Angelo Ortisi

Angelo Ortisi

Martedì, 05 Marzo 2019 13:33

CISTITE: 10 RIMEDI NATURALI.

06-03-2019

La cistite è un disturbo molto comune i cui sintomi tipici possono essere costituiti da bruciori e dolori al basso ventre e da frequente bisogno di urinare. Per la cura della cistite, esiste la possibilità di ricorrere ad alcuni rimedi naturali molto efficaci, alcuni dei quali venivano messi in pratica dalle nostre nonne e bisnonne in caso di necessità.

1. TISANA ALLA MALVA

La tisana alla malva è uno dei rimedi naturali più facilmente utilizzabili in caso di cistite, soprattutto se tale pianta curativa è presente in giardino o viene tenuta a portata di mano coltivandola in vaso. Avendo a disposizione fiori e foglie fresche di malva, è possibile utilizzarne 15 grammi ogni 500 millilitri d'acqua per la preparazione di una tisana sotto forma di decotto. I fiori e le foglie devono essere lasciati bollire per dieci minuti ed in seguito filtrati. Con la malva essiccata, è possibile preparare una tisana sotto forma di infuso, lasciando riposare in acqua bollente per 10 minuti due cucchiaini di estratto e filtrando in seguito il liquido. E' possibile consumare due tazze di infuso di malva al giorno. Nei casi lievi di cistite, il sollievo potrà risultare immediato. La malva gode infatti di proprietà calmanti e disinfiammanti.

2. SUCCO DI MIRTILLI ROSSI

Il succo di mirtilli rossi, dalle proprietà antinfiammatorie, è utile sia per prevenire una cistite ricorrente, sia per contrastare i primi sintomi. Ne andrebbero consumati due bicchieri al giorno. Il succo di mirtilli rossi è considerato efficace nel combattere le infezioni alle vie urinarie. È inoltre possibile reperire in erboristeria prodotti fitoterapici a base di estratti di mirtillo rosso, adatti nei casi di cistite più acuti.

3. UVA URSINA

L'uva ursina è una pianta officinale arbustiva adatta ad essere impiegata per la preparazione di rimedi erboristici da impiegare in caso di cistite e di infiammazione alle vie urinarie. L'uva ursina può essere utilizzata per la preparazione di tisane ed associata ad altri rimedi naturali, come gli estratti di mirtillo rosso.

4. CORBEZZOLO

Le foglie di corbezzolo vengono utilizzate per la preparazione di rimedi erboristici adatti ad essere impiegati in caso di cistite. Il corbezzolo viene considerato come una pianta officinale che può essere sostituita all'uva ursina per la cura delle vie urinarie, oppure impiegata in sinergia con essa.

5. ERICA

L'erica è una pianta officinale utilizzata tradizionalmente per la cura delle infezioni alle vie urinarie. Il suo utilizzo è ormai considerato sicuro ed efficace ed essa può essere sostituita o affiancata al corbezzolo o all'uva ursina nelle preparazioni fitoterapiche. Essa presenta proprietà astringenti e lenitive, oltre che diuretiche ed antisettiche.

6. CALENDULA

La calendula viene utilizzata nella cura della cistite per via delle sue proprietà antimicrobiche. Per tale motivo essa viene spesso abbinata alla malva nelle preparazioni erboristiche, in modo che i suoi effetti benefici possano essere uniti alle proprietà lenitive e disinfiammanti della malva. La calendula può inoltre essere abbinata all'erica nella preparazione di tisane curative.

7. ECHINACEA

Conosciamo l'echinacea come una pianta officinale adatta alla preparazione di tisane e di altri rimedi erboristici utili per rafforzare le difese immunitarie e per la prevenzione di raffreddore e influenza. Essa si rivela però adatta anche in caso di cistite, soprattutto nella preparazione di tisane, in abbinamento con altre piante curative, come la malva.

8. BICARBONATO DI SODIO

Il bicarbonato di sodio è considerato un rimedio efficace contro la cistite. È necessario sciogliere un cucchiaino di bicarbonato di sodio in un bicchiere d'acqua. Quattro o cinque bicchieri al giorno potranno dare sollievo da i sintomi della cistite. Si tratta di un rimedio sconsigliato a coloro che soffrono di ipertensione o problemi cardiaci, ma considerato utile a diminuire l'acidità delle urine e lo stato di infiammazione. Nei negozi di prodotti biologici è possibile acquistare del bicarbonato di sodio naturale purissimo.

9. PILOSELLA

La pilosella è una pianta officinale considerata particolarmente adatta in caso di cistite. Si tratta di una pianta erbacea perenne che dà origine ad un fiore simile al tarassaco, ma riconoscibile per le foglie dalla superficie "pelosa". Presenta proprietà lenitive ed antinfiammatorie, sfruttabili attraverso la preparazione di tisane.

10. ORTICA

L'ortica, come la malva, è considerata tra le piante officinali in grado di donare un sollievo immediato in caso di cistite lieve. Può essere inoltre utilizzata come rimedio preventivo nelle persone che soffrono di cistiti ricorrenti. L'ortica ha proprietà diuretiche e può essere impiegata per la preparazione di tisane, utilizzandone le foglie essiccate. Due cucchiaini delle stesse per ogni tazza devono essere lasciate in infusione in acqua bollente per una decina di minuti per ottenere un infuso curativo.

06-03-2019

METALLI PESANTI

I metalli pesanti causano una vasta gamma di danni metabolici, specialmente al sistema immunitario. L’esposizione al mercurio, al piombo, al cadmio e all’arsenico può causare disturbi immunologici. Il piombo (presente nelle vernici vecchie e nei tubi di rame) e il cadmio (contenuto nel fumo di sigaretta) causano immunodepressione inibendo la formazione di anticorpi e riducendo l’attività battericida dei globuli bianchi. Il mercurio (presente nell’amalgama per otturazioni dentarie e nel pesce contaminato) inibisce la produzione di anticorpi.

PESTICIDI

I pesticidi sono potenti inibitori della risposta immunitaria. William Rae, un autorevole esperto di medicina ambientale, ha constatato un abbassamento dei livelli di cellule T e B nell’81% di 107 pazienti esposti a pesticidi. Ha osservato inoltre un aumento della frequenza di anomalie nei parametri immunitari di 40 pazienti con ipersensibilità chimiche documentate. A mano a mano che i pesticidi venivano eliminati, 6 dei 40 pazienti hanno avuto un miglioramento dell’attività delle cellule T e B. Purtroppo i pesticidi sono ormai presenti in quasi tutti i paesi del mondo. 
La diossina è una sostanza inquinante molto conosciuta e altamente tossica che entra nella composizione dei pesticidi. Anche a dosaggi bassi, provoca atrofia del timo e immunodepressione generalizzata. Inibisce inoltre i linfociti e altre componenti del sistema immunitario. L’esposizione ai pesticidi avviene in vari modi: attraverso i prodotti agricoli non biologici, gli insetticidi per uso domestico e non, in seguito alla fumigazione delle cabine degli aerei ecc. Anche il semplice gesto di spruzzare insetticida su un insetto ci espone a queste tossine.

