Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

28-10-2014

Che sia mattina o pomeriggio, non c’è niente di meglio di un piccolo snack per tappare quel buco che si fa sentire nello stomaco. Tuttavia, seppur pratici, certi spuntini che si trovano in commercio, spesso non sono ottimi per la salute, soprattutto se li consumiamo quotidianamente. Vi sono delle alternative indubbiamente più salutari che possiamo portare sempre con noi, con il vantaggio che non aumentano neppure il peso corporeo. Una di queste è rappresentata dalla frutta secca come le mandorle, che oltre a contenere preziose vitamine (come la E) e grassi monoinsaturi, offrono diversi benefici per la salute. Lo afferma uno nuovo studio pubblicato recentemente sull’ European Journal of Clinical Nutrition che indica la dose di circa 45 grammi di mandorle tostate come un ottimo metodo per ridurre il senso di fame e aumentare il proprio stato di benessere. La ricerca è stata motivata dal fatto che negli Stati Uniti – come in Italia – gli snack sono divenuti quasi una moda, con il 97% dei consumatori che ne consuma almeno uno al giorno. Tutto ciò, unito probabilmente a un regime dietetico poco consono, ha portato a un elevato tasso di obesità unito a carenze nutrizionali.
Uno studio clinico randomizzato condotto dai ricercatori della Purdue University ha perciò scelto di analizzare gli effetti sulla salute e sul peso dei classici spuntini già pronti. A motivo di ciò, sono stati reclutati 137 partecipanti ad alto rischio di diabete di tipo 2, poi suddivisi in cinque gruppi. Il primo non avrebbe dovuto assumere nessun tipo di noci e semi; il successivo avrebbe dovuto seguire una colazione a base di mandorle (45 grammi circa) e un altro gruppo la stessa quantità durante la cena. Un ulteriore gruppo consumava uno snack la mattina e, un altro ancora, mandorle tra un pasto e l’altro. Gli spuntini dovevano essere consumati entro due ore dall’ultimo pasto o un paio di ore prima del seguente. Per il resto, tutti i volontari, potevano seguire la loro dieta normale senza preoccuparsi neppure dello stile di vita o dell’attività fisica.
La valutazione è stata compiuta sia in merito al tipo di alimentazione seguita, sia analizzando a digiuno i livelli nell’organismo di vitamina E. Dai risultati è emerso che nonostante siano state assunte oltre 250 calorie in più attraverso le mandorle non vi è stato alcun aumento di peso nelle successive quattro settimane. «Questa ricerca suggerisce che le mandorle possono essere una buona opzione per la merenda, specialmente per le persone interessate al peso corporeo – spiega Richard Mattes, professore di Scienze della Nutrizione presso la Purdue e ricercatore principale – In questo studio, i partecipanti hanno compensato le calorie supplementari fornite dalle mandorle. In questo modo l’assunzione giornaliera di energia non è aumentata e sono stati segnalati livelli di fame e desiderio di mangiare ai pasti successivi notevolmente ridotti, in particolare quando le mandorle sono state consumate come spuntino». Questo meccanismo, spiegano i ricercatori, è probabilmente dovuto alle buone quantità di grassi monoinsaturi (13 g per 28 g di mandorle), alle proteine nobili (6 g per 28 g di mandorle) e fibra (nell’ordine di 4 grammi per 28 di mandorle) contenuti nel frutto. Tuttavia, per comprendere appieno il funzionamento sono necessari ulteriori studi. Un’altra ipotesi è correlata al contenuto in calorie dichiarate: si pensa ne vengano assorbite circa il 20% in meno a causa della loro struttura cellulare rigida.

 

http://www.npr.org/blogs/thesalt/2013/10/24/240538905/almonds-for-skinny-snackers-yes-they-help-curb-your-appetite

http://www.nature.com/ejcn/journal/v67/n11/full/ejcn2013184a.html

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=European+Journal+of+Clinical+Nutrition+%282013%29+67%2C+1205%E2%80%931214

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3898316/

 

Martedì, 28 Ottobre 2014 08:13

GLI AGRUMI POSSONO PREVENIRE LE CISTI RENALI.

