessa all’Annual Chocs Industry conference tenutasi presso la British Library. I dati acquisiti dai ricercatori mostrerebbero che l’effetto benefico sull’afflusso di sangue anche nelle zone genitali durerebbe da un minimo di 6 ore, fino a otto ore: un pò come farebbe una pillola per i problemi di erezione. «Abbiamo trovato che mangiando dieci grammi di cioccolato fondente si produce un significativo effetto positivo – spiega al Daily Star la portavoce dell’azienda, Leen Allegaert – e dopo l’assunzione di flavanoli vi è un aumento del flusso sanguigno alle vene che dura da sei a otto ore, con prestazioni di picco di due ore». Infine, secondo i ricercatori, le sostanze antiossidanti contenute nel cacao possono portare miglioramenti a favore dell’apparato circolatorio dell’8%: il che si traduce in potenziali migliori prestazioni anche in camera da letto.

 

http://www.dailystar.co.uk/news/latest-news/344702/Bedroom-powers-boosted-by-a-chocolate-nibble

http://elitedaily.com/women/chocolate-boosts-mens-sexual-performance-for-up-to-six-hours/

30-10-2014

I ricercatori della Mayo Clinic di Rochester (Usa) hanno presentato al Meeting annuale dell’American College of Gastroenterology di San Diego, un largo studio in cui suggerisce che soffrire di una malattia infiammatoria dell’intestino aumenta in modo significativo il rischio di essere vittime di un infarto e ictus. Il prof. Siddharth Singh e colleghi della Mayo hanno analizzato i dati relativi a più di 150 mila casi di malattia infiammatoria dell’intestino (IBD) relativi a 9 studi, scoprendo che le persone con questo tipo di problemi avevano un aumentato rischio di problemi cardiaci che andava dal 10% al 25%. Il rischio, infine, era più diffuso tra le donne, rispetto agli uomini. Tra le forme più diffuse di IBD vi sono la colite ulcerosa e il Morbo di Crohn, condizioni che affliggono migliaia di persone nel nostro Paese. Tra i sintomi più comuni di queste patologie vi sono la diarrea, crampi addominali, dolori, sanguinamento rettale, perdita di peso e febbre.
Diversi fattori, poi, possono esacerbare queste condizioni. Tra questi vi sono il fumo e una dieta scorretta: tutte situazioni che chi soffre di problemi all’intestino dovrebbe evitare. Tra le altre cose, ricordano gli esperti, proprio questi due fattori possono contribuire a fare aumentare ancora di più il rischio di attacco cardiaco e ictus. Anche se lo studio ha trovato un’associazione tra IBD e un aumentato rischio di infarto e ictus, non si dimostrato un rapporto di causa/effetto. Nonostante ciò, gli autori ritengono importante che chi soffre di infiammazioni intestinali sia tenuto sotto controllo per altri problemi – come quelli cardiaci – che possono essere sottovalutati o non considerati.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23978350

Giovedì, 30 Ottobre 2014 13:11

I PEPERONI PROTEGGONO DAL PARKINSON.

30-10-2014

I peperoni possono ridurre il rischio di ammalarsi di Parkinson. Lo dicono i numeri. Consumarli due o più volte a settimana infatti ridurrebbe del 30% la possibilità di essere colpiti da questa malattia neurodegenerativa. A confermarlo un nuovo studio condotto presso la University of Washington di Seattle. Della stessa “famiglia” botanica del tabacco, i peperoni dunque possono essere gli alleati della salute nella lotta al Parkinson. La patologia, come sappiamo, deriva dalla perdita di cellule cerebrali che producono dopamina. Nelle fasi iniziali, essa è caratterizzata dal classico tremore e dalla difficoltà nel controllare i movimenti. I sintomi iniziali includono infatti oltre al tremore alle mani, rigidità agli arti e problemi di deambulazione. Col progredire della malattia, però, subentrano anche problemi cognitivi e una progressione della demenza. Le fonti alimentari di nicotina possono però avere un effetto protettivo. In effetti, sebbene alla nicotina possano essere imputati effetti negativi, precedenti studi hanno dimostrato che essa ridurrebbe della metà il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson. Ma la dott.ssa Susan Searles Nielsen, del Dipartimento di Scienze ambientali ha studiato gli effetti della nicotina dal punto di vista alimentare. “Se il tabacco è effettivamente protettivo, e se il motivo è la nicotina come alcuni studi sperimentali suggeriscono, allora la nostra ipotesi era che le altre piante della famiglia delle Solanacee che contengono nicotina potrebbero essere anch’esse protettive”, ha detto. Tra esse i peperoni e pomodori.
I soggetti che hanno preso parte allo studio erano 490 pazienti con nuova diagnosi di malattia di Parkinson ricevuta poco prima e altri 644 soggetti dello studio di controllo non imparentati e non affetti dalla patologia, dunque neurologicamente normali. Ad essi è stato fornito un questionario per valutare il tipo di alimentazione e l’eventuale uso di tabacco. Esaminando i risultati, gli scienziati di Seattle hanno scoperto che nell’associazione tra il Parkinson e il consumo di alcune verdure, tra cui peperoni, pomodori e patate, i peperoni avevano mostrato la massima protezione. La diminuzione del rischio di malattia inoltre era più evidente con l’aumento del consumo di peperoni soprattutto nei soggetti che non avevano mai fatto uso di tabacco. Tuttavia, saranno necessari ulteriori studi per confermare definitivamente questi risultati ed esplorare nuove vie per la prevenzione del Parkinson. La ricerca è stata pubblicata su Annals of Neurology.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23661325