FARMACI

Molte persone prendono farmaci da banco quali l’aspirina, il paracetamolo e l’ibuprofene per disturbi come il raffreddore senza pensare troppo alla tossicità e all’impatto che queste sostanze possono avere sul loro sistema immunitario, mentre ci sarebbero ottime ragioni per preoccuparsene. Alcuni ricercatori hanno effettuato un esperimento in doppio cieco, controllato con placebo, riguardo agli effetti di questi analgesici/antipiretici, ottenibili anche senza prescrizione medica, sull’eliminazione del virus, la risposta immunitaria e lo stato clinico nel raffreddore. A sessanta volontari sani è stato fatto inalare il virus del raffreddore (Rhinovirus tipo II), dopodiché son ostati suddivisi in quattro gruppi a seconda del tipo di trattamento ricevuto: aspirina, paracetamolo, ibuprofene o placebo. L’infezione ha attecchito in cinquantasei soggetti. Coloro che prendevano l’aspirina e il paracetamolo hanno avuto una minor produzione di anticorpi e un aumento della sintomatologia a livello nasale. Pur non essendoci una differenza statistica significativa nell’eliminazione del virus (cioè nella sua espulsione attraverso la pelle) tra i quattro gruppi, si è notato che questo processo durava più a lungo nei soggetti che avevano preso aspirina o paracetamolo.
Una delle classi di farmaci più dannose per il sistema immunitario è quella dei glucocorticoidi (per esempio il cortisone) che, usati comunemente per inibire le reazioni infiammatorie, purtroppo inibiscono anche il sistema immunitario riducendo il numero di linfociti, indebolendo la reazione monocitaria agli agenti patogeni, ostacolando l’azione battericida e il movimento dei neutrofili verso la sede dell’infezione e inibendo la produzione di interferone. In determinate circostanze, per esempio nelle infezioni da herpes degli occhi e della zona perioculare, i glucocorticoidi possono essere estremamente pericolosi. Il loro uso in questi casi può far estendere l’infezione al punto da lasciare cicatrici sul bulbo oculare.
Anche gli agenti citotossici (ovvero i farmaci usati nella chemioterapia antitumorale) hanno un effetto immunosoppressore analogo. Possono impedire la sintesi degli anticorpi, inibire la risposta immunitaria cellulo-mediata e diminuire il numero e la funzionalità dei neutrofili. Danneggiano inoltre le mucose, che rappresentano la prima linea di difesa del corpo contro gli agenti patogeni e l’ambiente. Il risultato finale è che una persona sottoposta a terapia antitumorale diventa più vulnerabile allo sviluppo di altri tumori o infezioni.

IMPIANTI DI SILICONE

Gli impianti di silicone sono stati molto usati dalle donne per le protesi al seno e dagli uomini per aumentare la muscolatura. Purtroppo si è poi scoperto che questa procedura ha degli spiacevoli effetti collaterali. Gli impianti di silicone bloccano l’attività delle cellule natural killer nel 50% dei pazienti e danno luogo ad alcuni sintomi caratteristici. Fortunatamente sia i sintomi sia le anomalie delle cellule natural killer spariscono non appena l’impianto viene rimosso. Più sconcertante è l’apparente aumento dell’incidenza delle malattie autoimmuni, come il lupus eritematoso, nei portatori di impianti di silicone.

SOLVENTI ORGANICI

L’esposizione ai solventi organici (come solventi per pittura, derivati del petrolio e detersivi per tappeti) può causare una diminuzione dell’attività delle cellule natural killer e un aumento degli autoanticorpi, cioè degli anticorpi prodotti dall’organismo contro i suoi stessi tessuti, che rappresenta un fenomeno molto grave.

