Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

Mercoledì, 08 Ottobre 2014 08:06

I CELIACI SONO A RISCHIO TUMORE DEL SANGUE.

08-10-2014

La celiachia è una patologia autoimmune sempre più diffusa tra la popolazione – con circa 135mila nuovi casi ogni anno – e che si manifesta in età sempre più giovane. E’ la cosiddetta intolleranza al glutine, una sostanza che si forma dall’unione di due proteine per mezzo dell’acqua. I celiaci in genere non possono consumare alimenti come i cereali che contengono questa sostanza: per esempio frumento, orzo e segale. Tra i più noti sintomi della celiachia vi sono i disturbi dell’apparato digerente in genere, gonfiore addominale, ma anche vomito e diarrea, disturbi dell’umore e spossatezza. In alcuni casi si può avere anemia, rachitismo e ritardo nella crescita nei bambini. A tutto questo, ora si aggiunge anche il rischio di sviluppare una forma di tumore del sangue nota con il nome di “linfoma”. A evidenziare il rischio di linfoma nei pazienti celiaci è uno studio pubblicato sulla rivista Annals of Internal Medicine e condotto da un team di scienziati del Celiac Disease Center presso il Columbia University Medical Center (CUMC) e del NewYork-Presbyterian/Columbia. Secondo quanto emerso dallo studio, i pazienti con malattia celiaca che presentavano l’atrofia ai villi – un danno intestinale persistente e identificato con biopsia – avevano un più alto rischio di linfoma rispetto ai pazienti il cui intestino era guarito. «Dopo che la diagnosi è stata fatta e il paziente inizia una dieta priva di glutine, ci aspettiamo di vedere il recupero dei villi – spiega il dottor Peter Green, Direttore del Celiac Disease Center e gastroenterologo –. I medici e i pazienti vedono la guarigione come un obiettivo, ma fino a ora non vi era alcun nesso tra guarigione confermata dalla biopsia intestinale e i fattori di rischio clinici».
Il linfoma è un tipo di tumore del sangue che si manifesta quando i globuli bianchi si dividono più velocemente del normale o superano la loro tipica aspettativa di vita. I globuli bianchi, chiamati anche linfociti, aiutano a proteggere il corpo dalle infezioni e dalle malattie, come parte del sistema immunitario. Il linfoma si può sviluppare nel sangue o nel midollo osseo, ma anche nei linfonodi, nella milza e altri organi. «Sappiamo da molti anni che i pazienti con malattia celiaca hanno un aumentato rischio di linfoma, sottolinea il prof. Benjamin Lebwohl, principale autore dello studio e gastroenterologo. Il nostro studio dimostra che i pazienti celiaci con atrofia persistente dei villi intestinali hanno un aumentato rischio di linfoma, mentre quelli con intestino guarito hanno un rischio significativamente inferiore, che si avvicina a quello della popolazione generale». In questo studio, i ricercatori hanno coinvolto 7.625 pazienti con malattia celiaca, che sono stati seguiti per una media di 8-9 anni, dopo la prima diagnosi di celiachia e la prima biopsia. Del numero totale di pazienti, 4.317 (il 57%) era guarito durante il periodo di follow-up dalla biopsia, mentre i restanti 3.308 pazienti (il 43%) hanno sofferto di una persistente atrofia dei villi. I dati acquisiti e lo studio dei casi ha permesso ai ricercatori di scoprire che, nel complesso, i pazienti con malattia celiaca avevano un rischio generale di linfoma annuo del 67,9 per 100.000, con un aumento di 2,81 volte rispetto al rischio nella popolazione generale che è del 24,2 per 100.000. Coloro che invece presentavano una persistente atrofia dei villi hanno mostrato un elevato rischio annuo, nell’ordine del 102,4 per 100.000, rispetto a quelli con l’intestino guarito, il cui rischio era 31,5 per 100.000. I risultati dello studio, secondo i ricercatori, suggeriscono che l’obiettivo dei pazienti celiaci deve essere la guarigione della mucosa intestinale, in modo da ridurre il rischio di linfoma. Tuttavia, ciò che ancora non è chiaro è il perché l’intestino di alcuni pazienti guarisce, mentre quello di altri, no. «Sappiamo da studi precedenti che la guarigione è più probabile tra i pazienti che riferiscono una stretta aderenza alla dieta priva di glutine, rispetto a coloro che ammettono di avere abitudini alimentari meno rigide, commenta il dottor Lebwohl. I nostri risultati che collegano l’esito della biopsia del follow-up al rischio di linfoma ci porteranno a raddoppiare i nostri sforzi per comprendere meglio la guarigione intestinale e come raggiungerla».