28-08-2014

Gli scienziati hanno scoperto che un componente presente nel pompelmo e altri agrumi potrebbe con successo, bloccare lo sviluppo di cisti renali. Lo studio è stato pubblicato sul British Journal of Pharmacology. I ricercatori del Royal Holloway University, San Giorgio, e l’Università Kingston University di Londra, sostengono che il componente, chiamato naringenina, potrebbe essere utilizzato per sviluppare nuovi farmaci per il trattamento della malattia del rene policistico. Si tratta di una malattia ereditaria che causa lo sviluppo di cisti nei reni. La malattia può portare alla perdita della funzione renale, pressione alta che porta a infarto e ictus così come aneurismi nel cervello. L’esordio più comune è tra i 30 ed i 60 anni. Per la loro ricerca, il team ha condotto un esperimento su un ameba unicellulare che contiene una proteina chiamata PKD2. Questa è la proteina responsabile dello sviluppo della malattia renale policistica. Si è scoperto che quando la naringenina è entrata in contatto con la proteina PKD2, questa viene regolata, bloccando la formazione di cisti. Per vedere come questa scoperta potrebbe applicarsi ai trattamenti del rene policistico, gli scienziati hanno innescato la formazione di cisti in un rene di cellule di mammifero. È stato trovato che la formazione di cisti viene bloccata aggiungendo naringenina. Inoltre, quando i livelli della proteina PKD2 sono stati ridotti nelle cellule renali, la formazione di cisti è stata anche ridotta. Ciò conferma che l’effetto è collegato. “Questa scoperta fornisce un importante passo avanti nella comprensione di come la malattia renale del rene policistico può essere controllata”, spiega il professor Robin Williams della Scuola di Scienze Biologiche presso la Royal Holloway University. Il Dr. Mark Carew, della Facoltà di Farmacia e Chimica alla Kingston University, afferma che ulteriori ricerche sono in corso per capire esattamente come funziona la naringenina a livello molecolare. Il Prof. Williams fa notare: “In questo studio, abbiamo dimostrato quanto sia efficace l’ameba Dictyostelium nella scoperta di nuovi trattamenti e dei loro obiettivi. Avendo precedentemente applicato lo stesso metodo di prova nel nostro lavoro sull’epilessia e trattamenti per disturbi bipolari, è chiaro che questo nuovo approccio potrebbe aiutare a ridurre la sperimentazione animale e fornire importanti miglioramenti“.

 

https://www.royalholloway.ac.uk/aboutus/newsandevents/news/newsarticles/componentofcitrusfruitsfoundtoblocktheformationofkidneycysts.aspx

http://www.sciencedaily.com/releases/2013/10/131003095709.htm

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Naringenin+inhibits+the+growth+of+Dictyostelium