05-03-2019

"L'osso è una sostanza vivente che dipende da un costante rifornimento di sostanze nutritive per la fabbricazione della matrice osteoide e la sua successiva mineralizzazione", afferma il dottor Ronald Barret, sul Journal of Periodontology-Periodontics. "In condizioni fisiologiche - spiega il dottor Barret - le ossa dell'adulto vengono costantemente ed egualmente formate e distrutte. Perciò, due gruppi principali di meccanismi sono all'opera". Entrambi questi meccanismi hanno bisogno di vitamina D. A causa di alcune dichiarazioni da parte della classe medica e della FDA, le quali dichiarano che gli adulti non hanno bisogno di vitamina D, moltissime persone hanno timore di includere questa vitamina nella loro dieta quotidiana e ciò potrebbe essere uno dei motivi dell'incidenza sempre crescente di malattie quali l'osteoporosi, i reumatismi e l'osteomalacia (che può considerarsi il rachitismo degli adulti). Questo atteggiamento potrà mutare tra breve, poichè, come ha affermato il dottor Samuel Vaisrub sul Journal of the American Medical Association, "i recenti sviluppi delle ricerche sulla vitamina D sono realmente portentosi e attraggono attualmente l'attenzione dei medici interessati al metabolismo del calcio e al trattamento dei suoi disordini". Alcuni ricercatori della Washington University School of Medicine e del Jewish Hospital (entrambi a St. Louis, Missouri) hanno rilevato che la vitamina D può servire a risolvere un problema che ha tormentato a lungo medici e pazienti, attestando la perdita ossea che produce fratture inabilitanti e collassi vertebrali in pazienti sottoposti a cure steroidi. I medici fanno ovviamente ogni possibile sforzo per attenuare queste condizioni dolorose, come per esempio, l'artrite reumatoide, senza far ricorso alla terapia a base di corticosteroidi, perchè, per ottenere un sollievo temporaneo, il prezzo da pagare in effetti collaterali è troppo elevato. Il dottor Tom Spies affermava molto tempo fa che i dolori meno gravi dell'artrite potrebbero essere curati con una terapia vitaminica, e che egli usava il trattamento ormonico solo per i grandi dolori. Mentre gli steroidi hanno l'azione di ridurre il gonfiore e alleviare il dolore, troppo spesso il paziente, sbarazzandosi dei suoi dolori alle giunture si ritrova con le ossa fratturate. Ma, secondo i risultati delle ricerche condotte a St. Louis, le fratture ossee non devono essere necessariamente il pedaggio da pagare per i pazienti curati con steroidi o almeno non lo saranno se a questi pazienti si somministrano anche elevate dosi di vitamina D. In effetti, il processo di riassorbimento osseo provocato dagli steroidi può, secondo la dottoressa Bevra Hahn, della Washington University, venire invertito con la somministrazione di vitamina D che, com'è noto, facilita l'assorbimento intestinale del calcio. Poichè la terapia a base di steroidi blocca l'assorbimento intestinale del calcio, induce anche una sorta di iperparatiroidismo (iperattività delle ghiandole paratiroidi), secondo quanto ha comunicato la dottoressa Hahn alla Arthritis Foundation di Los Angeles.
I pazienti sottoposti a terapia a base di steroidi soffrono frequentemente di fratture da compressione della spina dorsale. Talvolta basta un vigoroso starnuto per rompere alcune vertebre. Si pensa che questa conseguenza dolorosa e inabilitante avvenga perchè la terapia a base di steroidi causa la perdita di tessuto trabecolare (che sostiene filamenti di tessuto connettivo) più che di osso corticale (le lunghe ossa esterne). Questo stesso fenomeno, come ha verificato la dottoressa Hahn, è caratteristico dell'iperparatiroidismo primario, una malattia che si tiene sotto controllo con la vitamina D. Poichè la vitamina D corregge la perdita di osso trabecolare causata dall'iperattività della ghiandola paratiroide, potrà servire anche a riparare alla perdita di questo osso sofferta dal paziente trattato con steroidi. La dottoressa Hahn organizzò un esperimento per rispondere a questo interrogativo. Mediante un procedimento chiamato osteodensitometria, riuscì a misurare sia la massa di osso corticale che quella di osso trabecolare in diversi gruppi di pazienti. Alcuni di essi erano osteoporotici, altri soffrivano di artrite reumatoide e non ricevevano steroidi, altri ricevevano steroidi, altri ancora soffrivano di iperparatiroidismo primario. E' interessante notare che sia gli ammalati di osteoporosi che quelli con artrite reumatoide, che non ricevevano steroidi, presentavano una diminuzione del 20% sia nell'osso corticale che nell'osso trabecolare. Invece gli artritici che ricevevano steroidi e i sofferenti di iperparatiroidismo primario rivelavano molte maggiori perdite di osso trabecolare che di osso corticale. Infatti, la maggior parte dei pazienti aveva perduto il 40-50% di osso trabecolare. La dottoressa Hahn e la sua èquipe iniziarono quindi un trattamento con 50.000 U.I. di vitamina D per bocca ogni lunedì, mercoledì e venerdì per 13 settimane. Quindi si ripeterono le misurazioni dell’osteodensitometria. Proprio come aveva previsto la Hahn, vi erano stati alcuni straordinari miglioramenti: 9 dei 10 pazienti osservati presentavano un aumento della densità ossea trabecolare. Gli effetti della vitamina D vennero ulteriormente confermati quando si ripeterono le misurazioni su cinque pazienti artritici che ricevevano steroidi e non vitamina D. Gli indici rivelavano un peggioramento in tutti e cinque: in ciascuno dei casi vi era stata un'ulteriore perdita di osso trabecolare.

05-03-2019

Alti livelli di zucchero nel sangue sono associabili a un maggior rischio di sviluppare demenza anche tra le persone non affette da diabete. Lo ha dimostrato un nuovo studio dell’Università di Washington pubblicato sul New England Journal of Medicine. La ricerca ha coinvolto più di duemila persone dai sessantacinque anni in su. Dai risultati è emerso che negli individui non diabetici il rischio di demenza è del 18% in più per chi ha un livello di glucosio medio di 115 milligrammi per decilitro rispetto a chi mostra una media di cento milligrammi per decilitro.
Mentre tra i diabetici, i cui livelli di zucchero nel sangue sono generalmente più alti, il rischio di demenza è del 40% più elevato tra le persone con un livello medio di glucosio di 190 mg/dl rispetto a quelle con una media di 160 mg/dl. “La scoperta più interessante del nostro studio – ha spiegato Paul Crane, autore dell’indagine con Eric Larson – è che ogni incremento nei tassi di glucosio è associabile ad un rischio maggiore di insorgenza di demenza tra i non diabetici”.

 

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1215740

04-03-2019

Si parla spesso dell’anemia e degli effetti di una carenza di ferro per la nostra salute, mentre poco viene detto su l’aspetto contrario, l’eccesso di ferro nel sangue che sembra essere molto più comune e pericoloso. In questo articolo scopriremo perché con l’avanzare dell’età è importante monitorare attraverso le analisi del sangue il suo valore, quali sono i marcatori da tenere sotto controllo e come abbassarne un eventuale alto livello.
Si stima che il 75% della popolazione mondiale, concentrata tra gli uomini adulti e tra le donne in menopausa, non abbia bisogno di incrementare le proprie riserve di ferro, ma anzi le debba monitorare regolarmente per non incorrere nel rischio di un sovraccarico. Le donne in età fertile perdono periodicamente quantità di ferro attraverso il flusso mestruale e sono al riparo da un eventuale accumulo nell’organismo. In tutti gli altri casi il corpo non ha grandi possibilità di eliminarne l’eccesso. Solo un milligrammo di ferro viene rilasciato attraverso il sudore, il ricambio cellulare, e i piccoli sanguinamenti dell’apparato gastrointestinale. Anche se vi è una malattia genetica chiamata emocromatosi che induce il corpo ad accumulare livelli eccessivi e pericolosamente dannosi di ferro, per prendersi cura di questo aspetto, non è necessario avere questa diagnosi.

PERCHE’ È IMPORTANTE TENERE SOTTO CONTROLLO IL LIVELLO DEL FERRO?

Alti livelli di ferro rappresentano un serio pericolo per la salute. Possono creare danni agli organi, ai tessuti e alle articolazioni ed è un acceleratore di tutte le malattie che conosciamo fino a portare ad una morte prematura. Spesso, purtroppo, questo parametro è sottovalutato dai medici e dagli operatori sanitari e la letteratura medica semplicemente non vi pone la giusta attenzione. In realtà monitorare annualmente il proprio valore del ferro, è un’abitudine salvavita ed ora vedremo meglio perché.