http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/ana.23884/abstract

28-10-2014

Le pepite di pollo, cosa contengono? Pollo, sarebbe la risposta ovvia. Ma così non è, parola di scienziati. Nel caso delle pepite, le famose Chicken Nuggets contengono sì carne di pollo, ma solo per metà. Curiosi di sapere di cosa è fatto il restante 50%? Dopo il kebab e gli Hot Dog, quest'altra sorpresa. A rivelarlo uno studio dell'American Journal of Medicine, che dopo aver analizzato due pepite di pollo di altrettanti fast food, ha fatto l'orribile scoperta, che poi non dovrebbe sorprendere più: metà era fatta di muscoli, il resto era una miscela di grassi, arterie e nervi. Questo è ciò che è stato scovato nella prima pepita. Nell'altra, prelevata da un secondo fast food del Mississippi, solo il 40% era muscolo, il resto, neanche a dirlo, era composto da una miscela di grasso, cartilagine e pezzi di ossa.
“Sappiamo tutti che la carne bianca di pollo è una delle migliori fonti di proteine pure disponibili e incoraggiamo i nostri pazienti a mangiarne”, ha detto non contento il dottor DeShazo, a capo dello studio. “Quello che è successo è che alcune aziende hanno scelto di utilizzare una miscela artificiale di parti di pollo al posto della carne bianca, pollo a basso contenuto di grassi”. In realtà la pepita è un sottoprodotto di alto contenuto calorico fatto di pollo, sale, zucchero e grassi. Non si può certo considerare una scelta sana. Senza contare che sono tanti i bambini, soprattutto negli Usa, che ne vanno pazzi. Secondo il dottor DeShazo, il modo migliore per mangiare i bocconcini, sarebbe quindi prepararli a casa con pollo biologico e friggere in poco olio.

 

http://www.amjmed.com/article/S0002-9343%2813%2900396-3/fulltext

http://www.cbsnews.com/news/report-chicken-nuggets-not-just-meat-but-blood-vessels-nerve-cells/

28-10-2014

E’ la prima volta che uno studio scientifico ha associato una dieta con elevato apporto di polifenoli con una riduzione del 30% della mortalità negli anziani. La ricerca, pubblicata sul Journal of Nutrition, è la prima a valutare l’assunzione alimentare totale di polifenoli utilizzando un biomarcatore nutrizionale e non solo un questionario di frequenza alimentare. La ricerca è stata condotta da Cristina Andrés Lacueva, Montserrat Rabassa e Mireia Urpí Sardà, del Dipartimento di Nutrizione e Bromatologia della UB; Raúl Zamora Ros (ICO-IDIBELL) e gli esperti Antonio Cherubini (Centro di Ricerca Nazionale Italiano on Aging), Stefania Bandinelli (Azienda Sanitaria di Firenze, Italia) e Luigi Ferrucci (National Institute on Ageing, Stati Uniti). I polifenoli sono composti naturalmente presenti in gran parte della frutta, verdura, tè, noci, legumi e cereali. Più di 8.000 diversi composti fenolici sono stati identificati nelle piante. I polifenoli sono antiossidanti, antinfiammatori e antitumorali. La ricerca pubblicata sul Journal of Nutrition è basata su 12 anni di follow-up di un campione di popolazione composta da 807 uomini e donne di 65 anni, provenienti da Greve e Bagno (Toscana, Italia). Il gruppo della UB ha analizzato l’effetto di diete ricchi di polifenoli per mezzo di un biomarker nutrizionale, concentrazione totale urinaria di polifenoli (TUP), come una misura sostitutiva di assunzione. Per essere precisi, i ricercatori della UB sono i primi riferimenti della letteratura sulla applicazione TUP in studi epidemiologici o clinici.
La Prof.ssa Cristina Andrés Lacueva, capo del Biomarkers and Nutritional & Food Metabolomica Research Group della UB e coordinatore dello studio, spiega che ”lo sviluppo e l’uso di biomarcatori nutrizionali consente di fare una stima più precisa e, soprattutto, più oggettiva di assunzione in quanto non si basa solo sulla memoria dei partecipanti che rispondono ad un questionario. I biomarcatori nutrizionali tengono conto della biodisponibilità e delle differenze individuali. Secondo l’esperto, “questa metodologia permette una valutazione più attendibile e accurata dell’ associazione tra assunzione di cibo e mortalità o rischio di malattie“. In conclusione, la ricerca dimostra che la mortalità complessiva è stata ridotta del 30% nei partecipanti che avevano diete ricche di polifenoli (>650 mg/die) in confronto ai partecipanti che avevano diete a basso contenuto di polifenoli (<500 mg/die). Raúl Zamora Ros, primo autore dello studio, sottolinea che “i risultati corroborano prove scientifiche che suggeriscono che le persone che consumano diete ricche di frutta e verdura sono a minor rischio di diverse malattie croniche e della mortalità complessiva”. Inoltre, la ricerca sottolinea l’importanza di valutare – se possibile – l’assunzione di cibo, utilizzando biomarcatori nutrizionali e non solo questionari di frequenza alimentare. Il gruppo di studio del Biomarcatori nutrizionali & Food Metabolomica Research Group, che partecipa al progetto Fun-C-Food (Consolider Ingenion), collabora attivamente con diversi gruppi di ricerca nazionali e internazionali e concentra la sua attività sull’analisi di nuovi biomarcatori nutrizionali più efficaci e sensibili in base alla biodisponibilità dei composti bioattivi negli alimenti e la loro attività, in modo da associare l’assunzione di alcuni alimenti (marcatori di consumo) con i loro possibili effetti sulla salute delle persone.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23803472

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3743274/

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