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4009007/

25-10-2014

Secondo i ricercatori, l’alimentazione per via endovenosa in alcuni pazienti, può salvare loro la vita, ma può anche causare danni al fegato. Gli scienziati dell’Università del Colorado e Children Hospital Colorado hanno scoperto il probabile colpevole del danno al fegato, in uno degli ingredienti nei prodotti alimentari per via endovenosa. La scoperta, pubblicata il 9 ottobre in Science Translational Medicine, potrebbe indicare la strada per migliori cure per i pazienti che sono medicalmente vulnerabili e spesso molto giovani. “Abbiamo ancora molto da imparare circa il mix ottimale di lipidi per la nutrizione per via endovenosa“, ha spiegato il Prof. Ron Sokol, che fa parte del gruppo di ricerca. ”La nostra speranza è che questo studio ci possa condurre ad una nutrizione per via endovenosa che si traduca in meno stress sul fegato”. Un’opzione salvavita per alcuni pazienti con problemi intestinali o pancreatite è fornire cibo per via endovenosa. Ma questa opzione, di solito usata per i pazienti che non tollerano o assorbono il cibo dal loro intestino, è associata a danni al fegato. Il rischio è particolarmente elevato per i neonati prematuri e bambini con insufficienza intestinale o sindrome da intestino corto, che spesso dipendono dall’alimentazione per via endovenosa o dalla nutrizione parenterale (PN), per anni. Più un paziente è alimentato in PN e più i loro problemi intestinali sono gravi, maggiore è il rischio della cosiddetta malattia epatica PN-associata (PNALD).
L’evidenza clinica ha suggerito che i lipidi derivati dalla soia potrebbero essere parte del problema. I ricercatori dell’Università di Cincinnati e la Emory University, si sono concentrati sul fattore soia. Essi hanno scoperto che un derivato della soia – chiamato stigmasterolo – sembrava prevenire il flusso della bile dal fegato nei topi sperimentali. Hanno anche compreso il meccanismo chimico dietro questo problema e hanno scoperto che anche i microbi nell’intestino sembravano contribuire al PNALD. “I risultati di questo studio possono contribuire a promuovere la sostituzione di soluzioni contenenti stigmasterolo per i pazienti dipendenti da nutrizione per via endovenosa”, ha concluso il Prof. Sokol.

 

http://www.sciencedaily.com/releases/2013/10/131009162728.htm

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24107776

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4070735/

http://stm.sciencemag.org/content/5/206/206ra137

25-10-2014

Ai tanti benefici già segnalati sul tè verde, ora arriva un’altra notizia che riguarda una sostanza naturale estratta proprio dal tè verde. Secondo un nuovo studio dei ricercatori australiani coordinati dall’oncologo Dott. Orazio Vittorio, la “catechina” – la molecola antiossidante contenuta nel tè – può uccidere il 50% delle cellule cancerogene del neuroblastoma (la forma di tumore neonatale più comune e con il più basso tasso di sopravvivenza). La ricerca del dottor Vittorio è stata accolta con grande favore, tanto che al the Kid’s Cancer Project Award del NSW Premier’s Awards for Outstanding Cancer Research, insignito venerdì scorso, gli sono stati accordati 25.000 dollari australiani per poter continuare gli studi e sviluppare potenziali trattamenti salvavita. La catechina estratta dal tè è un trattamento promettente contro il cancro – come suggerito da diversi studi – tuttavia l’instabilità che mostra una volta nell’organismo umano ne limita l’efficacia. Per questo motivo, il dottor Vittorio e il suo team hanno lavorato al fine di creare una forma di catechina più stabile: questa forma, nei test di laboratorio, si è dimostrata efficace nel distruggere il tumore.
Questa forma stabile di catechina, si è dimostrata efficace nell’uccidere le cellule tumorali del neuroblastoma resistenti alla chemioterapia, senza intaccare le cellule sane. “La forma modificata di catechina è efficace nel distruggere le cellule di neuroblastoma che sono altamente resistenti alla chemioterapia convenzionale, ma ha effetti minimi sulle cellule normali – spiega al Sydney Morning Herald il dott. Vittorio –. Ora sarò in grado di strutturare questa ricerca e lavorare per una terapia efficace contro il neuroblastoma aggressivo”.

 

https://www.ccia.org.au/news/childrens-cancer-institute-research-shows-green-tea-extract-has-anti-cancer-potential/

http://www.smh.com.au/national/health/green-tea-extract-has-anticancer-potential-20130802-2r4ws.html

http://archives.deccanchronicle.com/130804/lifestyle-health-and-well-being/article/green-tea-extract-kills-childhood-cancers

http://zeenews.india.com/ayurveda/green-tea-extract-can-kill-childhood-cancers_1415.html