UN ECCESSO DI FERRO NEL SANGUE STIMOLA UNA MAGGIORE PRODUZIONE DI RADICALI LIBERI

Livelli ottimali di ferro garantiscono una sana produzione di energia attraverso la produzione di molecole di ATP da parte dei mitocondri, preziosi organelli presenti nelle cellule. Questo processo metabolico libera il perossido d’idrogeno, la comune acqua ossigenata che di per sé non è dannosa, ma lo diventa in presenza di alti livelli di ferro. Se nel flusso sanguigno circola del ferro che al corpo non serve e non usa, questo si lega alle molecole di perossido d’idrogeno (reazione di Fenton), trasformandole in un pericoloso radicale libero, il radicale ossidrile (OH) che danneggia il DNA dei mitocondri, le proteine di trasporto degli elettroni mitocondriali e le membrane cellulari.

UN ECCESSO DI FERRO NEL SANGUE OSTACOLA LA PERDITA DI PESO E PUO’ PORTARE ALL’OBESITA’

Il ferro è un fattore di crescita e diversi studi hanno messo in evidenza come vi sia una relazione tra l’aumento del consumo di integratori di ferro negli ultimi decenni ed il suo conseguente accumulo nel sangue, e l’aumento del tasso di obesità. Quindi se siamo in sovrappeso e non riusciamo a dimagrire né con la dieta né con l’attività fisica, è bene dare un’occhiata al nostro livello ematico di ferro.

UN ECCESSO DI FERRO NEL SANGUE E’ASSOCIATO AD UN RISCHIO PIU’ ALTO DI SVILUPPARE IL DIABETE DI TIPO 2

Diverse indagini scientifiche hanno rilevato come uomini adulti con elevate riserve di ferro, abbiano una probabilità da 2 a 4 volte superiore di sviluppare il diabete di tipo 2 rispetto agli uomini con scarse riserve di ferro. Si ritiene dunque che il ferro influisca sui livelli di glucosio e d’insulina nel sangue. Un modo per prevenire il rischio di contrarre il diabete, è quello di donare il sangue. È stato accertato infatti che chi dona il sangue frequentemente, sviluppa una maggiore sensibilità all’insulina.

UN ECCESSO DI FERRO NEL SANGUE AUMENTA LA POSSIBILITA’ DI AVERE UN ICTUS O UN ATTACCO CARDIACO

Gli stessi studi hanno evidenziato come i donatori di sangue abbiano il 50% di probabilità in meno di subìre un attacco cardiaco o essere colpiti da ictus. Un altro studio pubblicato nel 1976 sugli Annals of Internal Medicine condotto su trentamila soggetti sani, ha evidenziato come il rischio di malattie cardiache aumenti notevolmente nelle donne dopo l’entrata in menopausa. Gli scienziati sono concordi nell’affermare che il ferro contribuisce alla formazione del colesterolo ossidato (LDL) e al danneggiamento dell’endotelio, le cellule del rivestimento interno dei vasi sanguigni portando all’aterosclerosi.

UN ECCESSO DI FERRO NEL SANGUE PREDISPONE ALL’ALZHEIMER E AL MORBO DI PARKINSON

Abbiamo già detto come con l’avanzare dell’età aumenti la concentrazione di ferro nel sangue. Per gli studiosi questo sembra essere uno dei motivi per cui le malattie neurodegenerative compaiono durante la vecchiaia. È un dato di fatto inoltre come nelle placche che si formano nel cervello dei malati di Alzheimer, siano presenti alte concentrazioni di ferro.

UN ECCESSO DI FERRO NEL SANGUE CONTRIBUISCE ALLA FORMAZIONE DEL CANCRO

Un eccessivo accumulo di ferro ha il suo peso anche nel favorire la formazione di vari tipi di cancro a seguito della creazione di una maggiore quantità del radicale ossidrile che danneggia il DNA dei mitocondri.

UN ECCESSO DI FERRO NEL SANGUE DANNEGGIA LE OSSA

Uno studio pubblicato nel 2009 ha rilevato come chi fosse malato di emocromatosi, avesse una maggiore predisposizione all’osteoporosi. Anche per quel che riguarda la salute delle ossa, si è rilevata quindi un’associazione con alte concentrazioni di ferro i cui livelli è bene che restino nella norma.

COME SCOPRIRE SE ABBIAMO IL FERRO IN ECCESSO

Non ci sono sintomi e segnali precisi che indicano che i livelli del ferro nel sangue stanno aumentando. Tuttavia quando i suoi valori permangono molto alti per un lungo periodo, si possono accusare i seguenti sintomi:

• dolori articolari;
• dolori addominali;
• spossatezza;
• colorito della pelle “grigiastro”;
• palpitazioni;
• appannamento mentale.

L’unico modo per scoprire se abbiamo un eccessivo accumulo di ferro, è piuttosto semplice e consiste nel sottoporsi periodicamente agli esami del sangue testando due importanti parametri: la ferritina sierica e il GGT (Gamma Glutamil Transferasi).

FERRITINA SIERICA E GGT: DUE ESAMI SALVAVITA

La ferritina sierica e il GGT (Gamma Glutamil Transferasi) sono marcatori di tossicità da ferro. La ferritina sierica ci dà la misura delle riserve di ferro presenti nell’organismo mentre il GGT è un enzima epatico. Quando il livello GGT aumenta, il glutatione, il più potente antiossidante prodotto dal corpo, diminuisce. Un valore del GGT elevato nuoce gravemente alla salute ed è indicatore di una morte prematura. La ferritina e il GGT sono interattivi ed è necessario comparare tutti e due i valori per scongiurare un’intossicazione da ferro. Se il valore del GGT è basso, siamo in gran parte protetti anche se i valori della ferritina dovessero risultare un pò più alti della norma. D’altra parte, anche se la ferritina è bassa, avere un elevato livello di GGT è motivo di preoccupazione e va riportato nella norma. Più avanti vedremo come. I livelli di ferritina sono stati misurati nella popolazione americana per la prima volta solo tra il 1971 e il 1974. Se la ferritina maschile era inferiore a 100 nanogrammi per millilitro, gli ultimi dati risalenti al 1980, ci dicono che la ferritina negli uomini è salita a 200 nanogrammi per millilitro: è praticamente raddoppiata.

QUALI SONO I VALORI DI SICUREZZA?