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23922062

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3788608/

08-10-2014

In questi ultimi anni sempre più medici si sono resi conto del rischio delle prescrizioni improprie di antibiotici. Non a caso non vengono più consigliati ai pazienti come era uso un tempo, in particolare quando non strettamente necessari: per esempio, durante episodi di influenza. Assunzioni che si sono rivelate oltre che inutili anche dannose. Tuttavia, il problema non è ancora totalmente estinto: secondo recenti indagini, infatti, quando i medici – in particolare quelli Usa – scelgono antibiotici per i propri pazienti, nel 60% dei casi optano per quelli definiti “ad ampio spettro”. Tale dicitura indica che il farmaco non si limita a uccidere esclusivamente ceppi di batteri specifici per la malattia in atto, bensì la maggior parte di quelli che si trovano nel nostro corpo – senza distinzione di sorta. Tutto ciò, anche se potrebbe all’apparenza sembrare positivo, a lungo andare può rivelarsi particolarmente nocivo per l’organismo. Oltre a ciò, nonostante le raccomandazioni, dagli ultimi studi è emerso che nel 25% dei casi esaminati, la prescrizione si è rivelata totalmente inutile – considerando che la malattia era causata da virus e non da batteri.
Secondo il dottor Adam L. Hersh, pediatra specializzato in malattie infettive presso l’University of Utah School of Medicine, questo abuso ingiustificato di antibiotici – in particolare quelli ad ampio spettro – non farebbe altro che ridurre sempre di più la forza immunitaria del paziente. Tali farmaci, infatti, non solo distruggono i batteri “cattivi” ma riducono anche quelli “buoni” contribuendo all’aumento di batteri antibiotico-resistenti. Se è pur vero che non è semplice discernere tra malattia batterica o virale, è anche certo che è necessario porre molta cautela, in caso di dubbio, nel prescrivere antibiotici. «Sembra che la naturale tendenza, quando vi è incertezza circa la causa di un’infezione, sia quella di peccare per eccesso nella prescrizione di antibiotici», spiega Hersh. «Il nostro studio ha evidenziato come la maggior parte delle ricette siano relative ad antibiotici che uccidono una vasta gamma di batteri e che hanno maggiori probabilità di essere prescritti quando non sono necessari, come ad esempio nei casi di infezioni virali», conclude Hersh. Secondo i risultati della ricerca guidata da Hersh e pubblicata sul Journal of Antimicrobial Chemotherapy, i medici sembrano prescrivere antibiotici ad ampio spettro in particolare per infezioni del tratto respiratorio, urinario e della pelle. Nella maggior parte dei casi – secondo gli autori dello studio – se si fosse scelto di adoperare farmaci specifici, forse si sarebbero ottenuti migliori risultati e, senza ombra di dubbio, anche minor resistenza agli antibiotici.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Adam+L.+Hersh+Journal+of+Antimicrobial+Chemotherapy