25-10-2014

I postumi di una sbornia non sono mai piacevoli e, ad oggi, per affrontarli, è sempre stato consigliato di bere un bel caffè (molto forte) per riprendersi dagli effetti del troppo alcol. Ora però, alcuni esperti hanno dichiarato che è la Sprite il miglior rimedio. Gli scienziati cinesi della Sun Yat-Sen University di Guangzhou, hanno esaminato 57 bevande – che vanno dalle tisane alle bibite frizzanti – e hanno scoperto che proprio le bevande analcoliche al limone sono state quelle che hanno dato i migliori risultati. In primo luogo i ricercatori hanno deciso di osservare le cause della sbornia. Quando beviamo, il fegato rilascia un enzima chiamato alcol deidrogenasi (ADH), che scompone l’etanolo presente nell’alcol in una sostanza chimica chiamata acetaldeide. Questo è poi suddiviso in un’altra sostanza chimica chiamata acetato da un enzima chiamato aldeide deidrogenasi (ALDH). Per i ricercatori, mentre l’acetato è considerato innocuo, l’acetaldeide è la causa dei sintomi presenti nel post sbornia. Per questo motivo i ricercatori della Sun Yat-Sen University hanno testato una vasta gamma di bevande gassate (e non) ed esaminati i loro effetti sull’ADH e ALDH. E dai risultati, è emerso che proprio la Sprite è stata tra le bevande che hanno ridotto la durata della sbornia. Il professor Edzard Ernst, dell’Università di Exeter (UK), spiega che saranno comunque necessarie altre ricerche che confermino questi risultati. In base alla ricerca cinese quindi, tutte le persone che avranno esagerato con l’alcol, ora potranno aiutarsi con una Sprite (o bevande simili, con stessi ingredienti, che sia una Seven Up o altra gassosa di altre marche) per affrontare il post sbornia.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24162728

http://www.medicaldaily.com/sprite-could-cure-your-hangover-beverage-shortens-duration-alcohols-damaging-metabolic-process

http://www.universityherald.com/articles/4832/20131008/sprite-cures-hangover-chinese-scientists.htm

25-10-2014

Sono davvero molti gli studi che confermano quanto alcuni alimenti possano avere efficacia preventiva contro gravi disturbi e malattie. A questi, si aggiunge l’ultima ricerca dell’Università di Navarra (Spagna), diretta dalla dottoressa Elena Martínez-Lapiscina e pubblicata sul Journal of Neurology Neurosurgery and Psychiatry, secondo la quale l’olio d’oliva e frutta secca possono essere d’aiuto al cervello, proteggendolo da possibili patologie cerebrali, come la demenza e il declino cognitivo. Lo studio ha coinvolto 522 volontari: uomini e donne anziani (55-88 anni), senza malattie cardiovascolari ma con alti fattori di rischio. Tra questi, diabete di tipo 2, storia familiare di malattia, fumo od alcol. Dopo una prima serie di test medici, il campione è stato inserito in PREDIMED, programma mirato all’individuazione precoce di malattia cardiovascolari. In seguito, sono stati suddivisi in modo casuale in due gruppi, di cui uno che avrebbe seguito una dieta con l’aggiunta di olio extravergine di oliva o frutta secca, mentre l’altro gruppo (di controllo) che avrebbe ricevuto l’istruzione di seguire una dieta a basso contenuto di grassi, consigliata in genere per prevenire infarto e ictus. Nel periodo di controllo, i partecipanti hanno subìto sia controlli del medico di famiglia che controlli trimestrali dei ricercatori sul rispetto della dieta, con l’aggiunta di test per il declino cognitivo. Alla fine del periodo di studio, la dottoressa ed i suoi colleghi hanno individuato 60 persone con declino cognitivo lieve: 18 del primo gruppo (dieta con olio extravergine), 19 del secondo (dieta con frutta secca), 23 del terzo (gruppo di controllo). Andamento simile per i 23 volontari soggetti a demenza: 12 del primo gruppo, 6 del secondo, 17 gruppo di controllo. Infine, osservando in dettaglio i risultati dei test sul cervello, i volontari dei gruppi con dieta a base di olio extravergine e frutta secca mostravano punteggi significativamente migliori dei colleghi della dieta a basso contenuto di grassi. Commentando i risultati, la capo-ricercatrice dottoressa Elena Martínez-Lapiscina ritiene che, aldilà della cautela e della necessità di approfondimento, lo studio dimostra come questi due alimenti portino benefici a lungo termine al cervello.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23670794