Studi e ricerche ci dicono che i valori attualmente ritenuti salutari non corrispondono in realtà ai valori ottimali e che la forbice del range considerato è troppo ampia. Idealmente, la ferritina sierica dovrebbe essere compresa tra 20 e 80 nanogrammi per millilitro, ma già un valore tra i 40 e 60 ng/ml è da considerarsi a rischio per uomini adulti e donne non mestruate. Se si assumono carboidrati in eccesso la situazione potrebbe peggiorare poiché si crea una sinergia potentemente velenosa che accelera ogni patologia. Come abbiamo visto, quando il corpo li usa come combustibile primario, si formano un 30-40% in più di ROS in aggiunta ai radicali liberi dell’idrossile generati dalla presenza di ferro elevato. D’altro canto occorre non far scendere i suoi valori sotto i 20 ng/ml: si rischia la carenza e l’anemia.
Cosa fare se i livelli di ferro sono troppo alti:

1. Ridurre l’assunzione di carboidrati e aumentare il consumo di grassi sani, compreso l’omega-3 di derivazione animale, per passare alla modalità brucia grassi e proteggere i mitocondri. Se si ha un eccesso di ferro, mangiare grassi sani può fare una differenza più grande di quanto si possa pensare. Ciò contribuisce a ridurre radicalmente le specie reattive dell’ossigeno (ROS) e la produzione di radicali liberi.

2. Monitorare regolarmente i valori della ferritina sierica e del GGT e, se si è donatori, donare periodicamente il sangue per abbassare i livelli. Un maschio adulto o una donna non-mestruata, dovrebbero donare il sangue almeno due volte l’anno.

3. Evitare di massimizzare l’assorbimento del ferro limitando Il consumo di cibi che ne sono ricchi in combinazione con cibi o bevande ricchi di vitamina C, poiché quest’ultima potenzia l’assorbimento del ferro. Potrebbe essere utile assumere un integratore di curcumina che agisce come un potente chelante di ferro.

ALCUNE RACCOMANDAZIONI

Provare a controllare l’alta quantità di ferro solo attraverso la dieta può essere rischioso, in quanto si rischia di eliminare e non assumere molti nutrienti preziosi. Affidarsi agli antiossidanti per sopprimere indiscriminatamente i ROS può ritorcersi contro, poiché i ROS agiscono anche come importanti molecole di segnalazione. I radicali liberi provocano danni solo se prodotti in eccesso.

IN CONCLUSIONE

Il ferro può curarci o danneggiarci. Suo compito principale è quello di legarsi alla molecola dell’emoglobina e servire da vettore di ossigeno ai tessuti. Senza una corretta ossigenazione, le cellule inizierebbero rapidamente a morire. È un minerale molto importante per il nostro corpo, e senza una quantità sufficiente non possiamo godere di una buona salute. Ma è un’arma a doppio taglio e troppo ferro può causare gravi problemi di salute.

04-03-2019

Un piatto di rucola potrebbe salvare la fertilità maschile. Gli additivi chimici provenienti da alimenti e bevande contaminati, soprattutto i BPA, possono compromettere la vitalità degli spermatozoi e rallentare la loro motilità, con buona pace della fertilità degli uomini. Ma a correre in soccorso potrebbe essere proprio la rucola, capace di proteggere gli spermatozoi dagli additivi chimici della plastica. La scoperta arriva da uno studio congiunto tra il gruppo del professor Carlo Foresta dell’Università di Padova e quello del professore Kais Rtibi dell’Università di Jendouba, in Tunisia, che parte da un presupposto: la presenza di additivi chimici nel cibo ha la capacità di compromettere la vitalità degli spermatozoi, rallentarne la motilità e porre seri problemi di infertilità.
Lo studio riguarda in particolare il bisfenolo-A (BPA), un additivo chimico di origine sintetica che migliorerebbe le proprietà meccaniche dei materiali utilizzati per le bottiglie di plastica, le capsule del caffè e i rivestimenti per alimenti. Ma il BPA influenza negativamente la funzione cellulare, aumentando la produzione di radicali liberi. Per questo, la presenza di BPA nel cibo può influenzare la vitalità delle cellule spermatiche e rallentare la loro motilità. Secondo la ricerca, è la rucola a contenere quantità molto elevate di antiossidanti tali da inattivare i radicali liberi. Ma come? Dopo un lungo contatto o a seguito di alte temperature il BPA può essere rilasciato nell’alimento e assunto per ingestione e suoi effetti sull’uomo sono studiati da anni, tanto che in molti hanno scelto di bandirlo dai prodotti per uso pediatrico.
I ricercatori italo-tunisini, coordinati da Carlo Foresta, Luca De Toni e Iva Sabović, dopo un’analisi chimica precisa dei composti contenuti nella rucola condotta nei laboratori dell’ateneo di Jendouba, hanno riscontrato che nella pianta sono contenute “quantità molto elevate di antiossidanti capaci di inattivare i radicali liberi dell’ossigeno, che alterano le più importanti funzioni cellulari inducendone la morte (apoptosi)”. Poiché il BPA influenza negativamente le funzioni cellulari inducendo proprio un’incrementata produzione di radicali liberi, i ricercatori hanno eseguito alcuni test su spermatozoi utilizzando un trattamento con l’estratto di rucola a concentrazioni crescenti.
L’estratto di rucola, dicono gli autori, “si è dimostrato capace di contrastare già a bassissimi dosaggi gli effetti tossici del BPA sulle cellule spermatiche, proprio attraverso l’azione antiossidante”. La ricerca, secondo gli esperti, è destinata a generare ricadute cliniche: “Prima fra tutte ricordiamo l’importanza di una dieta ricca di vegetali nella prevenzione delle patologie del tratto riproduttivo maschile e, a tale proposito, sono in corso studi volti a identificare la corretta dose giornaliera di rucola” spiegano gli autori. Inoltre, aggiungono, “l’estratto di rucola può rappresentare un vero e proprio presidio nutraceutico per il trattamento dell’infertilità maschile o nella preparazione degli spermatozoi durante le tecniche di procreazione medicalmente assistita: stiamo definendo i quantitativi e le percentuali specifiche”. Lo studio sperimentale sarà presentato in questi giorni ad Abano Terme (Padova) nel corso del 34esimo convegno di Medicina della Riproduzione e verrà pubblicato sulla rivista internazionale Reproductive Toxicology.