08-10-2014

Rischio cancro al seno per le donne che assumono farmaci contro l’ipertensione, o pressione sanguigna alta. Secondo un nuovo studio pubblicato sulla versione online di JAMA Internal Medicine, chi segue una cura contro l’ipertensione per un decennio o più, assumendo un comune e noto farmaco, ha oltre due volte maggiori probabilità di vedersi diagnosticare un carcinoma mammario, rispetto a coloro che non assumono il farmaco. Questo farmaco è del tipo dei cosiddetti “antagonisti del calcio”, ed è una delle terapie più comuni in caso di pressione arteriosa alta. Gli effetti del farmaco sul controllo della pressione sono noti; quello che invece non è noto sono gli effetti a lungo termine sul rischio di cancro al seno.
«Le prove per quanto riguarda il rapporto tra i diversi tipi di antipertensivi e il rischio di cancro al seno sono scarse e incoerenti – scrivono gli autori – e negli studi precedenti mancava la capacità di valutare l’impatto dell’uso a lungo termine». Ad aver colmato quella che poteva essere una lacuna in questo senso sono dunque stati i ricercatori statunitensi del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, coordinati dal dottor Christopher Li, i quali hanno condotto uno studio su 880 donne di età compresa tra i 55 e i 74 anni a cui era stato diagnosticato un cancro al seno duttale tra il 2000 e il 2008; 1.027 donne con diagnosi di cancro al seno lobulare e 856 donne senza cancro che fungevano da gruppo di controllo. Delle partecipanti, quasi il 40% assumeva farmaci per la pressione alta: di queste, 85 donne erano affette da carcinoma mammario duttale; 91 con carcinoma mammario lobulare e, infine, 70 erano sane.
Delle donne che presentavano il cancro al seno (25 del tipo duttale e 26 del tipo lobulare) avevano assunto i farmaci calcio-antagonisti per dieci anni o più, rispetto alle donne senza cancro. Questi dati suggeriscono che le donne che assumono i farmaci antipertensivi avevano da 2,4 a 2,6 volte maggiori probabilità di sviluppare il cancro del seno. Nonostante i dati osservati, secondo il professor Li e colleghi i risultati dello studio non sono abbastanza definitivi e tali da invitare a cambiare il modo in cui i cosiddetti calcio-antagonisti sono prescritti, tuttavia si dovranno condurre altri studi al fine di replicarli in altri gruppi di donne. Infine, altri tipi di farmaci contro l’ipertensione, inclusi i diuretici e beta-bloccanti, non sono stati correlati al maggior rischio di cancro al seno. A titolo speculativo, l’ipotesi del dottor Li è che vi sia la possibilità che i calcio-antagonisti interferiscano con un meccanismo di autodistruzione naturale delle cellule malate, per cui si aumentano le possibilità che si sviluppi un tumore. Come detto, prima di lanciare l’allarme sono tuttavia necessari ulteriori studi.

 

http://archinte.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1723871

http://newsatjama.jama.com/2013/08/05/author-insights-breast-cancer-risk-increases-with-long-term-use-of-calcium-channel-blockers/

http://www.medscape.com/viewarticle/808935

Mercoledì, 08 Ottobre 2014 08:02

ZUCCHERO: LA NUOVA DROGA?