25-10-2014

Il livello elevato di ozono può aumentare il rischio di sviluppare forti appendiciti. A dirlo è un nuovo studio, condotto in Canada, da un nutrito gruppo di scienziati. I ricercatori hanno scoperto che, all’aumento del livello di ozono nell’atmosfera, corrisponde un’impennata, pari al 22%, del rischio di appendicite. I livelli di ozono variano tipicamente tra i 0 ppm (parti per miliardo) nelle giornate in cui la qualità dell’aria è, tutto sommato, buona, a più di 300 ppm nei giorni in cui l’aria risulta estremamente insalubre. Secondo il dottor Gilaad Kaplan, gastroenterologo presso l’Università di Calgary, “questo studio ci restituisce una fotografia della dimensione del problema e ci fa capire anche che l’inquinamento atmosferico è in grado di produrre effetti negativi di una certa portata sulla salute umana”. Alla luce dei risultati, secondo i ricercatori, circa una persona su 15 svilupperà l’appendicite nel corso della sua vita. Esistono due tipi di appendicite: quella infiammatoria (la maggior parte dei casi si presenta con dolore addominale, che peggiora nel giro di 24-36 ore) e l’ appendice perforata. Già alcuni ricercatori, anni addietro, avevano stabilito una connessione tra l’inquinamento atmosferico e la patologia, grazie ad uno studio del 2009, condotto su un campione di circa 5.000 persone di Calgary. In base al nuovo studio, i ricercatori hanno esaminato più di 35.000 persone ricoverate in ospedale per appendicite, in 12 città canadesi tra il 2004 e il 2008. I pazienti avevano in media 30 anni di età al momento della diagnosi. I ricercatori, allo stesso tempo, hanno calcolato le concentrazioni medie di ozono per ogni città durante la settimana prima che ogni paziente fosse ricoverato in ospedale per l’appendicite.
Bisogna ricordare che l’ozono raggiunge massimi livelli quando le sostanze inquinanti interagiscono con la luce del sole nell’atmosfera: per questa ragione, i suoi livelli tendono ad essere più elevati nei mesi estivi in cui la luce solare è più forte. I ricercatori hanno inoltre sottolineato altri importanti fattori di rischio per l’appendicite, come l’età ed il sesso (questa patologia affligge le persone più giovani e gli uomini). Purtroppo non hanno ancora chiaro il meccanismo preciso in base al quale l’inquinamento dell’aria riesce ad aumentare il rischio di sviluppare l’appendicite. E' possibile che l’esposizione all’inquinamento atmosferico possa aumentare l’infiammazione nelle persone che hanno già sintomi precisi di questa patologia. Secondo un altro studio condotto su cavie da laboratorio, è emerso che l’esposizione agli inquinanti atmosferici può alterare i livelli di microbi intestinali che aiutano a mantenere l’ intestino sano e pulito: questo spiegherebbe perchè, nel caso di inquinamento atmosferico, il tratto intestinale e l’appendice siano maggiormente a rischio infezione.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23842601

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3734492/

Sabato, 25 Ottobre 2014 12:39

GLI ANTIBIOTICI SONO PEGGIO CHE INUTILI.