03-03-2019

C’è un rinomato neurologo in America che ai pazienti che varcano la porta del suo studio chiedendo aiuto per liberarsi dal mal di testa cronico, prescrive loro una dieta priva di glutine e latticini. Se possiamo facilmente comprendere quanto un periodo di forte stress o la mancanza di riposo possano causarci mal di testa, certo facciamo fatica a mettere in relazione questo fastidioso disturbo con le nostre abitudini alimentari. Eppure David Perlmutter, questo il nome del neurologo, ha liberato e sta liberando dal mal di testa, centinaia di pazienti grazie all’adozione di un’alimentazione priva di glutine.
Chi ne è tormentato spesso gira da un medico all’altro, assume e prova più tipi di farmaci, si sottopone a TAC, risonanze magnetiche al cervello con scarso risultato se non quello di dare un nome scientifico al proprio dolore: cefalea. La medicina infatti è unanime nell’affermare che non esiste né una cura né farmaci risolutivi per il mal di testa, ma che sono solo in grado di alleviare i sintomi di dolore. È poco consolatorio però sapere se si soffre di cefalea da sinusite o a grappolo o se si è vittima di emicrania, una forma più dolorosa e spesso accompagnata da nausea, vomito, sensibilità alla luce e ai rumori. Un’altra forma di mal di testa che ci può venire diagnosticata è quella tensiva dovuta all’infiammazione del nervo trigemino posto sotto le vertebre della cervicale. Il maggior responsabile in questo caso è lo stress e la tensione che si accumula nel collo, ma errate abitudini alimentari contribuiscono a tenere alta l’infiammazione.
Spesso i medici, poco esperti di alimentazione, non riescono a capire l’origine di cefalee ed emicranie. La medicina attuale continua così a concentrarsi solo sulla cura dei sintomi e le case farmaceutiche fanno a gara ad immettere sul mercato il dolorifico più efficace e soprattutto più veloce nel far cessare il fastidioso disturbo. Perché, qualsiasi tipo di mal di testa ci assale, è nostro desiderio che passi nel breve tempo possibile. In Italia circa 26 milioni di italiani soffrono di una delle 13 tipologie di cefalee identificate che gli esperti del settore hanno suddiviso in primarie e secondarie. Le primarie colpiscono il 90% delle persone sofferenti e, quando non si è riusciti ad individuare una causa precisa, nove volte su dieci, afferma David Perlmutter nel suo libro “La dieta intelligente”, questa potrebbe essere una sensibilità al glutine non diagnosticata.
In una ricerca condotta nel 2012 da ricercatori del Columbia University Medical Center di New York, è emerso che nel gruppo di studio, il mal di testa cronico colpiva:

• Il 56% delle persone sensibili al glutine pur essendo risultate positive al test della celiachia.
• Il 30% delle persone affette dal morbo celiaco.
• Il 23% delle persone che soffrivano di infiammazione cronica a livello intestinale.
• Il 6% delle persone sane appartenenti al gruppo di controllo.

Questi dati sono sufficienti ad indicarci come una risposta al mal di testa possa darla l’alimentazione e come questo disturbo abbia origine il più delle volte nell’intestino, organo maggiormente sofferente e che più accusa i colpi dell’alimentazione moderna, basata su un eccessivo consumo di carboidrati. È sufficiente eliminare il glutine dalla propria dieta per veder ridurre notevolmente la frequenza dei mal di testa ed in molti casi assistere alla scomparsa totale. È ciò che afferma la responsabile della ricerca, la Dottoressa Alexandra Dimitrova. Lo stretto legame tra glutine e mal di testa non è sfuggito nemmeno ad Alessio Fasano, il gastroenterologo pediatrico di fama mondiale e fondatore del centro di ricerca per celiaci presso il Massachussets General Hospital for Children.
L’emicrania infantile infatti è in netto aumento e non è un caso che molti dei bambini che soffrono di mal di testa cronici, siano anche sensibili al glutine e che adottando una dieta gluten free, i sintomi spariscano. Lo testimonia uno studio condotto su 88 bambini celiaci con mal di testa che ha evidenziato come, adottando una dieta senza glutine, il 77,3% di essi abbia registrato un notevole miglioramento e tra questi, il 27,3% non presentasse più alcun sintomo se perseverava nella dieta. Lo stesso studio, condotto da ricercatori italiani, ha rilevato inoltre, come il 5% di bambini che soffrivano di mal di testa e che apparentemente non erano celiaci, in realtà lo fossero.

PERCHE’ IL GLUTINE FA VENIRE IL MAL DI TESTA?

Il mal di testa non è altro che un processo infiammatorio che colpisce il cervello. La barriera ematoencefalica, a differenza di quanto si credeva fino a poco tempo fa, è permeabile e dunque può essere attraversata dalle citochine infiammatorie e dalle esorfine, prodotto della digestione di cibi contenenti glutine. Gli studi sui danni al cervello di queste ultime, sono appena iniziati, ma tra gli studiosi è forte il sospetto che le esorfine non siano responsabili solo dell’effetto dipendenza verso i carboidrati.

COME FANNO CERTE SOSTANZE INFIAMMATORIE AD ARRIVARE AL CERVELLO?

Tutto ha origine nell’intestino e nel momento in cui questo diventa permeabile, gli interstizi tra le cellule si diradano, le pareti diventano “bucate” per intenderci, e lasciano passare nel flusso sanguigno gli scarti della digestione del glutine altamente infiammanti. Attraverso questa via giungono ovunque, anche nel cervello. In modo particolare è la gliadina, una proteina presente nel glutine, a favorire un intestino permeabile inducendo la produzione di un’altra proteina, la zonulina che regola la permeabilità intestinale. Un eccesso di zonulina, fa rilassare le giunzioni delle cellule intestinali che iniziano a non funzionare bene e a lasciar passare nel torrente sanguigno la stessa gliadina. A questo punto il sistema immunitario va in allarme e si attiva un processo di rivolta contro l’organismo stesso. I linfociti T reagiscono scatenando fenomeni infiammatori contro le proteine intruse ed iniziano ad attaccare diversi organi del corpo. Possono raggiungere anche il cervello provocando mal di testa.

NON È SOLO COLPA DEL GLUTINE

Tutti i carboidrati in genere sono i veri responsabili della sindrome “dell’intestino bucato”. Un’alimentazione basata principalmente su pane, pasta, pizza, dolci, cereali integrali compresi, alimenta fortemente la disbiosi, l’alterazione dell’equilibrio della microflora intestinale e di riflesso, un alto rischio di accusare emicranie. Bypassando le mucose intestinali, nel flusso sanguigno vengono scaricate citochine e vari agenti infiammatori che giunti al cervello, esercitano un’azione dilatativa dei vasi sanguigni presenti nel tessuto cerebrale. La vasodilatazione di questi tessuti è la causa scatenante del mal di testa aumentando sia la sensibilità al dolore, sia il livello d’infiammazione.

GIROVITA E MAL DI TESTA

Anche questa associazione può sembrare strana, ma l’aumento del nostro girovita è direttamente proporzionale all’aumento del rischio di mal di testa cronici. Negli ultimi anni ricercatori del Drexel University College of Medicine di Philadelphia, stanno lavorando e raccogliendo dati provenienti dall’analisi di oltre ventiduemila partecipanti di età compresa tra i venti e cinquantacinque anni. La ricerca sta evidenziando come il grasso addominale in eccesso sia associato ad un aumento significativo dell’emicrania che nelle donne si traduce in un 30% di probabilità in più. Il grasso addominale infatti si comporta come una vera e propria ghiandola ormonale e secerne sostanze pro infiammatorie che danno origine a numerose manifestazioni di infiammazione in tutto il corpo, emicranie comprese.