08-10-2014

Quando si parla di tossicodipendenza l’associazione che automaticamente facciamo è con l’uso di droghe. Tuttavia, le dipendenze, nelle sue varie forme e gravità, possono essere molteplici. Tra le tante, possiamo citare quella da fumo, da alcol…e, perché no, anche da TV, Internet e così via – e dunque non necessariamente da droga. Ora, un nuovo studio ha posto l’accento su una possibile dipendenza – per altro già suggerita anche da precedenti ricerche – derivante dallo zucchero. Secondo la dottoressa Jacqueline Alwill, nutrizionista, lo zucchero sarebbe in grado di creare una dipendenza pari, se non peggio, a una droga pesante come l’eroina.
La dottoressa Alwill avverte, attraverso le pagine del Daily Telegraph, che lo zucchero raffinato ci sta rendendo via via più grassi e inclini alle malattie a lungo termine. Nella fattispecie, questo consumo ha aumentato in modo significativo il rischio di diabete, ci ha causato un diffuso invecchiamento precoce, ha minato i nostri livelli di energia e spesso ha portato all’obesità. Lo zucchero raffinato, secondo la nutrizionista, avrebbe un impatto deleterio sul nostro sistema ormonale e il suo corretto funzionamento. Tutto questo è un grande problema di salute pubblica e lo possiamo osservare, dati alla mano, grazie al crescente numero di individui che sono affetti da obesità, diabete, sindrome metabolica e malattie cardiovascolari.
Lo zucchero che assumiamo giornalmente è molto più di quello che pensiamo e dovremmo. Si assume non solo direttamente, magari zuccherando il caffè, ma insieme a molti altri cibi durante tutta la giornata – così, alla fine, il totale supera spesso le dosi raccomandate. Questa situazione, secondo Alwill, è in tutto e per tutto uguale a quanto accade con una dipendenza da droga: si sente il bisogno di introdurre zucchero nell’organismo per mettere a tacere il desiderio che proviamo e che, se non accontentato, ci fa provare una sorta di crisi d’astinenza. Il circolo diviene così vizioso e difficile da interrompere e alla fine presenta il conto sotto forma di malattie, spesso serie e croniche. Attenzione dunque a quanto zucchero raffinato, ossia quello più utilizzato, introduciamo nella nostra dieta.

 

http://www.dailytelegraph.com.au/news/nsw/sugar-is-exposed-as-a-deadly-addiction-that-turns-sweet-life-sour/story-fni0cx12-1226686558161?nk=9a0cb7cfbea51cef839bee92d7707d95

07-10-2014

Che la chemio e radioterapia causano nei malati di cancro affaticamento e debolezza, è ben noto, ma un semplice composto a base di ginseng riesce ad aiutarli a recuperare forza ed energia, secondo i risultati di un nuovo studio che esalta ulteriormente i benefici di questa radice. Gli scienziati, che hanno pubblicato i loro risultati sulla rivista del National Cancer Institute, hanno dimostrato che i malati di cancro e i sopravvissuti che si sentivano stanchi o pigri, dopo due mesi di supplementazione con ginseng, stavano decisamente meglio. ”Quasi tutti i pazienti con cancro possono soffrire di affaticamento sia al momento della diagnosi che durante il trattamento e anche dopo ”spiega l’autore della ricerca Debra Barton, della Mayo Clinic di Rochester in Minnesota. ”Il problema della fatica cancro-correlata è che può manifestarsi come una profonda stanchezza che non è alleviata dal sonno o riposo e può incidere in modo significativo sulla capacità delle persone di realizzare le cose che sono abituate a fare ogni giorno“, ha dichiarato Barton alla Reuters Health. I ricercatori hanno aggiunto che il ginseng aveva conseguito risultati promettenti sulla stanchezza anche in studi precedenti riportati sulla rivista La salute della Reuters, che ha riferito: ”I malati di cancro che soffrono di stanchezza e affaticamento, si rivolgono spesso ad integratori alimentari, come il coenzima Q-10, L-carnitina e guaranà, ma non tutti sono supportati da prove”. Per osservare più da vicino gli effetti del ginseng, Barton ed i suoi coautori hanno divisi 364 persone affette da fatica legata al cancro, in due gruppi: un gruppo ha assunto 2.000 milligrammi di ginseng al giorno per otto settimane, un altro ha assunto capsule di placebo.
I partecipanti hanno riferito il loro stato di fatica, compilando un questionario specializzato. Gli scienziati quindi hanno ponderato le loro risposte su una scala di 100 punti – i punteggi più alti indicavano più energia. Entrambi i gruppi coinvolti hanno iniziato lo studio con ”40″, un punteggio medio. Otto settimane dopo, però, il gruppo che ha assunto il ginseng ha riportato 20 punti di aumento del punteggio complessivo, rispetto a un aumento di soli 10 punti dell gruppo trattato con il placebo. Inoltre, gli effetti collaterali del trattamento con chemioterapia - nausea, vomito, ansia - erano più lievi tra le persone che hanno assunto il ginseng. “Il ginseng è molto interessante perché agisce sull’infiammazione e pensiamo che l’infiammazione spiega la fatica cancro-correlata”, concludono i ricercatori.