25-10-2014

Il quadro delle cure antibiotiche per le malattie da raffreddamento è molto preoccupante. Questi medicamenti non sono più efficaci dell’aspirina, e inoltre, sono molto più pericolosi. In un’indagine citata da Lester Soyka nel suo articolo “The Misuse of Antobiotics for Treatment of Upper Respiratory Tract Infections in Children”, apparso nel fascicolo Pediatrics una trentina di anni fà, il 95% dei medici interrogati somministrava ai pazienti uno o più medicinali dietro prescrizione per il raffreddore comune, di cui più della metà erano antibiotici.
Lo studio del dottor Soyka cita una mezza dozzina di studi controllati, i quali dimostrano tutti che gli antibiotici non abbreviano la durata delle infezioni delle prime vie respiratorie, non prevengono complicazioni o infezioni secondarie, e non riducono il numero degli organismi patogeni nel naso e nella gola. Gli antibiotici sono efficaci nel produrre effetti collaterali. Vomito, diarrea ed eruzioni della pelle sono conseguenze comuni. Alle reazioni negative ai medicinali, tra i quali gli antibiotici hanno spesso un ruolo preminente, sono da attribuirsi dal 3 al 5% di tutti i ricoveri ospedalieri. Ma ancora più sinistra è la possibilità che l’uso degli antibiotici provochi l’assuefazione a questo tipo di medicamento, e ne impedisca così l’uso, nel futuro, in caso di malattia che minacci la vita del paziente.

 

http://pediatrics.aappublications.org/content/55/4/552

23-10-2014

Che la meditazione migliorasse la nostra concentrazione e le nostre potenzialità, grazie al rilassamento e quindi ad una maggiore lucidità del corpo e del cervello, lo sapevamo ormai da diverso tempo, ma che addirittura facesse aumentare la densità di materia grigia nessuno se lo sarebbe aspettato. Soprattutto perché la società e il mondo del lavoro in cui viviamo sembrano premiare ed incoraggiare ritmi di stress sempre più intensi. La singolare scoperta arriva da uno studio condotto dal Massachusetts General Hospital, che per la prima volta ha misurato con esattezza l’effetto cerebrale delle tecniche di rilassamento e i risultati ottenuti sul cervello umano. In breve, 8 settimane di pratiche antistress producono effetti importanti sulla memoria, sull’empatia e sulla reazione allo stress. Insomma, staccare la spina, zittire i pensieri per pochi minuti al giorno, fa bene e aiuta a riprendere la concentrazione, migliorando le nostre performance. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Psychiatry Research: Neuroimaging e ha visto la partecipazione di 16 persone, che – grazie allo scatto di immagini cerebrali - sono state analizzate prima e dopo il corso antistress. Dal confronto delle immagini del prima e del dopo la differenza è evidente: dopo la pratica della meditazione per due mesi la materia-grigia nell’ippocampo (da dove partono i meccanismi della memoria e dell’apprendimento) è aumentata di densità. “L'esperienza personale dello stress non può essere ridotta solo con un programma di formazione di 8 settimane – ha detto Amishi Jha, uno dei ricercatori -, ma la scoperta apre le porte a possibilità per ulteriori ricerche sul potenziale delle meditazione come via per proteggere contro i disturbi legati allo stress, come quelli da stress post-traumatico”.

 

http://www.sciencedaily.com/releases/2011/01/110121144007.htm

http://www.psyn-journal.com/article/S0925-4927%2810%2900288-X/abstract

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Mindfulness+practice+leads+to+increases+in+regional+brain+gray+matter+density

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3004979/

Giovedì, 23 Ottobre 2014 11:39

LEGAME TRA ICTUS E DIETA IPERGLICEMICA.