EMICRANIE ED ECCESSO DI ISTAMINA NEL SANGUE

Il nostro sistema di difesa si basa sull’equilibrio tra le funzioni dei Th1 e Th2, linfociti regolatori della risposta immunitaria. Un equilibrio che oltre ad essere messo in pericolo da un consumo eccessivo di carboidrati, lo è anche da un eccesso di istamina nel sangue. L’istamina è una sostanza prodotta dalle cellule del sistema immunitario e dalle cellule nervose. È anche un neurotrasmettitore, aumenta l’attività dei neuroni e stimola una sovrapproduzione di linfociti Th2 e dei mastociti. Un eccesso di istamina nel sangue oltre che a scatenare allergie e intolleranze alimentari, è causa di infiammazione cronica e di mal di testa in quanto induce la vasodilatazione. Anche se l’organismo possiede enzimi per neutralizzare l’eccesso di istamina, il modo migliore per contrastare un’eccessiva produzione, è sempre quella di garantire una buona salute dell’intestino. Anche limitare cibi ricchi di istamina può contribuire a tenere lontano il mal di testa: attenzione ai formaggi stagionati, al cioccolato, al miele e vino, solo per citarne alcuni.

DISIDRATAZIONE E MAL DI TESTA

Può sembrare ancora più strano, ma spesso il mal di testa è sintomo di disidratazione dei tessuti cerebrali e introducendo almeno due litri di acqua calda al giorno, assunta lontano dai pasti, il disturbo scompare.

COME LIBERARSI DAL MAL DI TESTA?

Liberarsi dal mal di testa può essere facile se si adotta uno stile di vita sano. Ecco ciò che si può fare:

• rispettare un buon ciclo di sonno-veglia;
• perdere peso;
• fare attività fisica;
• tenere sotto controllo lo stress;
• eliminare il glutine;
• eliminare cibi industriali ricchi di conservanti e additivi;
• moderare i cibi ricchi d’istamina;
• bere un litro e mezzo/due litri di acqua calda lontano dai pasti;
• adottare un regime alimentare a basso contenuto di carboidrati;
• consumare grassi sani.

IN CONCLUSIONE

Anche se non è facile pensare che il nostro stile di vita e la nostra alimentazione possa essere la causa principale del nostro mal di testa, dovremmo sforzarci di ricordarcene. Se riduciamo tutti i fattori scatenanti l’infiammazione invece di ricorrere al primo medicinale che ci capita tra le mani, potremo esserne finalmente liberi.

03-03-2019

Vi siete mai chiesti cosa contengono davvero gli assorbenti e i tamponi che le donne utilizzano ogni mese? Diverse indagini hanno cercato di fare luce sulla questione, dato che non vi è trasparenza riguardo agli ingredienti con cui sono realizzati. Ora un nuovo test ha voluto analizzare 15 prodotti e ciò che ha trovato non è molto confortante. Purtroppo non esiste una regolamentazione che obbliga i marchi di assorbenti e tamponi a esporre la composizione dei prodotti, a meno che non abbiano all’interno una delle 26 sostanze allergizzanti elencate nel regolamento europeo sui cosmetici. E questo è senza dubbio il primo problema. Nonostante la normativa non lo imponga, alcune marche hanno deciso comunque di mostrare la lista ingredienti sulle confezioni o, in alternativa, sul loro sito web. 
Metà dei campioni presi per il test di cui parliamo oggi, e nello specifico quelli a marchio Saforelle, Love & Green, Tampax, Nett, Organyc, JHO e Natracare, hanno reso noti i componenti con cui sono realizzati i loro prodotti. In generale, quelli a base di cotone organico, tendono ad essere più trasparenti sui componenti di ciascuna parte dell'assorbente (superficie, cuore ecc.) rispetto a quelli di altre marche che si accontentano di mettere una meno dettagliata lista degli ingredienti, in alcuni casi visibile esclusivamente sul loro sito web.
Per scoprire i veri ingredienti delle altre marche analizzate, quelle che non riportano indicazioni di nessun tipo, l’associazione dei consumatori francesi 60 Million Consumers ha contattato direttamente il servizio clienti dei vari marchi che hanno promesso di mettersi in contatto a breve con i vari produttori per poi fargli sapere. Da parte di Carrefour, Doulys-E. Leclerc, Labell-Intermarché e Siempre-Lid non si è avuta però più alcuna notizia in merito. Ovvero le aziende hanno bypassato la richiesta. I produttori di Always, Nana, Nett e Vania hanno fatto sapere invece che stanno gradualmente aggiungendo la lista dei componenti al loro packaging, ma a volte vengono utilizzati termini generici come "polimeri" o "sintetici". Purtroppo, sottolinea 60 Million Consumers, in assenza di vincoli reali, le marche hanno poche possibilità di impegnarsi veramente fornendo tutte le informazioni necessarie.
Il dubbio riguardo a cosa contengano davvero questi prodotti che entrano in contatto con parti molto delicate della donna rimane, soprattutto relativamente al problema di eventuali contaminanti come glifosato e ftalati. L’associazione francese per la difesa dei diritti dei consumatori 60 Million Consumers, tramite i suoi laboratori, ha voluto testare 15 prodotti tra assorbenti e tamponi per verificare la presenza delle seguenti sostanze tossiche:

• Glifosato e il suo derivato AMPA.
• Ftalati.
• Diossine.
• Idrocarburi policiclici aromatici (IPA).
• AOX.
• EOX.
• Formaldeide.