 

http://jnci.oxfordjournals.org/content/105/16/1230.abstract?sid=fdbaeaf9-24ea-4408-96e6-f3659fcc9988

http://www.mayo.edu/research/forefront/ginseng-fights-fatigue-cancer-patients

http://www.ascopost.com/issues/september-1,-2013/american-ginseng-improves-cancer-related-fatigue.aspx

Martedì, 07 Ottobre 2014 06:26

DORMIRE POCO FA VENIRE LE RUGHE.

07-10-2014

Qualcuno ha mai sentito parlare del “sonno di bellezza”? Un tempo era uso comune citare questo detto perché si riteneva che dormire un numero adeguato di ore facesse bene alla pelle, e quindi alla bellezza. Il credo popolare che il sonno facesse bene alla pelle del viso è stato poi confermato da diversi studi scientifici, tra cui uno pubblicato qualche tempo fa sul British Medical Journal (BMJ) in cui si suggeriva come il dormire almeno otto ore a notte rendesse più belli. Ora, un nuovo studio ha fatto il ragionamento opposto: ossia dormire poco rende più brutti. Secondo i ricercatori del University Hospitals (UH) Case Medical Center di Cleveland (Usa), infatti, uno scarso sonno accelera l’invecchiamento della pelle. Ma non solo.
Lo studio, che è stato commissionato da una nota azienda di prodotti di bellezza, la Estee Lauder, è andato tuttavia oltre al semplice effetto sulla bellezza da parte del poco sonno – come per esempio la comparsa precoce delle rughe – ma ha mostrato che i danni alla pelle possono avere anche ritorsioni sulla salute. Per esempio, dormire poco aumentava da una parte i segni dell’invecchiamento cutaneo e dall’altra causava un più lento recupero nei confronti di tutta una serie di fattori di stress ambientali. Oltre a ciò, vi era una rottura della barriera cutanea o ultravioletta (UV). Infine, i partecipanti allo studio, quotati sulla percezione del proprio aspetto hanno ottenuto una peggiore valutazione della propria pelle e dell’aspetto del viso. «Il nostro studio – spiega la dottoressa Elma Baron, dermatologa, principale autore dello studio e Direttore del Centro Studi della pelle presso l’UH Case Medical Center – è il primo a dimostrare definitivamente che il sonno insufficiente è correlato con una ridotta salute della pelle e accelera l’invecchiamento cutaneo». «Le donne private del sonno – prosegue Baron – mostrano segni di invecchiamento precoce della pelle e una diminuzione nella capacità della loro pelle di recuperare dopo l’esposizione al Sole».
Non dormire un numero adeguato di ore ha dunque ripercussioni sulla pelle in diversi modi. Ricordiamo che le funzioni epiteliali sono molto importanti così come la barriera che costituisce una protezione dai fattori di stress ambientali, le tossine e i raggi UV dannosi, che possono causare modifiche al Dna. Chi dormiva le giuste ore, per esempio, mostrava un maggiore e più veloce recupero dai danni indotti alla pelle dallo stress ambientale; al contrario, chi dormiva poco mostrava una maggiore lentezza e difficoltà nel recupero – Baron e colleghi hanno trovato che chi aveva carenza di sonno ci metteva più tempo nel guarire da scottature, arrossamenti ed eritemi, con tempi che andavano oltre le 72 ore, mostrando una difficoltà nell’efficienza riparatoria della pelle e del sistema immunitario. «Il sonno insufficiente è diventata una epidemia a livello mondiale – sottolinea Baron – Mentre la privazione cronica di sonno è stata collegata a problemi di salute come l’obesità, il diabete, il cancro e il deficit immunitario, i suoi effetti sulla funzione della pelle erano finora sconosciuti». Ora sappiamo che fare i gufi non è buona cosa, sia dal punto di vista della bellezza che della salute.