23-10-2014

Una dieta ad alto carico glicemico non solo aumenta il rischio di cancro ma anche quello di altre malattie cronico-degenerative: è la conclusione di uno studio condotto dai ricercatori dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano guidati da Vittorio Krogh, responsabile della struttura complessa di epidemiologia e prevenzione, che ha messo in luce in particolare il rapporto tra il consumo di carboidrati ad alto indice glicemico, come pane bianco e zucchero, e l'insorgenza di ictus. Il lavoro, pubblicato sulla rivista scientifica 'Plos One', fa parte del progetto Epicor, studio sull'associazione tra dieta e incidenza delle malattie cardiovascolari in Italia che nasce come satellite del grande studio oncologico Epic (European Investigation into Cancer and Nutrition) svolto in Italia su oltre 47mila volontari a cui l'istituto partecipa insieme ad altri 22 centri in 10 paesi Europei. E' stato proprio nello studio Epic che lo stesso gruppo di ricercatori aveva messo in evidenza come una dieta ad alto carico glicemico fosse associata ad un maggior rischio di tumore alla mammella (articolo pubblicato su Nutrition Metabolism and Cardiovascular Disease, aprile 2012). Epicor fa parte dei grandi studi epidemiologici condotti dall'Istituto Nazionale dei Tumori che hanno permesso di ottenere risultati non solo in campo oncologico ma anche nell'ambito di malattie non oncologiche quali quelle cardiovascolari. Lo studio ha permesso di osservare che chi consuma in grande quantità di carboidrati ad alto indice glicemico, come pane bianco, zucchero, miele, marmellata, pizza e riso ha un rischio più elevato dell'87 per cento di essere colpito da ictus. "Con questo lavoro l'indice glicemico degli alimenti - ha precisato Sabina Sieri, biologa e nutrizionista dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano - si conferma un fattore importante nella definizione di una dieta sana. Conoscere l'indice glicemico di un alimento e privilegiare il consumo di cibi a basso carico glicemico diventa quindi sempre più rilevante per la prevenzione delle malattie cronico-degenerative". L'indice glicemico di un alimento misura la velocità con cui il cibo fa aumentare i livelli di glucosio nel sangue. La risposta glicemica a ciascun pasto è influenzata non solo dall'indice glicemico dei singoli alimenti ma anche, in misura determinante, dal carico glicemico cioè dalla quantità di carboidrati in esso contenuto. Cibi ad alto contenuto di carboidrati ad alto indice glicemico sono, ad esempio, il pane, lo zucchero, la pizza, ma anche il riso; al contrario, hanno un alto contenuto di carboidrati a basso indice glicemico gli alimenti integrali, i legumi e la frutta. Questi ultimi sono digeriti lentamente e quindi determinano un limitato picco della glicemia e una bassa risposta insulinica. Al contrario, il consumo di alimenti ad alto indice glicemico aumenta rapidamente la glicemia e la risposta insulinemica. L'associazione tra il consumo di carboidrati ad alto indice glicemico e rischio di ictus scoperta da questo studio supporta l'ipotesi che un'elevata glicemia post-pranzo possa essere il meccanismo sottostante all'aumentato del rischio di ictus. Obiettivo principale di Epic è studiare il ruolo dei fattori alimentari e lo stile di vita (in particolare il fumo, il sovrappeso e l'obesità, e l'attività fisica) nella genesi dei tumori. Questo studio ha coinvolto oltre 47mila volontari sani, uomini e donne residenti in Italia (i centri di reclutamento sono stati Varese, Torino, Firenze, Napoli e Ragusa). Tra il 1992 e il 1996 si sono raccolte informazioni sulla dieta, lo stile di vita e lo stato di salute di questi volontari. Queste persone sono poi state seguite nel tempo raccogliendo informazioni sul loro stato di salute (ad esempio tramite le schede di dimissione ospedaliere). Per la ricerca sul rapporto tra indice glicemico e ictus, dal 1996 al 2008 sono stati osservati 355 casi di eventi cerebrovascolari ed è dallo studio della dieta che queste persone consumavano prima di ammalarsi che si è scoperto come l'indice glicemico degli alimenti è un importante fattore di rischio per l'ictus.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23717392

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3662695/

Bonus William Hill
Bonus Ladbrokes

Copyright © 2014-2024 Naturopata Angelo Ortisi - Tutti i diritti riservati.

Powered by Warp Theme Framework
Premium Templates