Nonostante altre indagini e test effettuati negli scorsi anni dalla stessa 60 Million Consumers avevano individuato e segnalato contaminazioni da parte di sostanze tossiche, purtroppo queste, anche a distanza di tempo, persistono. Per quanto riguarda la presenza di glifosato, i Nana sono risultati gli assorbenti più contaminati, mentre nel caso dei tamponi, i Natracare (proprio quelli biologici) ne contenevano di più ma è stato trovato anche in Tampax e JHO. Un altro risultato non proprio piacevole riguarda la presenza di ftalati che non erano stati rilevati prima. Si tratta del DnBP per quanto riguarda il marchio Saforelle, ma soprattutto del DEHP, nel caso dei marchi Vania, Always, Siempre e Saforelle. A loro difesa, i produttori sostengono che pesticidi e altri residui non vengono aggiunti intenzionalmente (e ci mancherebbe altro!).
L'Agenzia per la sicurezza sanitaria già da tempo esclude comunque qualsiasi rischio grave, senza pronunciarsi però sul problema della presenza di possibili interferenti endocrini. I reali rischi della presenza di glifosato in questi prodotti è controversa e dibattuta. Va notato che l'Agenzia non classifica il glifosato come un sospetto perturbatore endocrino, a differenza di alcune organizzazioni non governative. Sembra manchino sufficienti dati scientifici per mettere fine a questo dibattito. Il problema, secondo la rivista dei consumatori, è che le soglie sanitarie, quando esistono, non sono state stabilite per l'esposizione attraverso la vulva o la mucosa vaginale. L'Agenzia comunque vuole essere rassicurante e resta cauta nelle sue conclusioni. Pertanto, esclude tutti i principali rischi, ma "raccomanda di eliminare o ridurre al massimo la presenza di queste sostanze nella protezione intima, comprese le sostanze con effetti CMR [cancerogeni, mutageni, tossici per la riproduzione]". Dai risultati del test sembra però che i produttori non si stiano impegnando in questo senso.

COSA POSSIAMO FARE?

È molto semplice, smettere di comprare assorbenti esterni o interni passando subito alla coppetta mestruale, un’alternativa comoda, ecologica e sicura. Un’altra possibilità è quella di utilizzare assorbenti lavabili.

 

https://www.60millions-mag.com/kiosque/tampons-serviettes-cups

30-01-2017

Una ricerca suggerisce che le vitamine del gruppo B, in particolare la vitamina B6, potrebbero aiutare a ridurre il rischio e l’incidenza di cancro al seno. Lo studio su 1.412 donne, effettuato dai ricercatori dell'University of Hawaii Cancer Center di Honolulu, ha trovato “che prediagnostiche concentrazioni plasmatiche di piridossal-5′-fosfato (PLP), una forma attiva della vitamina B6, può prevenire il cancro al seno”, secondo una sintesi dei dati. “I risultati hanno rivelato che i soggetti con più alte concentrazioni di PLP nel plasma, hanno avuto una riduzione del rischio di carcinoma mammario invasivo rispetto alle donne con più bassi livelli di PLP“. Questi risultati confermano quelli trovati in studi precedenti che indicano che le vitamine B possono avere un effetto nel prevenire tumori al seno, soprattutto nelle donne in pre-menopausa. Secondo i risultati pubblicati sulla rivista Journal of Epidemiology, le donne in pre-menopausa con la più alta percentuale di assunzione di folato nella dieta, hanno avuto un 40 per cento di ridotta possibilità di sviluppare il cancro al seno. Anche alte dosi di vitamina B6 diminuiscono la crescita di cellule tumorali, incluse le cellule tumorali mammarie. 
La vitamina B ha proprietà antinfiammatorie e antiossidanti, che servono anche a ridurre il rischio di cancro. ”Questo studio fornisce nuove prove che i livelli di vitamina B6 circolanti, possono essere inversamente correlati al rischio di cancro al seno in postmenopausa“, hanno dichiarato gli autori. ”Sebbene l’esatto meccanismo attraverso cui la vitamina B6 può ridurre il rischio di cancro al seno è attualmente sconosciuto, i dati di laboratorio mostrano che questo composto è fondamentale per lo sviluppo di vie multiple che potrebbero frenare la carcinogenesi del seno. In conclusione, questi risultati, in combinazione con le informazioni provenienti da altri due studi prospettici, suggeriscono che la vitamina B ha un ruolo nella prevenzione del tumore al seno in postmenopausa”. Studi precedenti hanno mostrato risultati simili: il folato si trova nei vegetali a foglia come spinaci e cime di rapa, agrumi e succhi di frutta, e legumi come fagioli e piselli. Questi prodotti sono diventati un fattore molto importante di apporto di acido folico nella dieta“, afferma una sintesi del National Institutes of Health. Altri studi hanno collegato le vitamine del gruppo B al ridotto rischio di cancro. Nel 2010, i ricercatori del Centro internazionale di ricerca sul cancro hanno trovato che una maggiore assunzione di vitamine del gruppo B ha portato ad una diminuzione del 50 per cento del rischio di cancro al polmone. I ricercatori hanno seguito 400.000 persone provenienti da 10 paesi europei per otto anni. Alla fine del periodo di studio, hanno scoperto che indipendentemente dal fatto che i partecipanti erano fumatori, non fumatori o ex fumatori, quelli con i più alti livelli ematici di vitamina B6 e metionina avevano il 50 per cento in meno di probabilità di sviluppare cancro al polmone rispetto quelli con livelli più bassi.

 

http://www.lifeextension.com/newsletter/2012/9/Higher-Vitamin-B6-Levels-Associated-With-Lower-Risk-Of-Invasive-Breast-Cancer/page-01

http://www.nutraingredients-usa.com/Research/Folate-may-reduce-pre-menopausal-breast-cancer-risk-Study

http://www.bbc.com/news/10318410

Venerdì, 01 Marzo 2019 08:57

RICARICHIAMOCI CON LA RODHIOLA.

02-03-2019

Lo studio ha esaminato la letteratura scientifica riguardante le sue proprietà salutistiche che sono attribuite al contenuto di un particolare flavonoide, la rosavina. Dai dati raccolti è emerso che la rhodiola a un dosaggio di 400-500 mg al giorno favorisce il rilascio di serotonina e dopamina, neurotrasmettitori coinvolti nelle funzioni cognitive, attenzione, memoria e apprendimento. La rhodiola (Rhodiola rosea) è una pianta appartenente alla medicina tradizionale dell’Europa orientale e dell’Asia, conosciuta per le proprietà antifatica e preventiva del mal di montagna. In qualità di adattogeno, la rhodiola aumenta la resistenza dell’organismo contro una vasta gamma di stressor chimici, biologici e fisici. Per chi ha problemi di fumo, la somministrazione di rhodiola ha diminuito i sintomi da astinenza da fumo di sigaretta. Inoltre, la rhodiola partecipa all’attivazione della lipasi tissutale, enzima che mobilita gli acidi grassi a partire dai trigliceridi, favorendo la mobilizzazione del grasso corporeo e, di conseguenza, la riduzione del peso in termini di massa grassa. Molto utile è anche per le prestazioni sportive, in quanto la rhodiola accorcia il tempo di recupero muscolare post-esercizio, migliora l’endurance e può contrastare l’insorgenza della fatica.

 

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27013349

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