 

http://www.sciencedaily.com/releases/2013/07/130723155002.htm

07-10-2014

Sono molti gli uomini che soffrono di una condizione nota con il nome di “nicturia” – una condizione correlata alla sindrome della vescica iperattiva – che li costringe ad alzarsi di notte per urinare, anche diverse volte. Questa fastidiosa condizione che disturba il sonno, secondo gli scienziati australiani dell’Università di Adelaide potrebbe tuttavia arrecare ben più che un semplice disagio: potrebbe infatti essere un segno della possibile presenza e sviluppo di malattie serie come quelle cardiache e il diabete. «La necessità di urinare durante la notte è un problema di immagazzinamento dell’urina, e questo disturba il sonno – spiega nel comunicato Adelaide il professor Gary Wittert, a capo del Discipline of Medicine alla UA e Direttore dell’University’s Freemasons Foundation Centre for Men’s Health – Si tratta di un segnale e può anche esacerbare altre condizioni di salute. La nicturia, combinata con la sensazione di non essere in grado di trattenere l’urina, o la minzione frequente, suggeriscono la presenza della sindrome della vescica iperattiva. Stiamo cominciando a capire la più ampia rilevanza di questa condizione in relazione ad altri problemi di salute». La nicturia, tuttavia, è un fenomeno piuttosto diffuso tra i maschi di mezza età, così come la sindrome da vescica iperattiva. In Italia, si stima che a esserne colpite siano circa 3 milioni di persone, di entrambi i sessi. Circa un uomo su cinque, oltre i 40 anni, pare ne sia affetto; e circa un terzo oltre i 70 anni.
La ricerca, pubblicata prima della stampa sulla versione online del Journal of Urology, suggerisce che la nicturia possa avere a che fare anche con problemi diversi che non soltanto con la prostata, come si è sempre ritenuto. «Questi problemi urinari sono associati ad altre condizioni, come l’apnea del sonno, la depressione o l’ansia, e l’obesità – spiega il dottor Sean Martin, autore principale dello studio – La buona notizia è che molti di questi problemi sono curabili o modificabili, e lo abbiamo visto nel nostro studio che gli uomini possono superare i loro problemi urinari se i problemi di fondo sono gestiti correttamente». «La nicturia e la sindrome della vescica iperattiva sono anche fattori di rischio per il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari – aggiunge il professor Wittert – Spesso, quando un uomo si presenta al proprio medico di famiglia per i problemi urinari, il primo presupposto è che è tutta colpa della prostata, tuttavia, il nostro messaggio è: gli uomini che soffrono di uno qualsiasi di questi problemi di evacuazione sono anche suscettibili di essere affetti da una serie di altri problemi di salute che devono essere ricercati e gestiti. In questo modo, gli uomini hanno una maggiore possibilità di invertire i loro problemi alla vescica e potenzialmente prevenire le malattie più gravi».

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23770136

05-10-2014

Dal peperoncino potrebbe arrivare una cura contro il tumore alla prostata. Ricercatori americani e giapponesi hanno scoperto che la capsaicina, la sostanza che rende piccante il peperoncino, spinge le cellule tumorali a suicidarsi. Il meccanismo attivato dal peperoncino è detto apoptosi o morte cellulare programmata. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica ‘Cancer Research’, è stato condotto finora solo su cavie cui erano state impiantate e fatte proliferare cellule tumorali umane. Nei topi alimentati con capsaicina, la massa tumorale si è ridotta fino a diventare mediamente un quinto di quella delle cavie non curate. Curare i tumori nell’uomo è molto più difficile che non nelle cavie, ma la ricerca potrebbe aprire un nuovo orizzonte terapeutico. Ai topi è stato somministrato tre volte alla settimana una quantità di capsaicina pari a quella che si può trovare in tre-otto peperoncini freschi. "La capsaicina ha un notevole effetto anti-proliferativo sulle cellule del tumore alla prostata in coltura”, ha confermato il dottor Soren Lehmann dell’ospedale Cedars-Sinai e della Scuola di medicina di Los Angeles, dell’università della California. Inoltre, ha proseguito, l’alcaloide ha “notevolmente rallentato lo sviluppo di tumori alla prostata formati da linee cellulari umane cresciute nelle cavie”.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16540674

05-10-2014

Una dieta ad alto contenuto di fruttosio aumenta il rischio di sviluppare l'ipertensione. A sostenerlo è uno studio presentato dall'American Society of Nephrology nel corso del 42 Annual Meeting and Scientific Exposition a San Diego, in California. Diana Jalal dell'University of Colorado Health Sciences Center di Denver (Stati Uniti) e colleghihanno studiato 4.528 adulti sani dai 18 anni in su, senza precedenti storie di ipertensione, dei quali hanno valutato l'assunzione di fruttosio sulla base di un questionario dietetico. I ricercatori hanno rilevato che per coloro che assumevano più di 74 grammi al giorno di fruttosio, contenuto in diversi cibi tra cui datteri secchi, fichi secchi, miele e bevande con zuccheri aggiunti, il rischio di sviluppare l'ipertensione aumentava del 26%, 30% e 77% per chi, rispettivamente, aveva i livelli di pressione arteriosa a 135/85, 140/90 e 160/100 mmHg (una pressione arteriosa normale si attesta intorno a 120/80 mmHg). "Questi risultati - concludono i ricercatori - indicano che un elevato introito di fruttosio sotto forma di zuccheri aggiunti è significativamente e indipendentemente associato a livelli più elevati di pressione arteriosa nella popolazione adulta senza problemi di ipertensione".

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20595676

05-10-2014

Ricercatori del Department of Chemical Engineering, presso la canadese McGill University hanno di recente condotto uno studio in cui si è dimostrato quali sono i meccanismi biologici per cui i mirtilli agiscono come agenti protettivi nei confronti di diversi tipi d’infezione, tra cui le più note infezioni delle vie urinarie. Sono diversi i batteri che causano le infezioni delle vie urinarie, che nella maggioranza dei casi sono trattare farmacologicamente con antibiotici. Tuttavia, si è sempre ritenuto che frutti di bosco come i mirtilli avessero proprietà benefiche contro questo genere d’infezione, ma quello che forse mancava era la comprensione di quale fosse il meccanismo biologico che sottendeva a queste proprietà. Ora, la professoressa Nathalie Tufenkji e colleghi della McGill hanno osservato come un estratto di mirtillo abbia la capacità di inibire l’azione del batterio Proteus mirabilis, noto per essere responsabile delle infezioni del tratto urinario.
I risultati dello studio, pubblicato sul Canadian Journal of Microbiology, mostrano il potenziale dell’estratto secco di mirtillo nel combattere l’infezione e nel prevenirla: per cui i ricercatori ritengono che questo estratto possa essere utilizzato nel prevenire la colonizzazione batterica in dispositivi medici quali, per esempio, i cateteri. I test condotti in laboratorio dai ricercatori hanno altresì mostrato che l’aumentare della concentrazione della polvere di mirtillo poteva ridurre lo sviluppo e la produzione di ureasi da parte dei batteri, un enzima che contribuisce alla virulenza delle infezioni. Per cui se ne deduce che l’effetto antibiotico dell’estratto in polvere di mirtillo è dose-dipendente, ma comunque efficace nel trattamento e prevenzione delle infezioni delle vie urinarie.

 

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Canadian+Journal+of+Microbiology+Nathalie+Tufenkji

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